L’importanza del Michigan
Dopo la delusione del Super Martedì (3 marzo) Sanders aveva bisogno di ripetere il “miracolo nel Michigan” con cui l’8 marzo 2016 si garantì una lotta serrata con la Clinton fino alla fine del calendario delle primarie. All’epoca Sanders riuscì a raggiungere una vittoria di 49,7% a 48,3% che può sembrare risicata, ma il cui vero valore stava nei sondaggi della vigilia, che pronosticavano un 60-35 in favore dell’ex first lady.[1]
Quel miracolo – determinato a priori da una scorretta profilazione dell’elettorato da parte dei sondaggisti[2] – si reggeva, nella (ex?) culla dell’industria automobilistica, su una coalizione eterogenea di giovani, elettori indipendenti e, più importante di tutti, classe operaia bianca.[3]
Nonostante fosse stata la Clinton, infatti, a primeggiare nella fascia più bassa sia per istruzione sia per reddito, è facile ipotizzare che esse comprendessero in maggioranza la popolazione afroamericana (particolarmente concentrata a Detroit, anche a seguito dello spopolamento che, dopo la crisi del 2008, l’ha resa la città più “nera” degli Stati Uniti – 84% al censimento del 2010![4]).
Perché una vittoria in Michigan era così essenziale per Sanders? Per tre principali motivi:
1. Invertire la tendenza di vittorie di Biden[5] e tentare di mantenere aperta la corsa per la nomination.
2. Farlo il 10 marzo, perché, in base alla composizione demografica degli stati e ai sondaggi disponibili, il set di stati che hanno votato quel giorno era il più favorevole per Sanders in tutto il calendario restante.[6]
3. Farlo in Michigan – e questo è il dato politicamente più importante – perché quello stato più di tanti altri è un simbolo della tradizionale base operaia democratica e sindacalizzata, nonché della deindustrializzazione e del passaggio di settori operai dall’elettorato di Obama all’elettorato di Trump.
Democratico alle presidenziali fin dal 1992, il Michigan è stato infatti vinto da Trump nel 2016 per soli diecimila voti, in cui decisivi furono i quarantottomila punti di distacco della contea di Macomb, un’area suburbana con popolazione operaia conservatrice e populista. La contea era divenuta celebre negli anni Ottanta come caso di studio per la presenza di “Reagan Democrats”, ossia appunto gli elettori tradizionalmente democratici che sostenevano il candidato repubblicano.
Il Michigan era dunque centrale per consentire a Sanders di rafforzare la propria narrazione, accreditandosi come il candidato della working class contro le politiche neoliberali di Washington. All’indomani dell’infausto Super Martedì il senatore ha infatti annullato i suoi eventi in Mississippi – lo stato più afroamericano dell’Unione –, dandolo per perso, per concentrarsi anima e corpo sul Michigan divenuta ormai la madre di tutte le battaglie. Nella settimana di campagna, in particolare, Sanders si è concentrato sul NAFTA, l’accordo di libero scambio con Canada e Messico approvato nel 1993, su cui Biden votò a favore mentre Sanders si univa ai picchetti di protesta.
L’offensiva lanciata da Sanders sul Michigan ha coinvolto non soltanto la campagna elettorale sui temi dell’occupazione industriale e del welfare state, ancora una volta marcando la distanza antitetica da Biden, ma ha cercato anche di penetrare tra gli elettori di colore in uno stato in cui manca la popolazione ispanica che fin qui ha sostenuto il senatore del Vermont. Nel Michigan esiste infatti una piccola ma compatta comunità musulmana, composta sia di afroamericani convertiti nel Novecento sia di arabo-americani immigrati dal Medio Oriente. La deputata per il collegio afroamericano di Detroit, Rashida Tlaib, appartiene al secondo gruppo ed è, oltre che una militante dei Democratic Socialists of America, una agguerrita sostenitrice di Sanders. Già nel 2016 i musulmani avevano sostenuto Sanders[7], che è sì ebreo di origine, ma critico di Israele e non eccessivamente religioso – probabilmente per niente[8], anche se comprensibilmente non lo dice visto lo stigma ancora associatovi.[9] Date queste basi di partenza, ripetere l’exploit del 2016 non sembrava completamente impossibile e Sanders sembrava aver segnato un grande punto a suo favore guadagnandosi l’endorsement del Reverendo Jesse Jackson, l’ex leader del movimento per i diritti civili da lui stesso appoggiato alle primarie democratiche del 1988.
Come ha votato il Michigan
Queste operazioni si sono rivelate incapaci di intaccare il radicato consenso di Biden tra gli afroamericani, né i musulmani sono stati in grado di fare la differenza per Bernie. Questi, che quattro anni fa aveva vinto 73 delle 83 contee del Michigan[10], oggi non ne ha riportata nessuna[11] e ottiene il suo miglior risultato (45%) in quella di Washtenaw, sede, ad Ann Arbor, dell’Università del Michigan. Qui perde dieci punti rispetto al 2016, ma il suo arretramento è ancora più forte nelle contee conservatrici: ad esempio quella industriale di Kent (-17 punti) o quella rurale di Houghton (-20).
Come già accaduto nel Super Martedì[12], infatti, l’amara sorpresa per Sanders è che egli è stato abbandonato dalla working class da lui tanto invocata. I dati degli exit poll parlano veramente da soli: i bianchi non laureati, che lo avevano premiato nel 2016 con il 57% dei loro consensi[13], gli accordano oggi il 39%, dieci punti dietro Biden.[14] Purtroppo non abbiamo i dati del 2016 sugli uomini bianchi non laureati, ma considerando che la sua popolarità era largamente maggiore tra gli uomini rispetto alle donne e leggermente maggiore tra i non laureati che tra i laureati, dato un 62% aggregato tra gli uomini bianchi si può stimare un 65% tra quelli che non avessero un titolo universitario. Oggi è anche lì sprofondato al 39%, tre punti dietro Biden. La differenza che manca alla somma dei due rivali per arrivare a 100 è data prevalentemente da voti “dispersi” su Bloomberg che, benché non più in corsa, restava ancora stampato sulle schede elettorali (nonché su quelle votate per posta nei 45 giorni precedenti).
Ma non solo su quel versante piange la demografia elettorale. Un altro gruppo fondamentale per Sanders sono gli elettori “orfani” della senatrice Warren. Il suo zoccolo duro, ossia le donne bianche laureate, che già avevano mostrato una predilezione per Biden[15], votano in Michigan l’ex vicepresidente con un inappellabile 58 a 35 su Sanders. In altri termini, il loro schieramento ricalca con un divario di un punto percentuale quello dei non-bianchi, che costituiscono un pilastro della coalizione di Biden (soprattutto in Michigan dove non vi sono molti elettori ispanici, invece quest’anno schierati pro-Sanders).
Gli altri risultati
Uno sguardo a volo d’uccello sugli altri stati che hanno votato martedì può aiutare a gettare ulteriore luce sullo stato delle primarie.
Mississippi: Biden 81%, Sanders 14,8%. Se per Sanders indichiamo il decimale è per un motivo: il senatore non riesce a superare la soglia di sbarramento del 15%, un’evenienza che non era prevista neppure nel più ostico dei quattro collegi elettorali in cui lo stato è suddiviso, quello a maggioranza afroamericana.[16] Lo stato è del resto per Sanders forse il più difficile tra tutti i 50: come il suo Vermont, infatti, è considerabile il più progressista, così il Mississippi è il più arretrato, avendo dato origine al non invidiabile motto «grazie a Dio c’è il Mississippi», che i cittadini di altri stati disagiati ripetono per “ringraziarlo” di occupare costantemente l’ultimo posto nelle graduatorie di sviluppo umano. Irrigato dall’ampio bacino alluvionale del fiume da cui prende il nome, lo stato del Mississippi è nel cuore del Profondo Sud ed ha una storia economica fondata sulla coltivazione del cotone, prima con la schiavitù e poi a mezzadria. Teatro di alcuni tra i più efferati crimini razzisti (il linciaggio di Emmett Till, gli assassinii narrati nel film Mississippi burning), ultimo stato che ancora esibisce nella propria bandiera il vessillo confederato, popolato da afroamericani per il 37% (il più alto tasso dell’Unione), presenta una fedeltà elettorale che ricalca in blocco le linee di divisione razziale, riducendo quasi allo zero la possibilità di passaggio di voti tra un partito e l’altro.[17] In realtà, i democratici fino a un decennio fa (ossia fino a quando hanno eletto un nero alla Presidenza) mantenevano ancora un forte insediamento locale, su posizioni che erano però rimaste estremamente conservatrici. L’attuale senatrice repubblicana Hyde-Smith, che in campagna elettorale contro lo sfidante nero Espy evocò i linciaggi[18], è stata una democratica fino al 2010. L’elettorato bianco alle primarie democratiche, che era ancora il 48% nel 2008, è crollato al 24% nel 2016.
Tuttavia, proprio negli ultimi anni qualche piccola crepa si è aperta nel muro. Anzitutto le due campagne presidenziali di Obama (anzi, tre, se si considera anche l’investimento nelle primarie 2008) hanno dato una spinta formidabile alla mobilitazione dell’elettorato di colore. In secondo luogo, perfino qui si è verificato il passaggio dal Partito repubblicano ai democratici delle zone suburbane bianche, che compensa il crollo verticale nelle zone rurali.[19] E sebbene siano proprio questi ultimi, i bianchi non laureati, a dare a Sanders il suo miglior risultato (36% contro il 61% di Biden), l’ex vice di Obama mostra la capacità di unificare sia il voto di colore sia quello bianco tradizionalista sia quello bianco più liberale.
Missouri: a lungo ritenuto la cartina di tornasole degli Stati Uniti, incuneato al centro del continente tra il Midwest, il Sud e l’Ovest, chi lo ha vinto ha vinto le presidenziali dal 1904 al 2004 con una sola eccezione. Obama lo perse per meno di 4000 voti nel 2008, ma per 260.000 nel 2012, e Trump lo ha vinto per 520.000 voti nel 2016, indicando una conservatorizzazione dello stato analoga a quella di altri più grandi stati come l’Ohio.[20] Il ruolo “centrista” del Missouri sembrava però essere stato riconfermato dal risultato delle primarie, in cui Hillary vinse per 1500 voti (!), e dai sondaggi iniziali che vedevano i democratici nuovamente competitivi.[21]
Oggi Biden ha battuto il suo sfidante 60%-34%[22]: questo forte recupero è avvenuto per la minore affluenza giovanile e per un minor consenso a Sanders tra gli over 45. Tradotto, il vecchio elettorato di Bernie è stato diluito, probabilmente da una combinazione tra astensionismo e afflusso di ex-repubblicani disgustati da Trump. Il Missouri, come preannunciato, ha una enorme variazione interna in termini di urbanizzazione e composizione etnica: ciononostante, anche qui come in Michigan Biden ha vinto tutte le contee. Una delle migliori per Sanders è la contea di Boone, sede dell’Università del Missouri: qui vinse nel 2016 61-39%[23], oggi perde 45-50 pur con un aumento dell’affluenza.[24]
North Dakota, Idaho, Washington. I primi due sono stati spopolati e molto rurali, mentre l’ultimo è politicamente egemonizzato dalla sua popolosa e liberal costa sul Pacifico, pur avendo una parte conservatrice adagiata (come tutto lo Idaho) sulle Montagne Rocciose. Tutti confinano, per poco o molto tratto, con la metà occidentale del Canada. Hanno aspetti tra sé molto diversi: ad esempio l’Idaho ha una forte popolazione mormona; il North Dakota ha una lunghissima tradizione di populismo rurale e di intervento pubblico nell’economia, anche tra i repubblicani; lo Washington è stato la culla del movimento no-global (“il popolo di Seattle”) e oggi è all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico, ma ha anche una potente industria militare che ha spinto su posizioni neoconservatrici anche democratici di spicco.
In ogni caso, tutti e tre sono l’espressione di una regola: negli stati occidentali Sanders ottiene risultati considerevolmente migliori che nel resto del Paese. Perché? Semplificando, per i due stessi motivi per cui ad Ovest nel 2008 Obama batteva la Clinton. Anzitutto sono stati in cui l’odio razziale è quasi del tutto assente dalla loro storia, essendo la loro popolazione sempre stata quasi interamente bianca. Questa condizione esclude la possibilità di una rigida separazione delle fedeltà elettorali su base etnica. In secondo luogo, l’istinto libertario ereditato dai tempi della Frontiera li porta a premiare i candidati percepiti come outsider (a partire dal senatore del Colorado Gary Hart nel 1984).[25]
Tuttavia, in termini assoluti, anche qui il bottino è magro per Sanders: perde 42%-49% in Idaho, perderà probabilmente di misura lo Washington (dove il voto è solo via posta e lo scrutinio è ancora in corso), vince 53%-40% il North Dakota – probabilmente grazie al fatto che non è una primaria ma un caucus, il cui formato tende a favorire le campagne con una base militante molto attiva e/o focalizzate su temi specifici.
Biden/Sanders vs. Clinton/Sanders
Sotto certi aspetti, la situazione delle primarie democratiche è simile a quella del 2016: una candidatura fortemente appoggiata dall’apparato del partito, a cui si contrappone Sanders su una piattaforma sia di sinistra sia “anti-establishment”. Ma c’è una differenza macro: oggi la candidatura di Sanders non è competitiva come quattro anni fa, nonostante in teoria potesse contare su tre fattori favorevoli: la sconfitta di Hillary Clinton alle presidenziali, che avrebbe potuto rendere meno attraente la via di centrosinistra; l’ingresso di nuove, più giovani coorti di età nell’elettorato; tre anni di Presidenza Trump che hanno aumentato le tensioni sociali e radicalizzato l’ala sinistra della base democratica.
Perché, dunque, Biden riesce a far meglio della Clinton?
Alcuni media hanno messo in luce come l’ex vicepresidente sia incomparabilmente più capace di un contatto empatico con le persone e non abbia il percepito distacco di Hillary dalla classe media. Una tesi che diventa difficile da sostenere quando si elenchino tutti gli improperi rivolti da Biden agli elettori che ha incontrato durante i suoi eventi elettorali («you are full of shit» a un operaio del Michigan contrario al controllo delle armi; «you are a lying dog-faced pony soldier» a una ragazza del New Hampshire che gli chiedeva un commento sul risultato dell’Iowa; «fat» a un anziano dell’Iowa che gli contestava il ruolo del figlio nell’Ucraina-gate).
Altri hanno messo l’accento sul danno che il “mail-gate” ha fatto alla Clinton, ma anche con Biden i repubblicani stanno soffiando sul fuoco dell’affare ucraino.
La risposta è probabilmente più semplice e più desolante: il sessismo. Una parte dell’elettorato democratico, specialmente la classe operaia bianca conservatrice, non riesce ad accettare che sia una donna la Commander in Chief. Tuttora Sanders ottiene sistematicamente più voti dagli uomini che dalle donne[26], ma nel 2016 questa tendenza era ancor più accentuata. Per un breve confronto, tra gli elettori uomini del Michigan ha ricevuto il 55% nel 2016 e il 43% quest’anno.
Sanders si ritirerà?
Ovviamente no. Come Kucinich – che all’epoca rappresentava l’estrema sinistra dei democratici – nel 2004, intende portare il proprio messaggio fino alla convention estiva. In più, come aveva detto in un comizio in Michigan, per lui «creare un movimento» è più importante che vincere le presidenziali.[27] Fin da subito, dopo lo scrutinio di martedì, ha manifestato l’intenzione di presentarsi al dibattito del 15 marzo per contestare le posizioni di Biden.[28]
Tuttavia Sanders sembra muoversi su una lama a doppio taglio.
Anzitutto, i suoi continui attacchi all’«establishment» non gli hanno soltanto valso il ridicolo di chi gli chiede se gli agricoltori, gli operai e gli afroamericani che votano Biden siano definibili establishment, ma hanno anche fatto sospettare che proprio questa retorica, avendo seminato sfiducia nei confronti del sistema politico e in particolare del Partito Democratico, sia alla radice della minore affluenza giovanile che così tanto lo sta penalizzando rispetto al 2016.[29]
In secondo luogo, la sua campagna ha presentato tassi di settarismo davvero preoccupanti – il limite estremo lo si è probabilmente toccato quando suoi sostenitori (uomini) si sono dati alla denigrazione online contro la Ocasio-Cortez, rea di aver elogiato un siparietto comico tra la senatrice Warren e una sua imitatrice.[30] Due giorni dopo, il sindaco di New York City de Blasio, che appoggia Sanders, ha rivolto alla stessa Warren un invito non molto delicato ad appoggiare il suo collega del Vermont: «a parti invertite, Bernie ti avrebbe già appoggiata».[31] L’incapacità della campagna di Sanders di mantenere buoni rapporti con i suoi primi potenziali alleati, e talvolta al suo stesso interno, rispecchia benissimo (purtroppo) una profonda linea che divide strategicamente il campo democratico. Nelle parole del The Atlantic: «Per Obama, Sanders rappresenta gran parte di ciò che non va tra i democratici: inamovibile, irrealistico, così immerso nella sua propria lotta da non vedere quante persone non siano d’accordo o quanto stia alienandosi persone che dovrebbero essere sue alleate. Per Sanders, è Obama che rappresenta gran parte di ciò che non funziona tra I democratici: eccessivamente disposto a compromessi e così ossessionato da ciò che non è possibile da aver perso la cognizione di cosa sia possibile».[32]
Le conseguenze del nuovo coronavirus
Con Trump classe 1946, Biden 1942 e Sanders 1941, la diffusione negli Stati Uniti del coronavirus SARS-CoV-2 politicizza ulteriormente il problema sanitario. I due democratici hanno ad oggi annullato tutti gli eventi di massa, il dibattito del 15 marzo è stato spostato da Phoenix a Washington D.C. e si terrà a porte chiuse, ed è difficile immaginare in quali condizioni si svolgeranno le prossime primarie.
Naturalmente l’esposizione dei candidati al contagio è solo la punta estrema dell’iceberg: l’assenza di una sanità pubblica e l’assenza di fatto persino di un coordinamento nazionale stringente possono produrre negli Stati Uniti una catastrofe umanitaria. Del resto già la sola chiusura delle scuole, con la conseguente sospensione dei pasti scolastici, ha posto a milioni di famiglie il problema di come assicurare l’alimentazione dei figli.[33]
La terribile emergenza all’orizzonte potrà forse fornire nuovo fiato alle posizioni politiche di Sanders riguardo la sanità pubblica – il senatore ha già detto, non senza ragione, che la sua campagna ha vinto la battaglia delle idee pur avendo perso quella dell’eleggibilità: ossia, molti democratici che pure sono d’accordo con lui voterebbero Biden considerandola una scelta più sicura da opporre a Trump. Del resto gli exit poll di martedì hanno mostrato che una maggioranza dell’elettorato democratico ritiene l’ex vicepresidente più in grado di Sanders di guidare il Paese attraverso una crisi.[34]
Per questo motivo anche Biden ha cercato di cogliere l’occasione, sia pur triste, dell’epidemia per accreditarsi come Presidente in pectore tramite un discorso in cui ha sottoposto a serrata critica le (in)azioni dell’amministrazione.[35] In particolare, ha condannato l’assenza di guida morale da parte del Presidente (il quale ha detto che non si è sottoposto a tampone perché non ha sintomi, mandando un messaggio tremendamente sbagliato alla popolazione), la xenofobia latente nella definizione di «virus straniero» data dalla Casa Bianca e infine evidenziato il dramma sociale arrembante: lavoratori che non hanno diritto alla malattia proprio mentre Trump pensa ad ulteriori sgravi fiscali per i colossi aziendali.
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Immagine di Lori Shaull (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.