L’emergenza sanitaria covid-19 ha determinato un crollo del PIL di tutti gli stati, favorendo quelli che riescono a uscire più velocemente e con risultati duraturi. L’Italia, in questo consesso, è stata tra i paesi che più hanno sofferto della pandemia. Quanto grave è la situazione industriale e economica italiana? Siamo sicuri che si potrà tornare allo status quo ante? Lo Stato potrà svolgere un ruolo da attore e creatore di posti di lavoro? Il Dieci mani, questa settimana, proverà a rispondere a questi quesiti.
Leonardo Croatto
Dagli ultimi dati dell’INPS risultano oltre 900 mila richieste per gli ammortizzatori sociali ordinari e quasi 400 mila richieste per la cassa integrazione in deroga. Le coperture offerte dagli ammortizzatori sono molto scarse: il tetto massimo erogabile causa perdite ingentissime per i lavoratori; a questa platea si affianca inoltre un numero incalcolabile di lavoratori non subordinati totalmente privi di qualsiasi tutela dall’involontaria riduzione o di lavoro o dall’interruzione del rapporto contrattuale. Anche il contributo previsto per autonomi e parasubordinati – una vera novità per il panorama italiano – copre solo una parte ridotta dell’intera platea di quelle tipologie di rapporto di lavoro.
Uno scenario del genere dovrebbe spingere ad una riflessione più generale sull’estensione delle tutele a tutta la platea dei lavoratori, indipendentemente dalla forma contrattuale con cui lavorano o hanno lavorato, fino a svincolarle dalla relazione col lavoro e inserirle nell’ambito dei diritti della persona.
La crisi dovrebbe inoltre spingere ad un complessivo ripensamento del sistema produttivo del paese: lo stato dovrebbe farsi protagonista attivo nella pianificazione della politica industriale incentivando i settori ad alto valore economico, alto contenuto d’innovazione e basso impatto ambientale, favorendo la sostituzione dei posti di lavoro di scarso valore che caratterizzano la nostra economia (a cominciare dal turismo) con lo scopo di assicurare una miglior tenuta del sistema alle crisi future e la disponibilità di un numero maggiore di posti di lavoro di qualità da offrire a giovani lavoratori più istruiti delle precedenti generazioni.
Ovviamente, leggendo le dichiarazioni dei nomi di spicco della politica nazionale sappiamo già che andrà tutto esattamente nella direzione opposta.
Piergiorgio Desantis
Ci si aspetta un vero e proprio tonfo del PIL italiano alla luce dei dati che emergeranno a marzo e aprile. Il Presidente del Consiglio Conte, in una delle sue numerosissime dirette online, ha previsto una contrazione del PIL nel primo semestre del 18% per arrivare in fondo al 2020 con un risultato pari al meno 8/9%. Sembrarebbero scenari perfino troppo ottimistici, considerando che non c’è ancora il vaccino e che il virus continua a essere pericoloso. I servizi risentiranno pesantemente dei necessari provvedimenti di distanziamento sociale e di tutti i protocolli che sono stati firmati da parti datoriali, governo e sindacati. Oggi si paga anche la scelta strategica della classe dirigente italiana degli anni ’90 di optare per l’implemento del settore dei servizi lasciati al libero mercato. Quello che tutti propongono, in questa fase, è il sostegno statale per tutti i settori, indistinto e senza condizioni. Per esempio l’eliminazione dell’IRAP, nel decreto “Rilancio”, per tutte le imprese senza alcun discernimento o selezione non fa ben sperare circa le modalità perseguite da questo governo. Tuttavia, sembrerebbe che il necessario supporto statale alla domanda non sia sufficiente per riportare i consumi allo status quo ante e che la pandemia abbia “solamente” amplificato una crisi che già profondamente colpiva gli stati più deboli. Molti commentatori hanno parlato correttamente di covid-19 quale “detonatore” di problemi endemici del sistema. Potrebbe sorgere, tra le varie opzioni in campo, anche la possibilità che ci possa essere l’inizio di una modalità diversa di produzione e di riproduzione del lavoro. Un certo pessimismo accompagna, tuttavia, il futuro anche perché, come oppurtanamente evidenzia l’economista Raj Patel, “il problema dell’odierna crisi del capitalismo è che a risolverla si candida il capitalismo medesimo”.
Dmitrij Palagi
Jacopo Vannucchi
È certamente vero, come ha ammonito il Commissario agli Affari economici Gentiloni, che la recessione in Unione Europea sarà profonda e disomogenea, e che simili disomogeneità mettono a rischio l’Unione.
Ma se facciamo due conti sulle previsioni del Pil rilasciate dalla Commissione per gli anni 2020 e ’21 (vedi qui) osserviamo che, alla fine del biennio, difficilmente si potrà parlare di vincitori.
Tenendo conto infatti sia dell’abbattimento del 2020 (estremi: Grecia -9,7%; Polonia -4,3%) sia del rimbalzo del 2021 (estremi: Finlandia 3,7; Grecia 7,9), soltanto nel caso del Lussemburgo l’economia avrà riassorbito le perdite. Più in particolare, rispetto al 2019 gli arretramenti più vistosi si avranno in Italia (-3,6%) e in Spagna (-3,1%) mentre tra gli stati maggiori il contenimento migliore lo registrerà la Polonia (-0,4%).
Neppure locomotive e falchi avranno molto di che celebrare: Germania -1%, Paesi Bassi -2,1%, Finlandia -2,8% (sul non invidiabile podio dopo Italia e Spagna).
Perdite simili, anche in un mondo di bassissima inflazione quale quello cui siamo già da anni abituati, significano nella più ottimistica delle definizioni non un ristagno, ma un impaludamento del sistema economico. Le contrapposizioni tra Nord e Sud saranno di minima importanza rispetto alla prospettiva di un indebolimento cronico sia del potenziale industriale europeo, già da tempo depauperato, sia delle sue ricchezze mobiliari e immobiliari che ancora attendono di essere spolpate. L’idea di dare in pegno il patrimonio culturale o il patrimonio pubblico, quand’anche la si potesse scusare (e voce dal sen fuggita più richiamar non vale), sarebbe comunque evocativa di un orizzonte mentale, ancor prima che politico, inadeguato – usiamo un eufemismo – a fronteggiare le necessità del periodo.
La speranza che i poteri pubblici, anche tedeschi, posti di fronte a scenari socialmente catastrofici mettano mano a rimodellare il sistema creditizio secondo tali necessità si scontra purtroppo con un pessimismo dell’intelligenza che vede quei poteri e quei gruppi dirigenti incapaci di uscire da una gabbia di resistenze costituita da poteri privati, anche europei, e pubblici non europei.
L’Europa ha costruito dopo il 1945 uno stato sociale di successo, tanto che ha finora permesso, tramite l’architrave previdenziale delle generazioni passate, di assorbire gran parte degli urti provocati da vent’anni di rallentamento economico (continuiamo con gli eufemismi). L’usura del tempo e la potenza di questo nuovo urto impediscono di fare ancora affidamento sul paracadute del risparmio privato che eviti l’aperta indigenza delle generazioni più giovani. Se si vuole evitare un precipizio sociale – le cui conseguenze politiche sarebbero che le attuali cronache dall’Ungheria figurerebbero solo come uno sfizioso antipasto alle portate vere e proprie – è necessario che le forze politiche antifasciste, o almeno quelle di sinistra, si mobilitino profondamente nelle idee e nel radicamento sociale. Preferibilmente in un’ottica euro-unitaria, perché io personalmente credo che gli Stati-nazione siano oggi bocconi più piccoli e più digeribili dal mastino, e quindi non certo terreno favorevole per l’affermazione di forme di socialismo.
Alessandro Zabban
La polemica fra Calenda e Renzi sul prestito garantito dallo Stato a Fca mostra quanto sia ristretto l’orizzonte della politica, schiacciato sulle vecchie ricette neoliberiste. Che si presentino nella loro versione più pura o edulcorata sono comunque le stesse che hanno portato il nostro paese a trovarsi totalmente impreparato al Covid-19 e in una situazione di perenne precarietà e affanno macroeconomico. I dati sulla produzione industriale e le previsioni sul PIL non fanno che mettere in risalto il totale fallimento delle nostre classe dirigenti e dei loro approcci di politica economica.
Occorre constatare che al momento ci sia molta poca voglia da parte del sistema politico e delle élite di assumere atteggiamenti eterodossi o un qualsiasi tipo di propensione ad esplorare terreni ignoti. Piuttosto, deve essere l’individuo a reinventarsi. Con la medesima retorica che ha accompagnato la crisi finanziaria scoppiata nel 2008, si inizia già anche in questo frangente a chiedere all’individuo di farsi carico a livello personale della devastazione di un modello di sviluppo insostenibile, appellandosi alla sua resilienza, spirito di adattamento e alle sue risorse interiori per inventarsi un lavoro dove non c’è, per acquisire nuove competenze che possano permettergli di ritrovare un lavoro che nel frattempo ha perso, per fargli capire che la giungla sociale nella quale si ritroverà sarà ancora più pericolosa e spietata di quella di qualche mese fa e che sta a lui/lei mettercela tutta per sopravvivere. Il pensare il diverso deve assumere solo una dimensione individuale, mai collettiva, e sempre all’interno delle logiche di mercato. Fare del cambiamento una questione privata, è stata la strategia usata dal capitale nella crisi del debito sovrano, occorre oggi impedirgli di poter imporre a livello simbolico il medesimo modello.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.