Gli anni ’90 segnano forse il decennio più duro per la memoria della Resistenza, non soltanto in Italia. Essi si aprono infatti con il crollo del sistema internazionale nato dalla sconfitta del fascismo e, in particolare, con il crollo dei sistemi politici socialisti in Est Europa, che più degli altri trovavano la loro legittimazione nella lotta antifascista prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La revisione di Togliatti
In Italia la rivalutazione del fascismo era già in atto prima che il Muro di Berlino cadesse aprendo la strada alla demolizione della memoria in Europa orientale.
Ad ottobre 1989, ad esempio, il neo-direttore di Rai Due Giampaolo Sodano (quota PSI) presentando la propria linea editoriale alla stampa rivendicò apertamente «la stagione felice dell’Italia nel periodo del fascismo, gli anni fra il ’35 e il ’40». Le motivazioni, lungi dall’essere altrettanto apertamente rivendicate, furono invece nascoste da Sodano dietro i più triti e qualunquisti luoghi comuni: «c’era il dopolavoro nelle aziende», «c’erano quelle famose mille lire al mese», «si faceva molto cinema», «i miei genitori me ne hanno parlato come di un periodo molto felice».[1]
Ma non si potrebbe capire la difficoltà della memoria resistenziale negli anni ’90 senza osservare il procedimento di revisione in atto anche negli eredi dei suoi principali protagonisti e difensori. Il 20 agosto 1989 l’Unità, nei giorni del 25° della morte di Togliatti, aveva pubblicato in prima pagina un articolo di Biagio De Giovanni in cui si collegava il «dissolvimento di quello che una volta si chiamava “sistema socialista”» al «totalitarismo pervasivo e senza sbocchi» di Stalin, e Stalin a sua volta, insieme a Togliatti, alla fede – evidentemente illusoria – «nella superiorità e nella vittoria finale del mondo nato dalla rivoluzione del 1917». Vi sarebbe cioè stato un doppio Togliatti, quello filosovietico da condannare e per giunta «in diretta polemica con Gramsci» (!) e quello costruttore del partito nuovo, di cui però anche si diceva «siamo oggi come partito assai al di là della sua eredità», in quanto impegnati a delineare «una nuova sinistra che costruisce i suoi nuovi ideali di tolleranza, di democrazia, di pace».[2]
Seguire quel dibattito sarebbe di per sé interessante, se non altro perché Togliatti fu difeso da Andreotti al meeting di CL (24 agosto) e da Spallone sul Corriere della Sera (26 agosto), e perché anche un antifascista insospettabile come Nicola Tranfaglia scrisse sempre sull’Unità che «lo stalinismo in tutti i suoi aspetti è una pagina definitivamente chiusa nella storia del Pci […] questa parte dell’eredità togliattiana non può che essere rifiutata da un partito che pure per tanta parte è figlio di Togliatti»[3], senza avvedersi che era stato proprio Togliatti a rompere il legame di subordinazione con il PCUS e con l’URSS all’VIII Congresso del partito nel dicembre 1956.
Ciò che conta qui rilevare è invece l’impatto del dibattito: se nelle generazioni postbelliche gli schieramenti furono eminentemente politici, con la sinistra interna impegnata a difendere Togliatti per contrastare la svolta occhettiana, nella generazione resistenziale (Natta, Lama, Quercioli, Zangheri, Lina Fibbi, Cossutta…) si notò una tutela della memoria togliattiana più trasversale e diffusa e, anche, con una maggiore profondità di contestualizzazione storica.[4]
Ma fu soprattutto Pajetta, l’unico dirigente superstite della generazione precedente alla Resistenza, a entrare nella discussione con un potente richiamo, anche di natura personale, a quel periodo: «Ho potuto stare in carcere con serenità, per anni, perché fuori c’era Togliatti […] Se il Pci è diventato quello che è, lo deve a lui».[5] Al tempo stesso Pajetta respinse il riferimento polemico di Luciano Lama – “perché la DC non discute di Mario Scelba o di Lodovico Ligato?” – come un accostamento ingiurioso per la figura del Migliore. Ma, al di là di questa divergenza, anche Lama aveva attinto alla propria esperienza di combattente per preservare la figura togliattiana riconoscendole il merito di aver frenato gli istinti rivoluzionari che avrebbero condotto all’annientamento dei comunisti come accaduto in Grecia: «Noi pensavamo allora che si dovesse realizzare la rivoluzione comunista, pensavamo di vivere un momento di transizione. Avevamo la forza, le armi, la determinazione necessarie, almeno al di sopra della Linea Gotica».[6]
L’importanza di questi pronunciamenti sta prevalentemente nel fatto che tanto Pajetta quanto Lama provenivano dall’ala riformatrice del PCI. La loro posizione nel dibattito su Togliatti, e il dibattito stesso, indicava cioè non un’elaborazione di natura programmatica ma una revisione profonda della memoria antifascista, proprio mentre il PCI si schierava a sostegno dell’evoluzione politica nell’Est Europa che – si pensava allora – avrebbe coniugato il socialismo e la democrazia politica, invece di travolgere il primo e, qualche anno dopo, anche la seconda.
È da notare quanto vasto fosse il cerchio che si stringeva attorno alla memoria, se, proprio mentre Sodano rivalutava il fascismo, l’Avanti! definiva «Fürher» (sic!) il Presidente della Germania Est, ossia dello Stato che più di ogni altro traeva la propria legittimazione dalla lotta antifascista.[7]
La revisione della Resistenza: “Chi sa parli”
Questo processo di revisione si espanse in breve tempo fino ad attaccare a testa bassa anche la Resistenza, attacco che si sarebbe sviluppato un anno esatto dopo quello su Togliatti. Il 26 agosto 1990 una delegazione di socialisti reggiani si recò al cimitero di Casalgrande per commemorare il sindaco socialista Umberto Farri nel 44° dell’attentato, perpetrato da ignoti, che lo aveva ucciso. Nel corso del suo intervento il deputato Mauro Del Bue si rivolse esplicitamente a Otello Montanari, ex partigiano ed ex parlamentare comunista e all’epoca Presidente del Comitato per l’ordine democratico di Reggio Emilia, chiedendo di riaprire la ricerca storica sui fatti di sangue del dopoguerra.
L’appello non cadde nel vuoto. Sul Resto del Carlino del 29 agosto comparve un articolo a firma di Montanari intitolato Rigore sugli atti di “Eros” e Nizzoli e occasionato, ufficialmente, dal 45° dell’assassinio dell’ingegner Arnaldo Vischi, direttore delle Officine Reggiane freddato a Lemizzone il 31 agosto 1945. I nomi citati nel titolo erano il partigiano “Eros”, Didimo Ferrari, bracciante, carcerato politico, Medaglia d’Argento della Resistenza, e Arrigo Nizzoli, segretario del PCI reggiano nel dopoguerra. Il primo era stato condannato in contumacia per l’omicidio di Vischi ed era riparato in Cecoslovacchia; il secondo, a detta di Montanari, aveva cercato di coprire gli ex partigiani violenti e remato contro la linea moderata imposta da Togliatti. L’articolo sarebbe poi stato ricordato con le prime parole della sua conclusione: «Chi sa parli, dia un contributo, corregga e contesti anche questo mio scritto».
L’ironia del momento fu che gli stessi dirigenti comunisti che un anno prima avevano salutato il “dibattito” su Togliatti si affannarono ora a difendere il Migliore riscoprendone improvvisamente il ruolo di moderazione di cui già Lama gli aveva fatto merito e chiedendone anzi «una immediata riabilitazione» (Mussi).
Per riportare un minimo di rispetto alla memoria storica scese in campo perfino la Presidente della Camera, che ricordò personalmente il clima del dopoguerra reso ancor più incandescente dalle delusioni per il disarmo della Resistenza e l’amnistia ai fascisti: «Ricordo che venne da me, all’UDI, una compagna partigiana. Era furibonda e mi chiedeva di venire alla sua sezione. Ci andai. Sembrava una pentola di fagioli bollente, il segretario accusava il nostro gruppo dirigente. I socialisti attaccavano la legge Togliatti. Si alzò un compagno per sostenere: abbiamo capito perché lo ha fatto, quelli escono e poi ci pensiamo noi… Gli detti del pazzo ed egli rispose soltanto: “Eh no, quelli in galera ci devono stare”».[8]
L’Unità dette ampio spazio anche alla vicenda del comandante partigiano “Diavolo”, Germano Nicolini, ingiustamente condannato per l’omicidio di don Pessina a Correggio il 18 giugno ’46.
La valanga, però, era in moto. Lo stesso Del Bue rincarò la dose, esprimendo accuse aperte a Togliatti e al PCI nazionale non solo per i fatti del dopoguerra, ma anche per il terrorismo: «A Reggio avvennero quei delitti politici nel dopoguerra e proprio a Reggio, nell’agosto del 1970 (vedi il libro di Franceschini Mara, Renato ed io) vennero fondate le Brigate rosse. Sul piano culturale il filo rosso tra le due fasi è assicurato dal simbolico gesto del vecchio partigiano che, dopo aver custodito l’arma in casa, la offre al giovane rivoluzionario reggiano perché finalmente la usi».[9] Liano Fanti, che già negli anni addietro aveva denunciato il sopravvivente “stalinismo” dei comunisti reggiani, giunse ad accusarli persino di aver abbandonato deliberatamente alla morte i fratelli Cervi, poiché considerati «troppo estremisti e impazienti di lotta armata».[10]
La reazione fu compatta: a difesa della Resistenza fu stilata una lettera firmata da cinque esponenti del PCI, tutti ex partigiani e ciascuno con una storia personale estremamente significativa: Pecchioli, che era stato il dirigente più impegnato nella lotta al terrorismo; Tortorella, che gli era succeduto alla guida della sezione Problemi dello Stato; Lama, già segretario generale della CGIL; Boldrini, Presidente dell’ANPI dal 1947; infine Pajetta, l’ultimo superstite[11] del Comando Generale delle Brigate Garibaldi.
Anche la persona di Montanari fu criticata più o meno aspramente: Pajetta lo definì un pazzo e lo invitò a fare attenzione nel girare per Reggio Emilia (avrebbe poi precisato di riferirsi a una mera attenzione per la storia del territorio)[12], Lama più delicatamente lo definì «non molto cauto». Ma fu sul territorio che la contestazione fu più implacabile: esponenti più o meno illustri del partigianato definirono Montanari «un infame», un emulatore di Scelba, mentre tanti altri partiti politici (DC, PSI, MSI, PSDI, PR) ne approfittavano per un attacco diretto al PCI.
Fu soprattutto l’anziano dirigente sindacale a rivendicare con forza la «distinzione netta in partenza tra il significato etico-politico della Resistenza e quelli che sono stati episodi avvenuti nei primi mesi, nel primo anno dopo il ’45». Soprattutto vi era il richiamo ad approfondire la contestualizzazione delle condizioni sociali e personali dell’epoca: Lama, che come Pajetta aveva avuto un fratello ucciso durante la Guerra di Liberazione, ricordò: «Non mi sono preso le vendette, ma francamente lo stimolo a prendermele è stato forte»[13]; «Molti hanno coltivato con orgoglio il ricordo di quegli anni. Per me è stato un periodo terribile. Non l’ho mai rimpianto […] La Resistenza fu una battaglia terribile, disperata e atroce. Vivevamo nascosti nelle buche dei campi di granturco. Eravamo circondati da nemici: non erano solo i tedeschi e i fascisti, c’erano le spie, ti potevano tradire in ogni momento. Vedevamo sparire i nostri compagni, fucilavano famiglie intere. Eravamo sopraffatti dal dolore, dalla rabbia».[14]
Tra maggio e giugno 1991 Montanari fu espulso dal direttivo provinciale dell’ANPI di Reggio Emilia e poi escluso dal Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Cervi.[15] L’espulsione dall’Associazione partigiani provocò le ire del PSI e dell’ala riformista del PDS (nato a febbraio ’91 dallo scioglimento del PCI), ma ancora una volta queste divisioni politiche riguardarono soprattutto le generazioni postbelliche. Il socialista Giulio Mazzon, vicepresidente nazionale dell’ANPI, osservò infatti che «alla fine della Resistenza i partigiani avrebbero dovuto sparare qualche raffica in più».[16] La difesa di Mazzon fu anzi, almeno nei toni, ancora più accalorata di quella di Boldrini: «Non siamo un’associazione di delinquenti, ma di partigiani che hanno combattuto una guerra ed hanno sepolto i loro morti. Le vittime del dopoguerra sono da mettere, anche queste, a carico del fascismo. Noi abbiamo giocato la nostra pelle e quella delle nostre famiglie, ed adesso, quando sentiamo che qualcuno ci vuole mettere sul banco degli imputati, ci viene da pensare che qualche italiano non ci meritava».[17]
La condanna di Montanari fu ancora più forte sul territorio. Nel corso della riapertura del caso don Pessina egli fece i nomi di tre ex partigiani che, a suo dire, conoscevano i responsabili dell’omicidio. Questa dichiarazione pubblica fu interpretata come la conferma di un’accusa diretta, rivolta in sede di interrogatorio giudiziario, ai tre partigiani citati. Uno di loro, William Gaiti, giunse allo scoperto il 10 settembre assumendosi ogni responsabilità per il delitto avvenuto a Correggio il 18 giugno 1946. Questa dichiarazione, che scagionava completamente Nicolini – che nel 1996 avrebbe ottenuto dallo Stato un risarcimento pecuniario per l’ingiusta condanna[18] – fu accolta con viva soddisfazione dalla sinistra reggiana. Ma, mentre “Diavolo” ringraziò pubblicamente anche Montanari per l’impegno profuso nella ricerca della verità[19], il commento del segretario provinciale del PDS fu gelido: «non è stato né punito né emarginato […] non posso alzarmi tutte le mattine e difenderlo. Il Pds ed io siamo stati fortemente critici quando è stato espulso dagli organi dirigenti dell’ANPI. Ma posso dire che se Montanari pretende di essere la bandiera della “glasnost”, si sbaglia».[20]
Nell’autunno ’91 la polemica sulla Resistenza conobbe un salto ulteriore con la pubblicazione del volume di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, il cui titolo faceva riferimento ad una delle componenti individuate dall’autore nella guerra di Liberazione, oltre alla guerra patriottica e alla guerra di classe. Difendendosi dall’accusa di aver sposato una tesi neofascista, Pavone – egli stesso un ex partigiano – rilevò che adottare l’interpretazione della guerra civile non solo non equiparava patrioti e fascisti, ma, al contrario, ne esasperava le differenze poiché in una guerra civile ciascuno dei campi nega all’altro la condizione di concittadino.[21]
Come nel caso Montanari, la buona fede delle intenzioni storiografiche servì a lastricare una strada di speculazione politica.
Le fiamme del caso Montanari non si fermarono, anzi continuarono a prosperare, aiutate dal venir meno, sia nelle condizioni politiche sia nelle personalità dirigenti, dell’arco costituzionale che aveva ricostruito l’Italia negli anni Quaranta.
A dicembre 1991 un sussidiario Bignami per l’esame di maturità parlò di «orrori compiuti dai partigiani prima della liberazione», coinvolgendo dunque nella condanna non solo i fatti di sangue del dopoguerra ma la stessa lotta antinazista, descrivendo in un brutale rovesciamento della realtà «squadriglie antinaziste, capaci di crimini che per molti decenni sono rimasti nell’ombra […] violenze e torture degli aguzzini, quegli stessi partigiani dei quali una certa matrice politica ha tentato di interpretare l’attività come unico tentativo effettivamente riuscito di contrastare il passo alla dittatura» e sostenendo che Mussolini fosse stato fucilato senza un processo regolare.[22]
Il 13 maggio 1993, durante la votazione al Senato per concedere l’autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio Andreotti imputato per mafia, l’allora deputato del PLI Vittorio Sgarbi, presente nelle tribune, urlò «Taci, assassino!» ad Arrigo Boldrini, all’ultima legislatura per il PDS.
Nel generale discredito del sistema politico, tra il disfacimento del pentapartito sotto le accuse di Tangentopoli, le «picconate» del presidente Cossiga e l’ascesa della Lega Nord, vi fu il tentativo di indirizzare a sinistra il cambiamento in atto, elaborando una peculiare variazione sul tema della “Resistenza tradita”. Il 25 aprile 1992 Luciano Lama osservava non solo che, a distanza di quasi mezzo secolo, permanevano disuguaglianze di classe non minori di allora, ma che le forme clientelari del consenso avevano svuotato dall’interno l’edificio democratico, mettendo in pericolo le conquiste della Resistenza. Tornando alla lotta per l’attuazione della Costituzione, così centrale per la sinistra nei decenni precedenti, l’ex segretario CGIL osservò amaramente: «la polvere del tempo si è fermata su quelle norme e le ha oscurate», con una Costituzione materiale che ormai soffocava quella formale. La polvere del tempo e, soggiungeva, «ancor più l’azione degli uomini». Ma, accanto all’appello per riportare a piena luce le istanze resistenziali sepolte dal malgoverno, Lama esprimeva lo sdegno per il comportamento di Cossiga che «non ha esitato a legittimare il MSI quasi che fosse un partito come gli altri […] Non c’è spirito di vendetta in me né sostengo che ogni missino è fascista. Ma di fronte a un partito che rivendica apertamente quell’ascendenza non possiamo rimanere indifferenti».[23]
L’anno seguente non sembrava ancora evidente dove si sarebbero depositate le conseguenze della crisi in atto, ma proprio nei giorni della Liberazione il socialista Giuliano Amato, annunciando alla Camera le dimissioni del governo, operò una considerazione accolta con rigetto dalle opposizioni di sinistra (PDS, PRC, La Rete) ma anche da esponenti democristiani e socialisti, e condivisa invece dai soli deputati pannelliani e leghisti[24], ovvero l’essere di fronte a «un autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settant’anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale», proseguendo poi ad accomunare in un’unica categoria l’Italia di allora con la Spagna franchista, il Sudafrica dell’apartheid e gli ex Stati socialisti est-europei.[25]
Fu D’Alema, per il PDS, a rilevare come quel giudizio fosse carico di conseguenze per il futuro: oltre all’implicita rivalutazione del fascismo, esso liquidava brutalmente la democrazia organizzata in partiti e quindi, se rigorosamente applicato, avrebbe condotto a «buttare via il buono di una democrazia organizzata e partecipata dai cittadini e conservare l’acqua sporca di una classe dirigente che ha governato con la corruzione e l’illegalità».
[Continua nei prossimi giorni]
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https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/10/11/sodano-bello-il-fascismo.html ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1989/08/20/issue_full.pdf ↑
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Si leggano ad esempio le considerazioni di Lama e Quercioli: «Ma che cosa doveva fare Togliatti? chiede polemicamente Lama. “Doveva dire di no a Stalin e sacrificarsi come altri dirigenti comunisti? Che cosa sarebbe successo se il Pci avesse fatto la fine del Pc polacco?”» (Luciano Lama alla Festa nazionale dell’Unità, 1° settembre 1989); «trovo insufficiente la risposta de l’Unità nel 40° [sic] anniversario dell’inizio della guerra […] Si sono lasciate così in ombra non solo le responsabilità delle socialdemocrazie nella prima guerra mondiale, ma anche quelle per impedire la II» (Elio Quercioli al Comitato centrale del 2-4 ottobre 1989). ↑
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https://avanti.senato.it/avanti/js/pdfjs-dist/web/viewer.html?file=/avanti/files/reader.php?f%3DAvanti%201896-1993%20PDF_OUT/16.%20Avanti%20Ed.%20Nazionale%201977-1989%20OCR/Ocr%20-D-/Avanti%20Ed.%20Nazionale%20dal%201988%20-02%20Gennaio%20pag.%2001%20al%20%201989%20-31%20dicembre%20pag.%2040/CFI0422392_19891011.93-238_0001_d.pdf ↑
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https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/08/31/quei-delitti-che-scuotono-il-pci.html ↑
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Secchia era scomparso nel 1973; Longo e Amendola nel 1980; mentre il quinto, Antonio Carini, era stato barbaramente scempiato dai fascisti nel 1944. ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1990/09/07/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1990/09/08/issue_full.pdf ↑
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https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/09/08/ora-il-momento-di-ricordare.html ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1991/06/15/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1991/05/21/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1991/05/31/issue_full.pdf ↑
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https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/02/09/non-uccise-don-pessina-avra-miliardi.html ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1991/09/12/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1991/09/14/issue_full.pdf La profondità dei solchi lasciati sul territorio dagli eventi storici è evidente anche dal confronto con un altro fatto politico che aveva agitato il reggiano, ossia l’espulsione di Magnani e Cucchi (quest’ultimo Medaglia d’Oro della Resistenza) dal PCI nel 1951 per aver messo in dubbio il potenziale di liberazione di un eventuale intervento militare dell’Armata Rossa. Nel 1963 il PCI nazionale intese ricandidare alle elezioni politiche Magnani, col quale si era nel frattempo riconciliato, ma fu costretto a desistere dalla viva protesta delle sezioni reggiane che lo consideravano ancora un traditore. ↑
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https://web.archive.org/web/20130410023257/http://www.isral.it/web/web/risorsedocumenti/intervisteonline_Pavone.htm ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1991/12/17/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1992/04/25/issue_full.pdf ↑
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http://legislature.camera.it/_dati/leg11/lavori/stenografici/stenografico/34738.pdf ↑
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http://legislature.camera.it/_dati/leg11/lavori/stenografici/stenografico/34736.pdf ↑
Immagine da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.