I dinosauri rappresentano per molti l’archetipo di animale estinto: grossi, impressionanti e morti. Sono questi i motivi per cui sono particolarmente amati dai bambini, particolarmente conosciuti dai non addetti ai lavori e particolarmente studiati dai paleontologi. Ci verrebbe quindi da pensare di sapere molto – quasi tutto – su di loro, e in effetti ne sappiamo molto di più che rispetto ad altri gruppi di organismi. Ma sicuramente non tutto quel che c’è da sapere, e sicuramente meno di quanto pensiamo.
Mentre per tutto il XIX secolo e buona parte del XX i dinosauri sono
stati considerati alla stregua di bizzarrie del creato – e in
seguito dell’evoluzione, enormi lucertoloni torpidi e indolenti,
già a partire degli anni ’70 la scoperta di fossili
particolarmente ben conservati, e la loro contestualizzazione
nell’ambiente in cui vivevano, ha condotto a ripensarli
drasticamente, come organismi attivi, presumibilmente a sangue caldo,
o comunque in grado di termoregolare in maniera parzialmente
autonoma, con una complessa vita sociale e cure parentali.
Più
recentemente, il progredire delle tecniche di conservazione e di
studio ha permesso di sviluppare ulteriormente questa conoscenza,
permettendo di ricostruire aspetti che fino a pochi decenni fa erano
lasciati alla fantasia del paleontologo e dell’artista, e al
confronto con organismi moderni, noti. Adesso sappiamo, ad esempio,
che molti dinosauri erano ricoperti da piume o comunque strutture
morbide a base di cheratina, che fossilizzano in genere male e sono
assenti nei rettili odierni – che venivano sistematicamente presi a
modello per le ricostruzioni. Di uno di questi dinosauri siamo anche
stati in grado di ricostruire il modulo cromatico – non troppo
sorprendentemente, per un piccolo predatore notturno, ricorda
tantissimo quello di un procione.
Ci siamo quindi resi conto che, almeno per alcuni gruppi di dinosauri, il confronto più adeguato è rappresentato dagli uccelli, e la cosa non deve sorprenderci, dato che gli uccelli sono dinosauri. Per la precisione, sono un sottogruppo di dinosauri, l’unico ad essere sopravvissuto alla grande estinzione del Cretaceo. Questa, per inciso, non è una novità, dato che Archaeopteryx, considerato come una forma di transizione tra una struttura da dinosauro classica e una da uccello moderno, è noto fin dal 1861.
Oggi sappiamo che gli uccelli non erano gli unici dinosauri con le piume (molti dinosauri carnivori le avevano, e strutture simili, anche se forse non omologhe, si trovano anche in dinosauri erbivori non imparentati) né gli unici ad aver cercato di volare: gli Scansoriopterygidae, un gruppo di piccoli dinosauri di dimensioni paragonabili a quelle di un piccione, vissuti nell’attuale Cina nel Giurassico, avevano indipendentemente sviluppato la capacità quanto meno di planare dagli alberi. Mentre il discorso degli ultimi due secoli si è concentrato principalmente sui dinosauri grandi, spaventosi ed estinti, negli ultimi vent’anni abbiamo iniziato a occuparci in maniera più approfondita di dinosauri piccoli, apparentemente poco impressionanti, buona parte dei quali somigliano tantissimo a qualcosa che non è estinto per niente, basta buttare una manciata di briciole per terra per vederne comparire rapidamente cinque o sei.
In questa ricerca si inserisce (o sembra inserirsi) uno studio
pubblicato recentissimamente, relativo alla
descrizione di uno di questi uccelli con caratteristiche ancestrali,
che ha ricevuto il pittoresco nome di Oculudentavis khaungraae.
Il fossile in questione è un cranio – e di crani di
dinosauro ne abbiamo tanti. Quello che lo rende particolarmente
interessante sono due caratteristiche particolari: la prima è
rappresentata dalle dimensioni, che non superano i 7 millimetri di
lunghezza; questo nonostante il grado di ossificazione indichi che
non si tratta di un giovane.
La seconda è rappresentata dal
mezzo in cui si è conservato: a differenza della maggior parte dei
fossili di dinosauro, non si tratta di un’impressione in una
roccia, o di un osso fossilizzato, ma di un’inclusione in una
goccia d’ambra – cioè di resina fossile. Questo, oltre a
permettere la conservazione di elementi di dimensione minuscola,
permette anche di avere una struttura tridimensionale in un fossile
estremamente piccolo e fragile, e quindi di poterne ricostruire
l’aspetto con estrema fedeltà.
Quando, da bambino, ero appassionato di dinosauri, ovunque si leggeva
che il dinosauro più piccolo era Compsognathus, un piccolo
predatore vissuto nel Giurassico, lungo circa mezzo metro coda
compresa. Naturalmente era arcinoto che gli uccelli sono dinosauri, e
che l’uccello più piccolo è il colibrì ape (Mellisuga
helenae), che misura meno di 6 cm di lunghezza totale per meno di
2 g di peso, ma per qualche motivo, considerare il colibrì un
dinosauro suonava male. Era diffusa l’idea che la maggior parte dei
dinosauri comprendesse organismi piuttosto grandi, che una
miniaturizzazione diffusa fosse stata acquisita solo negli uccelli, e
che dimensioni veramente ridotte fossero comunque una caratteristica
abbastanza recente.
Per quanto ora sappiamo che dinosauri di
dimensioni paragonabili agli uccelli moderni erano tutt’altro che
una rarità, questo nuovo fossile sposterebbe notevolmente in basso
questo range dimensionale. Secondo la ricostruzione di Xing e
colleghi, Oculudentavis aveva dimensioni poco superiori al
colibrì ape e in base alle ricostruzioni filogenetiche sembrerebbe
avere delle caratteristiche molto antiche. Sembrerebbe dunque
evidente che l’idea che dimensioni molto ridotte siano state
conseguite dagli uccelli in età relativamente tarda risulti
completamente priva di supporto.
Oculudentavis non è
uno degli uccelli più antichi (ha “solo” 99 milioni di anni,
contro i 150 di Archaeopteryx), ma ha dei tratti molto
arcaici, e degli aspetti che ricordano chiaramente la
miniaturizzazione seguita da altri vertebrati. Ha in particolare dei
tratti finora ignoti nei dinosauri, quali un anello sclerale formato
da ossicoli molto sviluppati, molto simili a quelli di una lucertola,
e denti appoggiati all’osso mascellare, in maniera analoga alle
lucertole, ma non inseriti in alveoli come negli altri dinosauri.
Pur non essendo un paleontologo, Corrado Guzzanti a questo punto ci
offre un interessante spunto di riflessione: “Corre come una
lucertola, si arrampica come una lucertola, si comporta come una
lucertola, prende il sole come una lucertola, chi è? La lucertola!”.
E il nostro sogno di fronte alla possibilità di veder riscrivere
drasticamente una pagina della storia evolutiva dei dinosauri si
scontra di fronte ad un’ipotesi che non è stata presa in
considerazione dagli autori dello studio: Oculudentavis è un
uccello così piccolo e strano perché molto probabilmente – quasi
sicuramente – non è un uccello: è una lucertola.
Il
fatto che questa ipotesi non sia stata contemplata è sospetto,
sostiene il
paleontologo Andrea Cau sul suo blog: di fatto, gli
autori hanno testato la posizione di Oculudentavis tra gli
uccelli, ottenendo una posizione decisamente ancestrale, proprio
accanto ad Archaeopteryx – ma hanno dato per scontato che
fosse un uccello, e non hanno incluso altri rettili, forzando di
fatto la sua posizione.
Il muso stretto e allungato, simile a
un becco, ha probabilmente spinto verso l’interpretazione di
Oculudentavis come un uccello ancestrale, ma l’assenza
totale di scheletro post-craniale, unita ad almeno due elementi
cranici (di più secondo Cau, e ammetto che come tassonomo dei
policheti sono incline a considerare rilevante la sua opinione)
tipici degli Squamati (il gruppo a cui appartengono le lucertole) e
ignoti negli Arcosauri (il gruppo cui appartengono coccodrilli,
dinosauri e uccelli), avrebbe dovuto indurre alla cautela.
Perché Xing e colleghi non hanno preso in considerazione l’idea
che Oculudentavis fosse una lucertola, un gruppo i cui resti,
peraltro, sono rimarchevolmente più comuni nell’ambra mesozoica
rispetto a quelli dei dinosauri? Viene spontaneo ipotizzare una certa
dose di malafede – nonostante ci siano una serie di fossili di
uccello mesozoici inclusi nell’ambra birmana, che sembrano
suggerire dimensioni inferiori rispetto a quelli trovati in una
matrice litica, suggerendo che i dinosauri di minori dimensioni siano
sottorappresentati nel record fossile.
Ovviamente, la
descrizione di una lucertola lunga circa sei centimetri a completo
sviluppo non rappresenta nulla di particolarmente affascinante e
sicuramente non avrebbe garantito agli autori una pubblicazione su
Nature, a differenza di un dinosauro di queste dimensioni. In
paleontologia, la scelta dell’ipotesi meno plausibile di fronte a
resti frammentari non è affatto una novità – e la tentazione di
ottenere un po’ di visibilità per un lavoro condotto nella
scarsità d fondi e nell’oscurità può essere una
tentazione cui è difficile resistere.
Al tempo stesso, come suggerisce argutamente il
chimico e divulgatore scientifico Dario Bressanini,
noi esseri umani siamo suscettibili nei confronti delle storie che ci
danno ragione.
Personalmente non ho alcun motivo per desiderare
che Oculudentavis sia un dinosauro e non una lucertola, eppure
quando ho letto l’articolo, pur rilevando quel paio di discrepanze
– quegli elementi che persino io so essere tipici di una lucertola
e non di un dinosauro – l’ho trovato singolarmente convincente.
Proprio perché supportava un’idea che in tutt’altro campo porto
avanti ormai da qualche anno – che le scale di progresso, lo
sviluppo graduale e lineare di caratteristiche morfologiche, siano un
errore concettuale, e che il reale sviluppo della diversità degli
organismi sia paragonabile a un cespuglio, con momenti di rapida
diversificazione in cui vengono testate varie soluzioni,
successivamente scremate dalla selezione naturale. Avendo imparato
che di solito questo modello è più realistico, ero pronto ad
applicarlo anche in questo caso. Dove invece avevo torto marcio:
desideravo un dinosauro della taglia di un colibrì, ma non posso
avercela con Oculudentavis per aver tradito le mie aspettative
ed essere una lucertola – la miopia che deriva dal voler vedere
realizzato un proprio desiderio era la mia.
È possibile che
gli autori abbiano messo insieme quei frammenti di uccello ancestrale
e un cranio che “gli stava bene”, e si siano fatti trascinare
dalla bellezza della propria teoria – è sempre sgradevole quando
una teoria elegante crolla contro l’evidenza dei fatti, ma se
facciamo scienza, prima o poi ci dobbiamo abituare all’idea.
Un’ultima nota a margine di Oculudentavis: le sue problematicità non si limitano alla sua interpretazione. Come già molti hanno evidenziato, le ambre mesozoiche della Birmania sono tutt’altro che degli oggetti innocui. Di fatto, una buona parte della comunità scientifica si rifiuta di studiarle – alcuni dei più intransigenti, persino di revisionare articoli basati su questo materiale – perché vengono estratte facendo uso dello sfruttamento di manodopera minorile. Al tempo stesso, sappiamo che si tratta di materiale di valore scientifico estremamente elevato, ed è difficile far finta che non esista – ma riconoscere la sua esistenza, e costruire un mercato, sia pure molto specializzato, intorno ad esso, corrisponderebbe a finanziare e supportare lo sfruttamento di bambini e adolescenti in condizioni di povertà. Una circostanza che sposta questa vicenda da un affascinante dibattito intellettuale su un cranio fossile da sette millimetri alle responsabilità che, volente o nolente, ha la conoscenza scientifica.
Immagine di Vera Kratochvil (dettaglio) di pubblico dominio
Joachim Langeneck, assegnista di ricerca in biologia presso l’Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell’ambito dell’etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.