Apogeo dell’antifascismo e nascita del craxismo
Dopo il 1974, ultima tappa dell’attacco golpista di tipo tradizionale, il periodo 1975-77 aveva segnato il culmine dell’espansione delle forze di sinistra in Italia e la solidarietà nazionale del 1976-78 il culmine dello Stato repubblicano.
L’influenza dell’antifascismo dentro le istituzioni italiane aveva anzi raggiunto apparentemente un nuovo picco a luglio 1978 con l’elezione al Quirinale di Sandro Pertini avvenuta, sia pure tardivamente (sedicesimo scrutinio), con un amplissimo consenso (83%) esteso da Democrazia Proletaria al Partito liberale.
L’elezione di Pertini in realtà mascherava il dissenso del PSI, che lo aveva presentato come candidato da bruciare in attesa di poterlo sostituire con un altro nome socialista (Vassalli) più gradito a Craxi.
Il ritorno ufficiale della DC a una pregiudiziale anticomunista a febbraio 1980 segnò, assieme alla marcia dei quarantamila in ottobre dello stesso anno e alla formazione del primo governo di pentapartito nel giugno 1981, il delinearsi nel Paese di una nuova situazione politico-sociale che poneva in secondo piano l’influenza del PCI e del movimento operaio, stante il contestuale mutamento del PSI in partito dei ceti medi consumisti emersi dalle trasformazioni culturali degli anni Settanta.
Il ricordo della Resistenza cambiò di conseguenza. Se, da un lato, il PCI continuò ad insistere, sempre più stancamente, sulla questione dell’unità di tutte le forze popolari e democratiche, il PSI tramite la rilettura della figura di Garibaldi tornò a ricollegare la Resistenza al Risorgimento. Quest’operazione ebbe due conseguenze: da un lato, il depotenziamento della carica di rivoluzione democratica della Resistenza stessa, che veniva neutralizzata tramite l’accostamento ad un eroe popolare certamente democratico ma assai lontano nel tempo e comunque con un’influenza davvero scarsa nella vita dello Stato. Dall’altro lato, il PSI poté impiegare questa nuova interpretazione della Resistenza, così fusa con quella di una parte del Risorgimento, per legittimare il tentativo non già di attuare la Costituzione del 1948, bensì di cambiarla profondamente.
A sostegno di queste tesi si impegnò un giornalista revisionista come Arrigo Petacco che, sull’Avanti!, individuò in Garibaldi il precursore delle tattiche di guerriglia partigiana per poi definire come suoi eredi l’area liberalsocialista esule in Francia negli anni ’30, escludendo quindi i comunisti dalla tradizione resistenziale italiana.[1]
Il 25 aprile 1982, unendo la ricorrenza partigiana alla celebrazione del centenario della morte di Garibaldi, Craxi tenne a Marsala un lungo discorso in cui esprimeva la propria reinterpretazione dell’eroe dei due mondi. Respingendo «l’immagine di un Garibaldi ateo, anticlericale, nemico acerrimo della Chiesa Cattolica» il segretario socialista riscoprì invece «uno spirito profondamente religioso», padre di un «socialismo umanitario, intessuto di principi etici e di valori cristiani».[2] La Resistenza qui fu soltanto un’occasione per introdurre nella riflessione un altro periodo storico e, tramite questo, continuare l’attacco al socialismo classista che già Craxi aveva apportato nell’agosto 1978 contrapponendo a Marx il «Vangelo socialista» proudhoniano.
Con l’attacco netto al PCI il PSI si poneva alla guida del tradizionale gruppo anticomunista liberale e socialdemocratico, ora alleato nel pentapartito, e dietro cui stava la destra democristiana.
Questo attacco fu rinnovato nel 1984 e collegato a una rilettura non solo della Resistenza ma di tutta la vita costituzionale del Paese. Con Craxi alla guida del governo e il PSI avviato verso il XLIII congresso, proprio in occasione del 25 aprile Claudio Martelli controbatté ad alcune «obiezioni» alle tesi socialiste, lasciando per ultima «la questione del decisionismo». La riforma costituzionale nel senso di una restrizione del ruolo parlamentare sarebbe stata dettata, a giudizio di Martelli, dall’ambiguità derivante dal sistema corrente, nel quale il PCI, esercitando un potere di condizionamento parlamentare giudicato improprio, «non governa, ma legifera; altri governano ma non possono legiferare senza il PCI», il quale avrebbe imposto «il non-governo in cambio della non-opposizione».[3]
Lo scontro aperto contro questo presunto potere parlamentare dei comunisti era stato lanciato dal governo a febbraio ’84 con il taglio della scala mobile di tre punti percentuali per mezzo di un decreto-legge. Il referendum abrogativo si sarebbe tenuto nel giugno 1985, in un anno che fu, per più di un motivo, centrale nel riorientamento della memoria della Resistenza.
1985: lo scontro PCI-PSI nel 40° della Liberazione
Il primo attacco alla Resistenza avvenne il 24 gennaio 1985, quando il governo Craxi decise la scarcerazione di Walter Reder, il maggiore delle SS che stava scontando l’ergastolo per la strage di Marzabotto ed altri eccidi commessi durante l’occupazione. La motivazione ufficiale da parte italiana fu che la scarcerazione era la mera applicazione di convenzioni internazionali: Reder aveva già ricevuto la libertà condizionale nel 1980 e quindi avrebbe potuto continuare, per ragioni di salute, a scontare la pena restante in territorio austriaco. La notizia fu data in Italia a trasferimento avvenuto, quando Reder era già in Austria dove non solo non avrebbe continuato alcun regime di detenzione, ma era stato anche ricevuto personalmente dal ministro della Difesa.
I fiancheggiatori del PSI elogiarono la decisione, con Pannella che definiva la carcerazione di Reder «sequestro, violenza incivile, barbarie giuridica» e Costa che dichiarò: «Per Reder e per i familiari delle vittime sono passati 40 anni; per la società italiana, nonostante la nefandezza di certi delitti di ieri e di oggi, sono passati mille anni. Siamo lontani secoli dalla mentalità che generò Marzabotto».[4]
Fecero qui la loro comparsa alcuni temi che avrebbero avuto un certo successo, negli anni a seguire, nella denigrazione della Resistenza. L’equiparazione tra carnefici e vittime, il disinnesco della pregiudiziale antifascista tramite il pretesto del trascorrere del tempo, il rovesciamento dell’accusa di violenza su chi avesse inteso proseguire la punizione inflitta ai criminali nazisti. Nello stesso periodo, va tenuto presente, si discuteva di concedere la grazia a Rudolf Hess, l’ultimo condannato di Norimberga ancora internato a Spandau, grazia che non arrivava e non arrivò mai per via dell’opposizione sovietica.
L’accusa del PCI che la scarcerazione di Reder fosse un «segnale inquietante» fu sprezzantemente snobbata sulle pagine dell’Avanti!, mentre per la prima volta maggioranza e opposizione si dividevano apertamente sul tema dell’antifascismo: superato per il pentapartito, per il PCI invece ancora attuale e vitale come «valorizzazione piena dell’esperienza storica che ha portato alla democrazia e alla Repubblica e della comune matrice delle forze democratiche italiane».[5]
Ma era proprio sulla rottura di questa unità, estesa anche ai comunisti nella formula dell’arco costituzionale, che il PSI stava insistendo per giungere a rompere anche l’espressione istituzionale di quel patto, ossia la Costituzione. A questo fine, la scomposizione dell’arco antifascista presupponeva già la costituzione di alleanze di tipo nuovo per le nuove istituzioni italiane.
La celebrazione del XL della Liberazione fu quindi assai meno retorica che negli anni passati e teatro di un secondo scontro PCI-PSI. L’Unità denunciò in un editoriale di Tortorella una «democrazia insidiata», indebolita da «una offensiva pesante» contro la Resistenza, «una rivalutazione strisciante del fascismo e del nazismo», l’accoglimento dei neofascisti nella comunità politica tramite l’equiparazione della loro «buona coscienza» a quella dei partigiani. E, infine, una democrazia indebolita dal vero obiettivo cui quell’attacco ideologico metteva capo: una «campagna sistematica contro il Parlamento».[6]
La rivalutazione del fascismo veniva letta da Tortorella in relazione con l’analogo processo in atto negli Stati Uniti per mano di Reagan, che dopo la demolizione dell’eredità di Roosevelt e la ripresa di un’accanita guerra fredda contro l’URSS era in procinto di recarsi a un cimitero militare delle SS.
L’accusa di rilegittimazione del fascismo rivolta a Craxi non era nuova; anzi, negli anni addietro era giunta con termini assai più forti anche da alleati e compagni di partito. Già ad aprile 1982, intervenendo al congresso della DC emiliana, Beniamino Andreatta aveva dichiarato che il PSI «promettendo ai piccoli e medi imprenditori o operatori un maggior vigore nei confronti dei sindacati, nei confronti della magistratura […] avvicina il paese alla pericolosa avventura di un nazional-socialismo». Il ministro DC si sarebbe corretto parzialmente dicendo di aver reso all’inglese la formula “socialismo nazionale”, ma, anche dal punto di vista grammaticale oltre che politico, i termini dell’accusa non cambiavano. Ma già a dicembre 1979 Riccardo Lombardi aveva denunciato: «Craxi guida il partito secondo i criteri del Führerprinzip». La scelta di un termine così forte non era certo casuale da parte di un uomo che nel 1945 aveva rappresentato il Partito d’Azione ai massimi livelli del movimento partigiano.
La contesa tra PCI e PSI per il quarantennale della Liberazione assunse tratti di scontro molto aspri, dietro i quali stavano certamente la campagna referendaria allora in corso, ma anche una visione diversa se non opposta del legame tra Resistenza e istituzioni. Se l’Avanti! del 25 aprile ospitava interventi celebrativi tra i quali anche una richiesta di «dare attuazione piena alla carta costituzionale» da parte di Aldo Aniasi, le pagine non dedicate alla ricorrenza erano infarcite di un anticomunismo non solo occasionalmente polemico ma ideologicamente agguerrito e a tratti apertamente revisionista, la cui vetta massima fu certamente una paginata a sette colonne di sapore guareschiano: Stalin abita ancora a Reggio Emilia?, a firma di Liano Fanti, un esponente reggiano passato dal PCI al PSI nel ’56, in cui si accusavano i comunisti locali di una tolleranza ideologica di lunga data nei confronti delle Brigate Rosse.
Le fila dell’offensiva vennero tirate dal giornale socialista nell’edizione del 26 aprile, in cui un editoriale dall’eloquente titolo 25 Aprile ’45: un ricordo senza miti si rivolgeva dichiaratamente ai «ventenni del 1985 – nati dunque vent’anni dopo la Resistenza – […] lontani mille miglia dalla retorica commemorativa». In questa lettura la Resistenza era vista come la scaturigine di un percorso di trasformazione sociale modernizzatrice di cui restava ancora incompiuto però l’aspetto istituzionale. La forma di governo parlamentare diveniva così non il frutto costituzionale della Resistenza ma, all’opposto, un ostacolo sulla strada dell’azione rinnovatrice dell’esecutivo. L’ultima parte dell’analisi era dedicata a una serrata critica delle considerazioni di Tortorella, le quali «contrasta[vano] singolarmente con questo significato che in generale si è voluto dare alla ricorrenza di ieri». Derubricando tuttavia il reale peso politico del PCI, l’articolo concludeva con un «per fortuna i giovani non vogliono più sentire parlare di miti».
Il terzo atto dell’erosione al fondamento antifascista dell’arco costituzionale, e quindi della Costituzione e delle istituzioni, sarebbe arrivato a giugno, pochi giorni dopo la vittoria governativa e la sconfitta comunista nel referendum contro il taglio della scala mobile. Scadendo il mandato di Pertini, i partiti furono chiamati a gestire l’elezione del Presidente della Repubblica. Il segretario democristiano De Mita, volendo isolare tanto Craxi quanto i suoi alleati all’interno della DC, scelse una consultazione prioritaria con il PCI con l’obiettivo di eleggere rapidamente il Capo dello Stato nei primi scrutini (16 ne erano stati necessari nel ’78, 23 nel ’71, 21 nel ’64).
Il segretario socialista, nell’impossibilità di interrompere il dialogo tra i due maggiori partiti per via dell’aspra polemica in corso con il PCI, scelse di giocare su un terzo tavolo, cercando cioè un’apertura con il MSI. Il 19 giugno Craxi incontrò infatti il segretario missino Almirante, esponendosi alle polemiche non solo dei comunisti – i quali dal canto loro inserivano tra i requisiti del futuro Presidente «il contributo dato alla Resistenza»[7] – ma anche di quei democristiani che già, come Flaminio Piccoli, avevano chiesto di coinvolgere il MSI nelle consultazioni.[8]
Ovviamente, non era certo la prima volta che i neofascisti entravano nella partita del Quirinale, della quale anzi erano stati gli arbitri ultimi già nel 1962 e nel 1971, consentendo con i propri voti – si presume non in cambio di niente – l’elezione dei candidati della destra DC. La novità stava invece in un altro aspetto, quello comunicativo. Gli accordi DC-MSI erano stati fatti, ma tacendoli, almeno da parte democristiana, per un sentimento di pudore. Era invece la prima volta che un partito democratico di governo coinvolgeva apertamente la Fiamma nella trattativa quirinalizia.
Ma non era la prima volta di un avvicinamento tra i due partiti. Già nell’estate 1983, costituendo il governo, Craxi aveva coinvolto il MSI nelle consultazioni e già allora era emersa un’intesa di fondo su quanto Almirante alla Camera definì «dopo circa 40 anni, la volontà […] di rivedere integralmente le istituzioni, non per renderle meno garanti di libertà e di diritti, ma per renderle, se possibile, molto più garantiste e di diritti e di libertà».[9] Il tentativo craxiano di coinvolgere il MSI nelle istituzioni non era cioè una mera sgomitata tattica volta a spezzare il rapporto DC-PCI, bensì era funzionale a un organico progetto di ristrutturazione istituzionale imperniata su una profonda svolta di destra.
La rivalutazione del MSI
La vicenda del Quirinale nel 1985 fu persa da Craxi, costretto a fare buon viso a cattivo gioco e appoggiare la candidatura di Cossiga che, sostenuta anche dal PCI, si impose subito al primo scrutinio. Tuttavia il rapporto col MSI proseguì su altre strade: il 1° agosto ’85 i trentasette deputati del MSI presenti alla votazione furono determinanti per la conversione in legge del terzo e ultimo decreto per mantenere l’operatività nazionale delle reti televisive del gruppo Fininvest.[10] All’apertura della successiva legislatura, nel luglio 1987, il MSI avrebbe ottenuto per la prima volta la presidenza di una commissione parlamentare (la Giunta per le elezioni della Camera) grazie ai buoni uffici del PSI.
Le compatibilità PSI-MSI sulle questioni delle riforme istituzionali e del decreto televisivo non erano forse troppo distanti. Dopo il 1974, terminata la stagione golpista, la strategia del fascismo per riottenere il potere in Italia si convertì ad un percorso più morbido e schierato su un’offensiva non più militare. L’obiettivo diveniva quello di manovrare le istituzioni italiane – nel loro senso più ampio, includendovi quindi partiti, sindacati, stampa, magistratura, economia – dall’interno, attraverso la presenza di elementi fiduciari.
La concretizzazione più nota di questa operazione fu senza dubbio la loggia massonica coperta P2. Il suo «Piano di rinascita democratica» prevedeva un disegno non di colore fascista bensì tecnocratico, da attuarsi tramite la riduzione dei poteri legislativo e giudiziario rispetto all’esecutivo, la stretta riduzione della spesa pubblica, la restrizione degli spazi di controllo democratico (controllo su stampa e sindacati, riduzione delle Regioni, abolizione delle Province, corporativizzazione del Senato ed espansione delle funzioni del CNEL, accorpamento di tutti gli appuntamenti elettorali).
Negli anni Ottanta non si giunse ad alcuna riforma costituzionale, l’unico movimento in tal senso restando costituito dalla nascita di una Commissione bicamerale speciale presieduta dal liberale Aldo Bozzi e che operò tra il novembre ’83 e il gennaio ’85. L’esigenza di riformare un sistema politico considerato farraginoso toccò anche il PCI, favorevole a una sola Camera di 420 deputati e all’epoca ancora guidato da un gruppo formatosi nella Resistenza (Natta, Tortorella, Iotti…).
La questione delle riforme fu tuttavia uno dei terreni di opportunità per lo sdoganamento del fascismo e l’ulteriore attacco alla memoria della Resistenza. Memoria che negli anni ’80 possiamo col prof. De Luna definire «celebrativa» se con tale aggettivo si vuole alludere a ciò che essa non era più: né militante come nel decennio addietro, né progettuale come negli anni ’60.
[Continua nei prossimi giorni]
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Immagine da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.