Anni 1960
«La memoria della Resistenza degli anni Sessanta è una memoria progettuale», ha affermato De Luna. In effetti il decennio si apre proprio con la chiusura, turbolenta ma definitiva, del possibile ritorno dei fascisti al potere per il tramite di un’alleanza con la DC. Da questa chiusura viene rinsaldata una pregiudiziale antifascista che resterà ufficialmente condivisa da tutto l’arco costituzionale per circa una generazione.
Per inquadrare storicamente il contesto è utile ripartire dall’appoggio esterno del MSI al governo Zoli nel 1957; il governo restò in carica fino alle elezioni dell’anno seguente, dopo le quali si formò il secondo governo Fanfani (luglio 1958) che fin dalla composizione bicolore DC-PSDI si orientava dichiaratamente verso il centrosinistra. Per tutta la prima parte della legislatura il partito di maggioranza fu dibattuto tra le alternative del blocco di destra e dell’apertura a sinistra. Dopo Fanfani, infatti, il secondo governo Segni (febbraio 1959) fu un monocolore DC che si reggeva sull’appoggio esterno di liberali, monarchici e missini. Già all’inizio di tale esecutivo il PCI propose la costituzione di un nuovo, più ampio Fronte popolare che comprendesse anche i socialdemocratici e i repubblicani.
La proposta fu respinta, perché anche i più accesi fautori del centrosinistra (ad esempio, la sinistra del PSDI) mantenevano la pregiudiziale anticomunista.
Il governo Tambroni
Tuttavia, i fatti del governo Tambroni segnarono una parziale realizzazione dell’intento frontista. Ministro uscente del Bilancio, l’esponente DC marchigiano ricevette da Gronchi un incarico vincolato all’approvazione del bilancio dello Stato entro la scadenza autunnale. Egli formò un monocolore che ricevette alla Camera l’appoggio esterno del solo MSI, con tutto il resto dell’emiciclo all’opposizione. La tensione nello Scudo crociato fu tale che il governo si dimise immediatamente; Fanfani, incaricato, rinunciò a trovare una maggioranza di centro-sinistra per via della tenace opposizione delle correnti di destra. Rinviato il governo dimissionario al Senato il 23 aprile 1960, il 29 aprile vi si ripeté lo schieramento bianco-nero di Montecitorio.
Come è facile immaginare, la coincidenza temporale di questi eventi con il 15° della Liberazione caricò di ulteriore significato il momento politico, anche visti gli atteggiamenti apertamente provocatori da parte fascista – ad esempio, il 27 aprile i senatori missini entrarono in Aula, per sorreggere il governo Tambroni, solo dopo la commemorazione del quindicennale.
Se la memoria resistenziale degli anni ’50 era «difensiva», è proprio nel 1960, nel momento cioè di maggiore attacco reazionario, che si rivela quel collegamento Resistenza-Costituzione formale-attuazione materiale enucleato nel decennio precedente e che la presenza di questa fondazione progettuale consente di respingere l’aggressione. I ricordati princìpi vengono esposti da Reichlin nell’editoriale su l’Unità del 26 aprile, significativamente intitolato «Per andare avanti»[1]; ma è utile partire proprio dalla commemorazione al Senato del 27 aprile.[2]
Se il DC Zelioli Lanzini rese un intervento venato di anticomunismo e in cui rivendicava un ricordo «non, specialmente in questo momento, per una polemica politica, o per destare rancori o riaprire ferite che la pietà dei buoni e il sentimento del reciproco perdono vanno rimarginando», Ferruccio Parri evitò di esprimersi sull’attualità se non in modo generico («se questa Costituzione democratica merita di essere scritta nel bronzo, sono ancora da fare i democratici. Le carenze della nostra vita nazionale sono ancora, a mio parere, quasi in tutti i settori»), cercò di conciliare la retorica risorgimentalista con «lo sforzo ascensionale delle classi lavoratrici» e però rivendicò anche l’unicità della Resistenza italiana nel panorama europeo, perché lotta non solo antitedesca ma anche contro il fascismo interno.
L’intervento di Secchia, invece, non solo fu estremamente polemico nei confronti della DC – del resto anche l’Avanti! il 26 aprile aveva pubblicato un elenco di senatori democristiani con trascorsi resistenziali, per denunciarne il tradimento nell’accettare l’appoggio missino[3] – ma citò esplicitamente il termine di «guerra civile», pur rivendicando al contempo che la Resistenza aveva unito, e non diviso, l’Italia: «noi non abbiamo chiesto e voluto la guerra civile. La guerra civile ci fu allora imposta dai tedeschi e dai fascisti. Noi l’abbiamo accettata come una dolorosa necessità».
La scelta del PCI di affidare il ricordo, con questi toni così duri, proprio a Pietro Secchia, che dopo il ’45 era stato a capo dell’ala più staliniana e più rivoluzionaria del partito e che più di ogni altro dirigente, persino di Longo, si era identificato con la temperie della lotta armata, non appare affatto casuale. I primi contraccolpi nel mondo resistenziale vi furono già lo stesso 29 aprile, quando tra i sì a Tambroni si contò anche quello di Raffaele Cadorna, già comandante generale del Corpo Volontari della Libertà, il quale, senatore indipendente nelle liste della DC, motivò il proprio voto favorevole con l’assenza di qualsiasi alternativa a un governo dichiaratamente «d’affari», o, si direbbe oggi, di scopo. Cadorna, che solo quattro giorni prima aveva ricevuto la medaglia d’oro dal Comune di Milano assieme agli altri capi della Resistenza, annunciò nel contempo le dimissioni dalla Presidenza della Federazione Italiana Volontari della Libertà (associazione del partigianato cattolico, liberale e monarchico) che ricopriva fin dal 1948 e adombrò una critica alla «decrepitezza» del parlamentarismo.[4]
Ma la vera crisi esplose quando il MSI cercò di stravincere convocando il proprio congresso nazionale a Genova per l’inizio di luglio. L’imponenza di una settimana di manifestazioni antifasciste in città e il costituirsi in tutta Italia di un fronte unitario dal PCI al PRI, esteso in alcuni casi alla stessa DC, costrinsero il prefetto a vietare l’adunata missina. Tra i fascisti riprese quindi piede la linea oltranzista di Almirante, che spingeva per ritirare l’appoggio a Tambroni, mentre il ministro dell’Interno, Spataro, riferendo al Senato dichiarò che il PCI aveva cercato di far leva sull’antifascismo per attaccare le libertà democratiche.
In questo clima di fortissima tensione il 5 luglio un incendio venne appiccato a Ravenna all’abitazione di Arrigo Boldrini, parlamentare comunista e Presidente dell’ANPI, mentre la polizia sparò su una manifestazione bracciantile a Licata, uccidendo un ragazzo; il 6 luglio a Roma sempre la P.S. aggredì violentemente una manifestazione delle sinistre provocando una feroce battaglia urbana; il 7 luglio, infine, aprì il fuoco su un corteo antifascista a Reggio Emilia uccidendo cinque lavoratori.
La CGIL proclamò uno sciopero generale, mentre Togliatti rilasciò una dichiarazione che, pur moderata nei termini («Il Paese non comprende l’azione del governo»), è fermissima nella determinazione politica: «L’antifascismo è il fondamento del nostro ordinamento politico. Un governo che si schiera contro l’antifascismo diventa […] fonte di una situazione politica che già oggi è insostenibile e potrebbe diventare catastrofica. […] L’animo della grande maggioranza dei cittadini è democratico e antifascista. Questo animo deve ispirare la formazione e l’azione di un nuovo governo. Quanto più verrà ritardata questa decisone, tanto più gravi saranno le conseguenze».[5]
Dopo Tambroni: il centro-sinistra e il golpismo
Fu chiaro che il persistere di un’intesa di governo DC-MSI avrebbe portato il Paese alla guerra civile. Tambroni fu costretto a dimettersi e si aprirono quindi le porte a un accordo di centro-sinistra che sarebbe compiutamente maturato tra il 1960 e il 1963. Il fallimento del governo Tambroni segnò una dura sconfitta non solo per i fascisti in camicia nera ma anche per la più ampia cerchia degli anti-antifascisti.[6] Questo sentimento di destra fu ben espresso da una vignetta del Candido in cui tra i pretoriani del «nuovo Fronte popolare» veniva annoverato persino il partito monarchico, considerato un traditore in virtù dell’opposizione a Tambroni.[7]
Negli anni seguenti il fascismo aggiornò però la propria strategia: non più opporsi all’apertura a sinistra, ma neutralizzarla.
Uno sguardo alle tessere di appartenenza al PSI di quegli anni mostra la potenza del legame tra difesa dell’antifascismo e della Resistenza e coinvolgimento in un nuovo progetto di governo. Quella per l’anno 1961 riporta infatti una fotografia delle manifestazioni del luglio ’60, assieme a una frase programmatica: «Liquidare la destra clerico-fascista – Coi socialisti i lavoratori nella direzione della società e dello Stato». Le frasi «portare i lavoratori alla direzione dello Stato» e «allargare la base di potere dei lavoratori» ricorrono anche nelle tessere del 1962 e 1963, mentre quella del 1964 celebra il ventennale della Resistenza ritraendo un gruppo di partigiani armati e affiancandovi una citazione da Rodolfo Morandi secondo cui ciò che appartiene al Psi non è quanto esso ha dato, in termini di vite e sacrifici, durante la guerra di Liberazione, ma quanto esso ha mantenuto in seguito: «la fedeltà alla Resistenza, alla quale, a niun patto, dovrà mai accadere che manchiamo in avvenire».
Questi accenti erano però già molto ridotti nella tessera del 1965 («nella democrazia verso il socialismo») e del tutto assenti in quelle successive.
Cosa era accaduto?
A dicembre 1963 si era finalmente costituito il governo Moro, il primo di centro-sinistra organico, comprendente cioè una rappresentanza del PSI nel Consiglio dei Ministri. Questo fatto fu tanto più di rottura se si pensa che nel 1959 il Sant’Uffizio aveva esteso la scomunica dei comunisti ai socialisti e ai cattolici eventualmente alleati, e ancora nel 1962 l’addetto militare all’ambasciata USA Vernon Walters aveva minacciato un intervento armato in caso di ingresso del PSI nel governo.
Illustrando gli intenti socialisti, il 30 dicembre ’63 Nenni tenne un comizio il cui contenuto l’Avanti! riassunse così: «Il PSI porta nel governo gli ideali sociali e democratici della Resistenza», «per attuare la Costituzione».[8]
La posizione negoziale del PSI fu duramente indebolita nel giro di due settimane dalla scissione del PSIUP, che anche il PCI aveva cercato in ogni modo di scongiurare.[9] Il governo si dimise il 26 giugno, dopo una votazione della Camera sui finanziamenti alla scuola privata, in cui era stato battuto per l’astensione di socialisti, socialdemocratici e repubblicani.
Il corso della crisi fu segnato da un tenace braccio di ferro tra la volontà di conferire al centro-sinistra un carattere integralmente riformatore e l’opposta volontà, invece, di ridurre il PSI a una semplice stampella parlamentare. Fu il presidente del Senato Merzagora, da sempre punto di riferimento di Confindustria nella DC, a farsi interprete della linea dei gruppi reazionari: la costituzione di un «governo di emergenza» qualificato non tanto dalla maggioranza parlamentare (onde non ricreare una situazione del tipo Tambroni) quanto dal programma economico. Quello che Nenni chiamò «tintinnar di sciabole» – la minaccia di un colpo di Stato militare e le pressioni sul Presidente Segni per assumere, come scrisse lo stesso Corriere della Sera, «soluzioni e decisioni indipendenti dai partiti, non si sa bene di quale tipo, ma certamente extracostituzionali»[10] – costrinse il PSI a cedere, accettando un reincarico a Moro e la fine della spinta riformatrice.
La ricostruzione dello stesso Nenni sull’Avanti! del 26 luglio, significativamente intitolata «Uno spazio politico da difendere», fu spietatamente sincera: «Il partito socialista il posto comodo non l’ha trovato e credo non lo troverà […] Improvvisamente i partiti e il Parlamento hanno avvertito che potevano essere scavalcati. La sola alternativa che s’è delineata nei confronti del vuoto di potere conseguente ad una rinuncia del centro sinistra è stata quella di un governo di emergenza, affidato a personalità cosiddette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato, che nella realtà del Paese quale è, sarebbe stato il governo delle destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale, nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito».
L’involuzione del PSI e la ripresa dei movimenti sociali
Il cedimento socialista a luglio ’64, forse inevitabile date le fortissime costrizioni politiche interne e internazionali, aprì la strada all’involuzione definitiva del partito – certamente favorita anche dalla scissione del PSIUP. Nel 1966 PSI e PSDI si riunificano essendo di fatto venute meno le ragioni della scissione del 1947.
Il seme della conflittualità dal basso covava però sotto la cenere.
Già nel 1962 un’ondata di scioperi – di estensione irrisoria se confrontati a quelli del 1969 – aveva segnato la prima grande stagione di agitazione operaia dai tempi dell’occupazione delle fabbriche del 1920. L’emergere degli operai come una forza sociale di estremo rilievo nel percorso politico si intrecciò inevitabilmente con l’analisi della Resistenza, dei suoi successi, delle sue sconfitte, dei suoi compiti ancora irrisolti.
Il ventennale della Liberazione nel 1965 fu l’occasione rilanciare la connotazione progettuale del riferimento alla Resistenza. Il 25 aprile su l’Unità, che nel titolo invocava «Trionfino gli ideali della Resistenza con una nuova unità operaia e democratica», apparve un articolo di Enrico Berlinguer, all’epoca responsabile dell’Ufficio di segreteria, che intitolato «Resistenza oggi» espose i due motivi dell’attualità di quella lotta. Il primo era la lotta ventennale «per difendere dalla denigrazione e dalla recriminazione disfattista il patrimonio della Resistenza e soprattutto per dare continuità alla lotta antifascista […] momento in cui si è realizzato l’ingresso della classe operaia e delle masse popolari nella vita nazionale come protagoniste di una rivoluzione democratica». Il secondo motivo erano invece gli eventi internazionali (guerra del Vietnam) e interni, individuati questi ultimi in «un’offensiva padronale e un’involuzione politica che mettono in causa conquiste fondamentali delle classi lavoratrici e le prospettive stesse di un’avanzata del nostro regime democratico».[11]
L’Avanti! fornì invece una lettura prevalentemente celebrativa della ricorrenza, ma anch’esso ospitò un documento della Direzione del PSI che si concludeva con un deciso richiamo al completamento dell’edificio repubblicano tramite l’attuazione della Costituzione: «Si deve, infine, alla sua [del PSI] autonoma iniziativa se i temi di attuazione della Costituzione sono stati, finalmente, posti con i piedi per terra e costituiscono oggetto di impegno di governo. Molto è stato compiuto in questi venti anni. Molto rimane ancora da compiere per fare dell’Italia una democrazia moderna, nella quale sia favorita l’ascesa delle classi lavoratrici e la loro effettiva partecipazione al potere che è la premessa per il passaggio al socialismo. Questo è il nostro impegno nell’attuale periodo. Questo è il nostro proprio modo di trasferire nell’azione di tutti i giorni i valori ideali ereditati dalla Resistenza.»[12]
Nella seconda metà degli anni Sessanta l’emergere della contestazione giovanile e di quella operaia, la nascita di un vasto movimento pacifista e in parte terzomondista e la crescita in popolarità di modelli rivoluzionari alternativi a quello sovietico (maoismo, guevarismo) favorirono l’evolversi della memoria resistenziale da un carattere meramente progettuale – di fondamento cioè per gli aspetti ancora irrisolti della costruzione dello Stato repubblicano – ad uno compiutamente militante.
[Continua nei prossimi giorni.]
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G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio 2013, p. 80. ↑
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P. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico-elettorale d’Italia 1861-2008, Zanichelli 2008, p. 128. ↑
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A. Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza 2013, p. 52. ↑
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G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Laterza 2003, p. 100. ↑
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Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.