Apparsa alla fine di marzo 2020, Unorthodox si è affermata durante la pandemia Covid-19 come una serie capace di accogliere principalmente pareri favorevoli, di pubblico e critica si suole dire (nonostante Netflix conceda a fatica informazioni precise sulla fruizione dei suoi prodotti). Comunque è considerata la “serie del momento”, almeno in Italia.
La storia è basata sull’autobiografia di Deborah Feldman, uscita nel 2012 (un’edizione italiana è uscita a fine 2019). Una giovane ragazza decide di scappare dalla sua comunità chassidica (movimento ebraico ultraortodosso) di New York. A spingere la fuga, verso Berlino, è un difficile matrimonio, con il quale la si voleva integrare in una società dove era segnata dalla problematica situazione dei genitori. Il padre con forti problemi di alcol, la madre a sua volta scappata in Europa.
Unotrhodox propone 4
puntate da circa un’ora di durata. Tra i dettagli sottolineati spesso
dalla stampa troviamo il fattore di genere. Due dei tre nomi dietro
alla creazione della serie sono donne, come donne sono la regista e
ovviamente l’autrice del soggetto che ha ispirato la storia. Precisa
la scelta sui doppiaggi: per yiddish, russo, tedesco e altre lingue
si sceglie il sottotitolato.
I piani temporali si alternano, tra
il passato statunitense e la nuova vita che prova ad affermarsi in
Germania.
La prova dell’attrice protagonista è sicuramente
interessante e convincente, così come sul piano tecnico non stupisce
l’ipotesi di un gruppo che potrebbe lavorare ancora insieme su altri
prodotti (Unorthodox 2 appare oggi davvero improbabile come
prospettiva).
Definire il prodotto
un capolavoro sarebbe sbagliato… Quell’accordo tra pubblico e
critica appare più un modo per registrare l’affermarsi tra il
consumo “di massa” di una storia poco consumata nella
grande distribuzione (anche se davvero sui numeri assoluti
dell’intrattenimento sarebbe necessaria una discussione pubblica e
internazionale che provi a fare il punto).
Leggendo alcuni
articoli sembra quasi esista una difficoltà a parlare di personaggi
non così approfonditi, tanto da arrivare a leggere parole di
un’autorevole firma (Mauro Gervasini) sostenere che non esisterebbero
cattivi. La semplificazione narrativa è invece forte, aiuta a
veicolare una storia a suo modo lineare.
Essendo una serie basata su un’autobiografia necessariamente l’ottica è precisa e principalmente una, anche se proposta dall’esterno. Non guardiamo attraverso gli occhi della protagonista. La osserviamo, senza essere invitati a ragionare sulla sua vita. Siamo invitati a giudicare la società di cui fa parte e il suo coraggio. La comunità chassidica è quasi un dettaglio secondario, ma al tempo stesso il percorso soggettivo di Esty non è centrale. Problemi sociali diffusi sembrano doversi ascrivere specificatamente agli ebrei ultraortodossi, mentre a Berlino si accenna in qualche occasione al rapporto tra memoria e Israele (anche qui però si resta davvero troppo in superficie).
Parlando di queste perplessità, mi è stato segnalato che anche Michela Murgia ha promosso un dialogo dove si esplicitano perplessità analoghe.
Pretendere troppo da una serie televisiva sarebbe un eccesso. È lecito che Unorthodox possa piacere. Dovrebbe essere scontato scriverlo, ma nella società e – soprattutto sui social network – sembra che le persone si sentano in diritto di dire anche cosa può e non può piacere… È in fondo solo un prodotto di consumo culturale prodotto su Netflix. Non può però essere definita una serie di successo.
Immagine Netflix
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.