[Attenzione: contiene spoiler]
In questi giorni di isolamento ho visto un film dell’ultima stagione, Premio Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale: Jojo Rabbit (regia di Taika Waititi, co-produzione tra Nuova Zelanda, Stati Uniti e Cechia).
Il film è tratto da un libro (Come semi d’autunno, della neozelandese Christine Leunens) la cui trama è già di per sé estremamente intrigante: un giovane e fanatico nazista, congedato per una mutilazione ricevuta nella guerra in cui è andato volontario, torna alla propria casa di Vienna e scopre che i genitori nascondono in soffitta una ragazza ebrea. Inizialmente ostile, viene poi colpito dalla sua gentilezza e sviluppa per lei un attaccamento morboso. Morti i genitori e finita la guerra, le annuncia la vittoria della Germania in modo da segregarla, conservandone quindi la compagnia, per il resto della vita.
La storia di Jojo Rabbit è simile, con una differenza principale: il protagonista non è un adolescente, ma un ragazzino di dieci anni: Johannes Betzler, “Jojo”, soprannominato “coniglio” per la sua viltà – che trova la rappresentazione plastica nel rifiuto di uccidere proprio un coniglio, a cui saranno camicie brune più grandi a spezzare il collo.
Questo, unito al fatto che l’ambientazione iniziale segue una comicità demenziale, conduce in un primo momento a pensare che il film sia meno interessante della trama del libro e meno profondo. Ma forse è vero il contrario. Si potrebbe anzi dire che proprio questa prima impressione sia parte della grandezza del film, perché è da essa che lo spettatore viene poco a poco instradato nel cambiamento di clima.
Nei primi minuti, ad esempio, si resta perplessi di fronte alla scelta di ritrarre l’Adolf Hitler amico immaginario di Jojo come amabile e simpatico, o di fronte all’opportunità di presentare il nazismo come una grande mascherata di pagliacci grotteschi. Anche se, con la Nsdap al 2,6% alle elezioni di maggio 1928 e Hitler che sembrava politicamente finito, era proprio così che i nazisti venivano visti da gran parte dei tedeschi, che ridevano delle loro sfilate in divisa.[1]
Ma pian piano si capisce che nel film c’è davvero poco da sorridere. E che i personaggi sono, sì, e restano, grotteschi, ma di un grottesco che non è comico-demenziale ma tragico-folle. La potenza di questa forzata presa di coscienza risulta più profondamente istruttiva, anche se meno facilmente comprensibile, di un tradizionale film didascalico.
Jojo vive con la madre Rosie: la sorella maggiore Inge è morta qualche tempo prima, il padre pare che combatta in Italia ma si dice che sia un disertore (si viene poi a sapere che è caduto nella Resistenza). Rosie non solo nasconde in casa la ragazza ebrea Elsa, ma è un’esponente attiva del movimento comunista. Jojo non sa niente di tutto ciò, non soltanto perché la madre vuole proteggerlo, ma anche perché ella stessa lo definisce «un fanatico».
Il ragazzino sembra in effetti un fanatico ingenuo, un bambino solo che ha un amico del cuore (Yorki) secondo però al suo primo amico, quello immaginario: Adolf Hitler. In realtà ci accorgiamo che Jojo non risponde a una caratterizzazione manieristicamente infantile: è invece un bambino, paradossalmente per chi è attratto da miti superomistici, “umano, troppo umano”, che richiama da vicino la definizione freudiana di essere perverso polimorfo.
Questa perversione polimorfica la si vede bene nel rapporto che instaura con Elsa e, idealmente, con il suo fidanzato Nathan (già morto, ma lo scopriremo solo dopo). Dopo aver subìto le sue minacce nel caso in cui dicesse a Rosie di averla scoperta, Jojo le pone una serie di ridicole e irritanti domande sulla natura demoniaca degli ebrei alle quali lei dà risposte altrettanto surreali, a metà tra derisorie e divertite. Dopo averla sentita parlare di Nathan, però, Jojo scrive e le legge una falsa lettera (per la quale si è, con un principio di ossessione, documentato su Rilke, il poeta preferito della coppia) in cui lui dichiara di lasciarla. In seguito ci accorgiamo che Jojo non solo è affascinato da Elsa, non solo se ne innamora, ma addirittura la desidera. Scopriamo infine, durante l’ispezione della Gestapo, che ha addirittura escogitato e disegnato vari e brutalissimi metodi per uccidere Nathan: bastonato, morso dai serpenti, schiacciato, arrostito…
La svolta della pellicola è proprio nell’irruzione di un manipolo della Gestapo in casa, a seguito di sospetti su Rosie (nelle parole dell’ispettore: «ogni giorno ci arrivano chiamate, “pronto, è la Gestapo? Penso ci sia un comunista nascosto dietro il frigo”, andiamo lì a indagare – è solo un po’ di muffa, che è la stessa cosa»). Jojo è solo con Elsa, ed è lì che brilla la dura intelligenza dell’ebrea: capendo che una perquisizione accurata l’avrebbe certamente fatta scoprire, sceglie di impersonare la defunta Inge e si presenta spontaneamente ai poliziotti nazisti.
Ma è in questa occasione che in controluce rifulge pure la figura forse più maestosa del film, un vero antieroe, il capitano Klenzendorf. Dopo aver perso un occhio in battaglia è stato congedato e destinato a fare l’istruttore paramilitare per la Hitlerjugend. Da queste vicende ha ricavato un principio di depressione e di alcolismo. L’incidente di Jojo, che sotto la sua responsabilità resta maldestramente sfigurato da una granata, porta al suo ulteriore trasferimento, stavolta a incarichi amministrativi. È qui che la depressione e l’alcolismo del capitano si mutano in follia.
Ma è proprio questa follia che lo salva in extremis e lo recupera. Divenendo folle (ad esempio, disegnando variopinte e surreali uniformi militari da proporre alla Wehrmacht), si distacca da quella che comprendiamo essere la reale follia, pur se elevata a ragione totalitaria, ossia l’indottrinamento del regime nazista. Giunto casualmente a casa di Jojo (che gli fa da aiutante) durante l’ispezione poliziesca, è lui che esamina il documento d’identità di Elsa-Inge richiestole dal sospettoso ispettore e che lei ha per pura fortuna rinvenuto in un cassetto della ragazza morta. Sceglie di salvare “Inge” e quando le riconsegna il documento le dice, dando mostra di una capacità intellettuale non comune: «Cambi la foto su questo documento: sembra un fantasma». Riconsegna anche il pugnale a Jojo (a cui era stato sequestrato da Elsa, e la cui mancanza nel fodero era stata proprio il primo campanello d’allarme per l’ispettore) ordinandogli di non ripresentarsi in ufficio e di restare a casa a “pensare alla tua famiglia”.
Non ci viene detto altro riguardo la Gestapo, ma una mattina d’inverno (probabilmente è gennaio 1945, anche se la cronologia non va presa alla lettera – nell’estate precedente, quindi 1944, Hitler si riferisce all’attentato di von Stauffenberg del 20 luglio ’44 come «l’anno scorso») Jojo è fuori, coperto da un pastrano, a comprare delle patate. La Volkssturm sta disponendo i cavalli di Frisia per le vie della città, mentre altri strappati alla vita civile cercano di imparare i rudimenti dei lanciarazzi anticarro.
Qui inizia una delle più riuscite scene del cinema a mia memoria. Jojo vede una farfalla blu e ne segue con gli occhi il volo. Ci si sente estraniati dall’atmosfera funebre, ma al tempo stesso si intuisce che qualcosa di orribile sta per rompere questo incantesimo. Quando la farfalla si posa, Jojo alza gli occhi e ci si trova davanti le scarpe rosse della mamma, che penzola dalla forca nel centro della piazza. Jojo piange, si attacca alle caviglie del cadavere, vede che una scarpa è slacciata ma lui non sa come rifare il nodo, piange, resta a lungo seduto di fronte al patibolo. Stacchi di inquadrature fisse restituiscono i tetti circostanti, con gli abbaini che sembrano tanti occhi che lo guardano. L’uomo non c’è più; a vedere quella scena sono rimaste solo le case in muratura che, immobili, non possono far niente per aiutarlo. L’accompagnamento musicale, al pianoforte e archi, non ha niente da invidiare alle pagine più toccanti di Chopin o Beethoven.
Nella morte di Rosie, così stoica per la sua lotta, il suo silenzio, la sua considerazione di Jojo come un adulto nel bene (un giorno l’aveva costretto a guardare gli impiccati che l’avevano preceduta) e nel male (come quando lo definisce «un fanatico»), rivediamo le figure di innumerevoli cadute della Resistenza, come leggiamo nelle ultime lettere di alcune di loro: «prego solo non fare tante chiacchiere sul mio conto, e di allontanare da voi certe donne alle quali io debbo la carcerazione» (Maria Luisa Alessi ai familiari, 14 novembre 1944); «Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo» (Paola Garelli alla figlia piccola, ottobre 1944).[2]
È nel corso di queste vicende, con la morte della madre e con l’approfondirsi del legame con Elsa, che muta anche lo Hitler immaginario. Da irrealistico miglior amico di Jojo ne diviene ora il tiranno e inizia a parlare con il caratteristico rabbioso fervore dei suoi comizi. Man mano che si dissipa la cortina di falsità della propaganda, l’immagine di Hitler diviene sempre più aderente alla sua reale personalità storica. Come il capitano Klenzendorf aveva bisogno della follia per tornare in sé, così è il dolore che spezza per Jojo il mondo di disumane menzogne del Terzo Reich.
La fine del regime si consuma nella battaglia conclusiva che devasta la città, stretta – evidente raffigurazione di tutta la Germania – dai tre eserciti britannico, statunitense e sovietico.
Qui si rivelano nel loro peggiore abisso quegli autentici mostri che inizialmente avevamo preso per ridicoli, prima fra tutti la prolifica madre di sedici figli che lancia bambini all’assalto contro il nemico non prima di aver innescato le granate che portano alla cintola, così da usarli come involontari kamikaze.
È probabilmente il 1° maggio 1945, il giorno in cui i sovietici entrano a Berlino: Yorki infatti informa Jojo che Hitler si è sparato alla testa (30 aprile). C’è qui una breve azione, usata anche nel trailer ufficiale, che riassume il giudizio sulla guerra fascista. Durante la battaglia Yorki (da dietro) e un altro bambino (davanti) trasportano un mortaio. Yorki, vestito con un’uniforme di similcarta («è l’ultimo materiale inventato dai nostri grandi scienziati!»), scorge Jojo e, per salutarlo dall’altro lato della strada, lascia la presa. Il fondo del mortaio cozza sul marciapiede, facendo partire un colpo che sventra l’angolo di un edificio.
Questa assoluta insensatezza del carnaio bellico, in cui un palazzo salta in aria per sbaglio perché un bambino ne saluta un altro, rievoca l’immaginario di un altro conflitto mondiale, il Primo: ad esempio, la fotografia del lanciere tedesco a cavallo con maschera antigas, oppure i dipinti macabri con cui Otto Dix denunciò la strage insensata.
La guerra è finita. Il film no. Jojo indossa ancora una giacca militare e per questa ragione viene arrestato per strada da un soldato sovietico, che lo conduce a un improvvisato campo di prigionia nel giardino di un palazzo. Qui ritrova tra i prigionieri il capitano Klenzendorf che, dopo aver già salvato la vita a Elsa, la salva anche a lui: in un lampo gli toglie la giacca e urlando lo insulta come ebreo, richiamando così l’attenzione dei militari e sottraendolo alla fucilazione. Jojo cerca di ricambiare, dicendo ai soldati dell’Armata Rossa che il capitano ha aiutato lui e la sua famiglia, ma Klenzendorf gli sputa addosso, irremovibile nella scelta di consegnarsi al plotone d’esecuzione e porre fine alla propria vita.
È in queste sequenze, quando, dall’arresto per fucilarlo fino alla liberazione, i sovietici lo trattano come un prigioniero adulto, che comprendiamo che Jojo non è mai stato un bambino. O meglio, lo è stato, ma non come Johannes “Jojo”. Jojo rappresenta in realtà tutto il popolo tedesco, le sue pulsioni più basse, più segrete, più animali, più infantili, che lo hanno condotto nella voragine del nazismo.
Nel film c’è un unico riferimento esplicito alle responsabilità del popolo tedesco: quando Elsa racconta a Jojo che loro ebrei possono leggere nella mente delle persone, il bambino atterrito le chiede se ciò sia possibile anche per la mente dei tedeschi. La risposta della ragazza – «No, quella è troppo dura per poterla penetrare» – richiama quasi testualmente le parole che l’antifascista Hety Schmitt-Maass scrisse a Primo Levi, di cui fu corrispondente per anni: «Capire “i tedeschi” sicuramente non Le riuscirà – non riesce neanche a noi tedeschi».[3]
Più di una volta, nel film, le farneticanti paure di Jojo ci informano che gli ebrei sono comandati da un diavolo che risiede nella loro testa. «Fa ridere perché è vero», commenta, in un inconsapevole quanto evidente rovesciamento della realtà, l’ispettore della Gestapo.
Il film, che resta a mio parere una pietra miliare del cinema e in particolare del cinema politico, non può comunque andare esente da critiche anche negative.
Anzitutto, è un film a cui ci si deve approcciare avendo già una buona conoscenza di partenza del nazionalsocialismo e della Germania durante la Seconda guerra mondiale. Altrimenti rischia di confondere, non poco, le idee.
E poi il lieto fine. Come nel libro a cui è ispirato, al termine della battaglia Jojo informa Elsa della vittoria tedesca, lasciandola in un immaginabile affrangimento. Ma, dopo questa iniziale menzogna, sceglie di ripudiare completamente Hitler (ne calcia lo zombie giù dalla finestra) e di liberare la ragazza. Ovviamente questo è ciò che lo spettatore brama di vedere. Ma purtroppo non corrisponde alla realtà logica del film. La passione morbosa che Jojo aveva coltivato e nutrito per mesi e mesi si trasforma, improvvisamente, come per magia, in amore disinteressato. Non solo: risponde persino «probabilmente me lo merito» allo schiaffo di Elsa quando ella, accompagnata all’esterno della casa, vede un gruppo di militari sfrecciare da un autoveicolo sventolando la bandiera a stelle e strisce.
Ma la cosa più grave e più importante non è la contraddizione stridente tra l’intera narrazione del film e la sua conclusione, bensì il fatto che essa tradisca, oltre che il film, la stessa realtà storica. Jojo, cioè il popolo tedesco, non ha mai fatto i conti con il nazismo e non è mai andato al di là di un ripudio formale che poi, del resto, spesso non era neanche tale ma soltanto l’astensione da un tabù. Se dopo la visione ripercorriamo il film e cerchiamo di rileggerne la conclusione, di trovarle un inquadramento organico, siamo portati a ritenere che Klenzendorf facendosi fucilare abbia assunto su di sé tutte le colpe del popolo tedesco. Offrendosi come capro espiatorio lui, che dalla barbarie si era inopinatamente emancipato, avrebbe liberato tutti i suoi concittadini dal peso della colpa e della postuma fedeltà al Reich.
Questo non è ciò che è accaduto storicamente. Lo smentiscono la permanenza postbellica di elementi nazisti nei quadri politici, giuridici e istituzionali dell’Austria e della Germania Ovest e la permanenza di un fastidio antisemita che, sopravvissuto nel dopoguerra[4], ancora nel 2019 ha portato il 42% dei tedeschi[5] e il 44% degli austriaci[6] a sostenere che gli ebrei parlino troppo dell’Olocausto.
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Si legga ad esempio Jean-Baptiste Duroselle: «Nell’estate del 1929, il Partito nazista aveva soltanto 120.000 iscritti. Nessuno prendeva sul serio né questo gruppo di esaltati, le cui sfilate in camicia bruna facevano ormai soltanto sorridere, né Hitler, le cui ambizioni apparivano smisurate» (in La Storia, Vol. 13 L’età dei totalitarismi e la Seconda guerra mondiale, p. 240, La Repubblica Edizioni, 2004). ↑
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Entrambe le lettere sono raccolte nell’edizione Einaudi di Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. ↑
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https://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2017/04/11/news/caro-levi-a-noi-tedeschi-non-e-permesso-dimenticare-1.299334 ↑
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https://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2017/04/10/news/caro-primo-levi-ecco-il-carteggio-inedito-dello-scrittore-1.299310 ↑
Immagine 20th Century Fox Italia
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.