Abbiamo visto
nell’articolo precedente come il neoliberismo di matrice tedesca non
sia un banale ritorno alle concezioni ottocentesche del laissez
faire quanto piuttosto la ricerca di un nuovo ruolo e di un nuovo
attivismo dello stato, non più incaricato di redistribuire le
risorse ma bensì di garantire il funzionamento di una economia di
mercato vista non come naturale ma come un artificio complesso e
delicato in cui ingranaggi devono essere continuamente lubrificati
dall’intervento statale.
Ma un nuovo protagonismo pubblico non
basta, occorre ripensare anche la società e occorre ripensarla dal
punto di vista del mercato. Un nuovo ordine economico fondato sul
meccanismo della concorrenza non può reggere se le comunità umane
provano a resistere alle sue logiche. Non si può pensare di far
funzionare un sistema fondato sulla competizione permanente se gli
individui si oppongono alla società mercantilista e se indugiano in
atteggiamenti solidaristici o collettivisti. Persino nelle moderne
società industriali avanzate, il rifiuto di conformarsi
completamente ai meccanismi economici cari a Eucken e soci resta
diffuso.
Compito dell’ordoliberalismo è quello allora di unire
alla politica economica una Gesellschaftspolitik,
ovvero una politica della società (piuttosto che una politica
sociale) volta a proporre un modello bio-economico che conformi
l’individuo al meccanismo della concorrenza e alla logica dei
mercati.
Nel loro ambizioso e
brillante saggio La Nuova Ragione del Mondo, gli studiosi
francesi Dardot e Laval interpretano l’ordoliberalismo come una forma
di razionalità che afferma l’interdipendenza di tutte le istituzioni
e di tutti i livelli della realtà fra di loro. In particolare:
«tra
gli obiettivi della politica è prevista una azione sulla società e
sul quadro vitale individuale, che dovrebbe avere lo scopo di rendere
i due piani conformi alle necessità del funzionamento del mercato.
La teoria ordoliberale indica quindi un ridimensionamento della
tradizionale separazione tra Stato, economia e società concepita dal
liberalismo classico. Esso abbatte le barriere fra i vari piani,
considerando tutte le dimensioni dell’uomo come elementi
indispensabili al funzionamento della macchina economica»
(P.
Dardot e C. Laval, La Nuova Ragione del Mondo, DeriveApprodi
2013, p. 221).
La parola chiave per molti economisti ordoliberali è quella di adattamento. Se il capitalismo, come sosteneva anche Marx, ha la capacità di rivoluzionare continuamente i modi e le strutture di produzione, dall’altro gli individui non si adattano spontaneamente a quest’ordine mutevole, perché le credenze culturali e le pratiche sociali tendono a cambiare molto meno rapidamente del mercato. Su questa base si giustifica una politica focalizzata sulla vita individuale e sociale complessiva: affinché la concorrenza funzioni, occorre trovare un nuovo sistema di vita per tutta l’umanità. L’adattamento va allora inteso come adeguamento dei modi di vita e delle mentalità alle condizioni di funzionamento di un sistema intrinsecamente variabile e fondato su un regime di concorrenza spietata e generalizzata, adattamento che concepito in questi termini necessita appunto di un intervento statale e giuridico capillare.
Ma quale sistema di
vita si ipotizza? Che tipo di società auspicano gli ordoliberali?
Non certo quella fondata sulle merci e sul consumo, già criticata da
Sombart all’inizio del Novecento (vedi la I parte dell’articolo), che
rischierebbe di riproporre quella società di massa, dello spettacolo
e consumistica che per gli ordoliberali era un’aberrazione da
attribuire all’interventismo statale che a sua volta era l’anticamera
della degenerazione nazista. Al contrario, con le parole di
Foucault:
«[l]a società regolata in base al mercato, a cui
pensano i neoliberali, è una società in cui a dover costituire il
principio regolatore non è lo scambio delle merci ma sono i
meccanismi della concorrenza. Sono questi meccanismi che devono avere
la superficie più estesa e il maggiore spessore possibile, che
devono occupare inoltre il maggiore volume possibile nella società.
Ciò significa che non si cerca di ottenere una società sottomessa
all’effetto merce, bensì una società sottomessa alla dinamica della
concorrenza. Non una società di supermercato ma una società
d’impresa. L’homo oeconomicus che si vuole ricostruire non è l’uomo
dello scambio, l’uomo consumatore, ma l’uomo dell’impresa e della
produzione»
(M. Foucault, La Nascita della Biopolitica,
3a ed. Feltrinelli 2017, pp. 129-130).
Non l’uniformità
della merce dunque, ma la molteplicità e la differenziazione delle
imprese. Fra gli esponenti della corrente “sociologica”
della Scuola di Friburgo, Röpke è sicuramente colui che ha dato il
maggior impulso nel teorizzare la perfetta società di mercato. I
suoi vagheggiamenti di una “economia umana”, in cui il
tessuto sociale sarebbe composto da piccole e medie imprese agricole
e artigianali secondo il modello dei villaggi della campagna di
Berna, riflettono l’utopia di una società di liberi cittadini
imprenditori che potendo scegliere in piena autonomia su come gestire
la loro attività economica e le proprie strategie di consumo si
emanciperebbero dall’omologazione che caratterizza le masse urbane
proletarie. Se si vuole scongiurare una “società delle
formiche” tipica del collettivismo socialista ma anche del
capitalismo fordista, occorre, a detta di Röpke, generare quella
libertà che solo un sistema di imprese in competizione può
garantire. Per gli ordoliberali infatti la libertà va di pari passo
con la concorrenza, vista, quest’ultima, non solo come il legame
interindividuale più efficiente economicamente, ma anche come ciò
che permette all’individuo di affermarsi come essere libero, autonomo
e responsabile.
C’è dunque un progetto umanista di fondo, un
tentativo di tratteggiare i contorni di un capitalismo in cui l’uomo,
in quanto imprenditore di se stesso e della propria vita, si
riapproprierebbe così delle sue facoltà soggettive autentiche. Gli
individui che pensano come pensa un’impresa, cioè in termini di
profitti, entrate/uscite, investimenti e quant’altro, non solo sono
più produttivi ed efficienti ma sono anche più liberi e più
propriamente umani. Siamo in presenza di una sorta di metafisica
della concorrenza e del mito dell’impresa come fondamento di una
società di individui liberi economicamente e politicamente.
Non è difficile
notare da questo punto di vista delle ambiguità nel sistema teorico
ordoliberale. Gli intellettuali di Friburgo, come abbiamo visto, si
pongono il problema di una società che da una parte si uniformi alle
regole del mercato e che dall’altra eviti le nefaste conseguenze in
termini di massificazione, consumismo, urbanizzazione selvaggia,
omologazione tipiche dei regimi capitalisti e socialisti a loro
contemporanei. Una società in cui lo stato interviene non per
redistribuire ma solo per garantire alla macchina economica di
funzionare correttamente, una società in cui il legame sociale è
mantenuto grazie alle logiche concorrenziali, una società in cui
ogni individuo è libero in quanto proprietario e imprenditore, una
società in cui l’autenticità si può ricostruire ridando dignità a
un lavoro sottratto alla schiavitù della spersonalizzazione
fordista, una società deurbanizzata e a misura d’uomo, è una
società vista dagli ordoliberali come l’unico antidoto possibile
alla decadenza spirituale. Ma il paradosso è che nel tentativo di
sottrarre la società agli effetti negativi delle logiche di mercato,
gli ordoliberali in realtà non fanno altro che proporre una società
ancora più sotto l’effetto delle strutture economiche, poiché
l’individuo viene ritagliato proprio sul modello del mercato, come un
imprenditore della propria vita che deve ragionare in termini
economicisti in ogni aspetto della sua esistenza.
Si è tentato
di immaginare una società libera dalle degenerazioni del capitalismo
ottocentesco e fordista, proponendo un modello in cui però ogni
aspetto dell’esistenza si misura secondo criteri economici e che
assomiglia molto più a un insieme atomistico composto da una
molteplicità di individui in lotta fra di loro che al regno della
libertà. Ciò che dovrebbe essere esterno al mercato, è in realtà
proprio fatto su misura delle sue logiche. È ora più chiaro quello
che vuole intendere Foucault: per cercare di sottrarre l’individuo
alla mercificazione e alienazione, lo si è rinchiuso nella gabbia
della logica concorrenziale e imprenditoriale.
Si forma così un
nodo inestricabile laddove si vorrebbero mettere insieme due elementi
inconciliabili, da una parte una società uniformata sul modello del
mercato, dall’altra libera dai suoi effetti più negativi. Alla fine
anche la variante sociologica di Röpke conduce verso una proposta in
cui la società è del tutto in balia dei meccanismi economici. Non
si sta parlando semplicemente di quella che Habermas denunciava come
la colonizzazione dei mondi della vita da parte della razionalità
strumentale e neppure tanto dei meccanismi che strutturano l’”uomo
a una dimensione” di Marcuse: qua siamo in presenza di un progetto
di trasformazione antropologica attivamente messo in pratica dalla
fine degli anni settanta volto a realizzare un tutto concorrenziale
in cui il criterio della competizione sia la logica di fondo non solo
dell’economia ma anche della politica, della società, dell’esistenza
dell’individuo a ogni livello e grado. L’obiettivo diventa il governo
delle condotte individuali a partire dall’universalizzazione del
modello dell’impresa.
Non si tratta di un complotto, né di un
piano pensato a tavolino e messo in atto da un gruppo di studiosi e
politici. Si tratta di alcune concezioni che sono diventate dominanti
e che hanno prodotto specifiche pratiche e atteggiamenti, che
peraltro non hanno un carattere di sistematicità ma che a seconda
del contesto possono subire rallentamenti, deviazioni, interruzioni.
Ne è prova il fatto che non tutte le ricette ordoliberali siano
state realizzate e non tutte abbiano funzionato. Non c’è un soggetto
onnisciente che pianifica ogni politica neoliberista e che ha sotto
controllo tutti i suoi effetti, ma c’è una classe dirigente globale
coadiuvata da specifiche istituzioni e da specifici think tank,
che muove una lotta di classe dall’alto avvalendosi di una serie di
strategie e di tecniche di varia natura per mantenere la sua
egemonia.
Sicuramente molti
esponenti della Scuola di Friburgo non sarebbero contenti di vedere
il tipo di realtà sociale che si è venuta formando a partire dagli
anni Ottanta. Non solo il sogno di una società come se la immaginava
Röpke non si è mai potuto realizzare ma la governamentalità
liberista non ha neppure messo un freno a quella mercificazione e
omologazione consumistica che era il bersaglio della critica
ordoliberale. Così, il mito della concorrenza generalizzata e
totalizzante ha prodotto effetti ancora più profondi e radicali
sull’essere umano di quanto gli stessi ordoliberali probabilmente si
aspettassero. È sotto l’occhio di tutti come lo smantellamento del
sistema previdenziale e la messa al bando delle politiche
redistributive abbia creato un sistema in cui l’individuo è chiamato
a un continuo calcolo individuale su tutto perché deve assumersi
quei rischi di cui prima era lo stato a prendersi carico.
La
privatizzazione del servizi e la commercializzazione virtualmente di
ogni aspetto della realtà significano vedere la sanità e
l’istruzione come un investimento che il singolo è chiamato a fare
oppure no a seconda di un calcolo costi/benefici; allo stesso modo il
nostro corpo, il nostro tempo, le nostre relazioni sociali e
affettive devono essere massimizzate e ottimizzate secondo i medesimi
criteri. Quella che apparentemente è una libera scelta è il frutto
di un sistema concorrenziale generalizzato al quale non ci si può
sottrarre se si vuole vincere la “partita” nella giunga
neoliberista. Un mondo in cui se non sei continuamente attivo e
intraprendente vieni declassato e sorpassato, obbliga a dover
scegliere, a dover continuamente ricorrere a calcoli utilitaristici
in ogni ambito. Un soggetto che non sia continuamente attivo e pronto
a cogliere le migliori opportunità sembra inconcepibile. È la
logica della micro-impresa individuale in un ordine di concorrenza
perfetta che arriva a interessare finanche gli aspetti psicologici
più profondi.
L’interiorizzazione di questi meccanismi
concorrenziali e imprenditoriali, che vengono continuamente
riattivati dalle narrazioni del Nuovo Management o dai guru della
Silicon Valley, produce nuove forme di soggettività docili e
disciplinate sia nel tempo libero, dove le energie sono rivolte alla
scelta dei prodotti commerciali o affettivi migliori, che nel lavoro
dove per il singolo lavoratore l’obiettivo è quello di raggiungere
standard qualitativi sempre più alti, migliorare la propria
“impiegabilità”, essere più produttivi degli altri in un
sistema in cui i nuovi strumenti di valutazione sono sempre più
capillari, specifici e individualizzati. Sotto il paraocchi
ideologico della responsabilizzazione, dell’autonomia e della
realizzazione di sé, si crea un meccanismo competitivo che comporta
una corsa affannosa a raggiungere il massimo dell’efficienza
produttiva infliggendo dei costi psicologici enormi in termini di
ansia, stress e autostima, che vengono poi arginati il più possibile
dai nuovi prodotti del benessere (palestra e attività fisica, corsi
di meditazione, regimi dietetici, tecnologie di “quantified
self”) che quella che il sociologo ed economista William
Davies chiama molto puntualmente “l’industria delle felicità”
è ben lieta di venderci.
Come affermano
brillantemente Dardot e Laval, il neoliberismo non è un ritorno a un
capitalismo senza regole, non è semplicemente distruzione
regolativa, istituzionale e giuridica, è almeno altrettanto
produzione di relazioni sociali, di forme di vita e di soggettività.
Il neoliberismo punta a totalizzare, a fare mondo, tutte le
dimensioni dell’esistenza umana. Non è semplicemente una modalità
di organizzazione economica ma anche una forma di governo dello
stato, della società, delle condotte individuali.
Per questo
l’obiettivo finale del neoliberismo, così come concepito dagli
ordoliberali ma anche dai teorici della scuola austriaca, è quello
di configurarsi come unica razionalità governamentale possibile,
negando ogni possibile esternalità critica, ritenuta inammissibile.
Il disegno egemonico avrà trionfato quando il neoliberismo si sarà
imposto come una seconda natura, una normalità interiorizzata che
impedisce anche solo di ipotizzare un’alternativa.
Pubblicato per la prima volta il 2 ottobre 2017
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.