In un 25 aprile del tutto particolare, Lega e Fratelli d’Italia non hanno perso l’occasione per evidenziare la loro lontananza rispetto ai valori e agli ideali che caratterizzano la Liberazione. Non sono mancati, e non è purtroppo una novità, le dichiarazioni becere di alcuni esponenti politici di secondo piano, fra cui il consigliere della Lega di Forlì che incoraggiava gli anziani dell’ANPI a scendere in piazza così da poter contrarre più facilmente il Covid-19 o quelle del commissario provinciale Piceno della Lega che invitava a rimuovere il tricolore dal balcone per il 25 aprile per poi esporlo nuovamente il giorno dopo. Più grave probabilmente l’episodio accaduto in Aula a Montecitorio, dove nel momento dell’omaggio istituzionale, gli esponenti di Lega e Fratelli d’Italia sono rimasti seduti in segno di protesta. Ma al di là dei singoli episodi, l’insofferenza di una componente consistente della destra italiana nei confronti della Liberazione si evidenzia con forza nella proposta di Giorgia Meloni che chiede che la giornata non sia più “divisiva” diventando piuttosto un momento di commemorazione per tutte le vittime di tutte le guerre e per i caduti per Covid -19, nella quale oltretutto a risuonare possano essere le note della canzone del Piave, invece che quelle di Bella Ciao. Su queste polemiche e sulla natura del 25 aprile, il 10 mani della settimana.
Leonardo Croatto
Il teatrino che ogni 25 aprile viene messo in scena dai partiti della destra post- e neo-fascita, ai quali è consentito – per motivi incomprensibili – ingombrare lo spazio della dialettica democratica del nostro paese, assomiglia molto a quello che ad ogni tornata elettorale altri soggetti ancor più indegni ci ripropongono quando un po’ di sana e civile conflittualità gli impedisce di parlare a dibattiti pubblici.
Le lamentazioni dei fascisti che rivendicano presunti diritti civili negati appaiono irritanti ma patetiche per coloro che ne comprendono la strumentalità dialettica, è però evidente che i tentativi di abbattere quell’argine (prima di tutto culturale) che dovrebbe tenere questi personaggi fuori dalla vita civile del paese non sono rappresentati solo dalle loro sgraziate acrobazie retoriche.
E’ abbastanza chiaro come tutta la borghesia liberale di questo paese si sia adoperata negli anni per indebolire quel complesso di racconti, immagini e ritualità che definiscono lo spazio mitologico della Resistenza, così da affievolirne anche il portato politico-sociale.
Perché è del tutto evidente che, per quanto tutti si affannino a ricordare che la resistenza l’hanno fatta un po’ tutti (anche quelli che hanno annusato a un certo punto che la loro parte avrebbe perso e quindi che sarebbe stato meglio ricollocarsi dall’altra parte), la storia della resistenza al fascismo si intreccia pochissimo con quella dei monarchici e dei liberali, abbastanza poco con quella dei cattolici, molto e da ben prima della guerra con quella dei socialisti.
Il carattere assolutamente divisivo del 25 aprile deve essere quindi rivendicato come positivo elemento di chiarezza sul ruolo e sul significato di questa celebrazione laica (una delle poche del calendario): il 25 aprile discrimina con nettezza chi si riconosce nei valori di libertà e uguaglianza che questa festa esprime e rappresenta e chi si riconosce nel loro opposto. Senza alcun punto di mediazione.
Piergiorgio Desantis
La ricorrenza della liberazione dal nazifascismo, fin dagli arbori della nascita della nostra Repubblica, è stata un elemento assai fastidioso per i fascisti e post-fascisti e per chi, in generale, non riconosce l’importanza di questo giorno. Io non mi stupisco affatto che le destre, ovunque collocate, hanno fatto barricate contro questa data, unitamente a quella del 1° maggio. Mi sono stupito, invece, che per troppi anni sia stata una festa lentamente declinante verso celebrazioni vuote di contenuto. Eppure è evidente che queste sono le “occasioni” giuste per riconquistare valori e contenuti di Sinistra. Da un po’ di anni a questa parte, alla festa spesso si è riusciti anche ad abbinare oltre al racconto di quei terribili anni, anche la riflessione sul fascismo stesso e su tutti gli elementi distorsivi del capitalismo italiano che hanno portato, in seguito, a vent’anni di dittatura. Anche dal rilancio di questi momenti passa la possibilità di ristabilire tra i lavoratori una coscienza del mondo in cui vivono, la comprensione di chi sono gli sfruttati e gli sfruttatori e la possibilità di cambiare il mondo: in una parola il Socialismo.
Dmitrij Palagi
Jacopo Vannucchi
Il 25 aprile è certamente una festa che ha un carattere divisivo: come divisiva è la Costituzione italiana, come divisiva è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Questi due documenti, tanto quanto la festività del 25 aprile, nascono dalla sconfitta dell’Asse nella Seconda guerra mondiale e servono a tracciare una nettissima linea di demarcazione tra il campo della contesa politica legittima e ciò che invece è espulso dalla comunità umana: il razzismo, l’antisemitismo, lo sterminio…
Si tratta di una divisione che dovrebbe essere, in condizioni normali, scontata: non nel senso che la si dia per base naturale incrollabile – ché sempre deve essere invece coltivata e sviluppata – ma nel senso che l’orizzonte democratico e umanitario dovrebbe essere condiviso come campo progettuale da tutti i componenti della comunità umana.
Così forse non è. Il senatore La Russa, oltre alla risibile proposta di dedicare il 25 aprile ai caduti di tutte le guerre e di cantarvi la Canzone del Piave – esiste il 4 novembre per questo, e stupisce che un nazionalista di destra non lo sappia –, ha anche ritenuto di volerci notiziare con un video sui social che lui considera la guerra del 1943-45 non “di liberazione nazionale” (si capisce: i suoi favori vanno ai servi del nemico!) bensì una guerra civile.
Se anche fosse così, se anche fosse come dice il senatore La Russa, il carattere divisivo del 25 aprile, le ferite di quella supposta “guerra civile”, ecc., tutto è già stato sanato nel giugno 1946 dall’amnistia promulgata dal Ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti.
Spiace che persino per persone nate e vissute nel dopoguerra sia così difficile riconoscere che «dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto» (Italo Calvino) – a meno che, s’intende, il proprio programma politico non sia appunto la tortura e la deportazione. La disumanità messa in atto contro i migranti lascia purtroppo qualche interrogativo.
Alessandro Zabban
In un certo senso Giorgia Meloni ha ragione: il 25 aprile è una festa divisiva. Lo è perché divide chiaramente fra chi era vittima e chi era carnefice e se qualcuno simpatizza coi carnefici non può in nessun modo sentire come propria questa festività. Si potrebbe affermare che una festa non può e non deve essere necessariamente di tutti, una festa di tutti è una festa depoliticizzata e simbolicamente inefficace, deve essere però di popolo e partecipata dalle masse. La Costituzione non obbliga chi non crede nei valori dell’antifascismo a festeggiare questa ricorrenza, solo a chi detiene una carica istituzionale è richiesto perlomeno rispettarne la solennità, aspetto che ogni anno viene puntualmente a mancare. Il tentativo di annullare la specificità del 25 aprile, mettendo insieme e senza distinguo vittime e carnefici, fascisti e antifascisti dietro le sembianze della neutralità, nasconde un tentativo di riconversione del patrimonio simbolico italiano in senso nazionalistico. La proposta di Giorgia Meloni è dunque subdola, ma anche ruffiana e opportunista come dimostra la sua proposta di trasformare la Liberazione in un momento di commemorazione anche per i caduti da Covid-19, sfruttando la scia emozionale offerta dalla tragedia che stiamo vivendo in questi mesi.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.