Essere liberi o responsabili? Meglio ancora, poniamoci questa ulteriore domanda: la responsabilità che deve determinare e guidare i miei spazi di libertà, da chi deve essere decisa? Possiamo noi uomini occidentali, clienti a tempo pieno in questa debole società, aver la pretesa di essere adulti e in grado di gestire il delicato rapporto col prossimo, lo Stato, le regole necessarie per una convivenza civile, oppure è lo Stato che deve imporci limiti e libertà?
Da anni penso che tutte le istituzioni educative abbiano problemi nella formazione del cittadino per un errato senso di scelta personale e di individualismo massificato. Nel senso che ogni tentativo di regolarizzare la vita comune, o porre limiti all’egoismo degli umani sono viste come restrizioni insopportabili, invasione brutale e indesiderata nel nostro vivere quotidiano, che a ben vedere si riduce alle soddisfazioni più spicce, immediate, un piacere in serie, costruito da miti di seconda mano e da una ossessione per la felicità che nulla ha a che veder con l’esser felice, semmai è un desiderio feroce di rivalsa.
La libertà individuale che costruisce le basi della nostra felicità è sottomessa al bisogno di mostrare agli altri quanto non siamo falliti, creare a chi ci sta intorno ed è un potenziale invasore dei miei spazi liberi ed individuali, un senso di invidia. Una felicità, quindi, schiava della produzione (di bisogni e desideri generali) che assomiglia più a merce da esporre nei supermercati e non a uno stato di pace e personale e collettivo.
Un popolo che consuma ogni cosa, anche le relazioni sentimentali o l’amicizia, come fosse un hamburger di Macdonald, abituato a pensare a una continua lotta per il benessere, per ergersi sopra gli altri, perennemente infelice e confuso, è destinato a non esser coeso e a far la cosa giusta nei momenti di emergenza. Per cui gli par normale abbandonare l’ospedale dove si è ricoverati per evitare di diffondere un contagio, al fine di andar a sciare. A sciare. Questo è l’emblema, certo forzato come ogni esempio che vuol essere generale e semplificare dei concetti, di quello che siamo. Non tutti, per carità! Ma una buona parte.
Anche la psicosi collettiva in un certo senso non è un modo di condividere con altri un terrore, ma la banalissima gara di sopravvivenza. Cerca di prendere più roba possibile, lotta con gli altri per accaparrati più merce e materiale di consumo possibile. Per me, poi per la mia famiglia.
Come possiamo credere che la gente segua le linee guida dello Stato, quando esso è quasi del tutto irrilevante, visto che nei decenni post ideologici non abbiamo creato dei metodi per far in modo che le persone si fidino delle istituzioni, e che accettino di esser puniti per le loro responsabilità civili? Davvero pensiamo che individui abituati a non rispettare i codici della strada e del quieto vivere comune, che credono nella furbizia e in certo senso della disonestà che premia la mia libertà individuale di far quello che voglio, come voglio, a un certo punto, “così de botto”, si scoprono cittadini responsabili e quindi attenti a rispettare le regole (che ci sono perché lo Stato per quanto debole esiste e ci dona delle leggi per vivere meglio) sopratutto non per un tornaconto personale ma per rispetto e amore verso gli altri? Io dubito fortemente.
Dovremmo rivedere e ricostruire una narrazione sul ruolo del singolo in una società che richiede troppo tempo e spreco di energie. Si è voluto far intendere che libertà è l’assenza di regole generali e votate alla costruzione di una società basata sulla condivisione, in cui ci sono restrizioni ma gran parte della vita è basata sull’aiuto al prossimo. L’educazione, l’empatia, il coraggio di prendersi delle responsabilità, cioè la costruzione di un umano maturo, è un ostacolo al progetto di effimere libertà e progressismo debole con cui si genera una società di infelici perenni, ma anche masse alla ricerca del consumo, del momento di goduria, della soddisfazione immediata.
Può un popolo di infelici (incapaci di analizzare i motivi per cui si prova un malessere sottile e diffuso) dichiararsi libero? No fino a quando essa è collegata alla vittoria personale da esibire come un trofeo contro il resto del mondo. La stessa vittoria che dovrebbe metter in luce il nostro stato di uomini liberi è vittima dei ritmi di produzione e accumulo, cioè del capitale.
Le persone che giudichiamo vincenti passano la loro vita a far soldi attraverso il lavoro, di fatto sono sempre disponibili e presenti 24 h su 24, di modo che il profitto non subisca arresti. L’ossessione è che felicità e quindi libertà (perché a mio avviso le cose sono assolutamente collegate non puoi essere infelice e libero) siano derivati dal successo economico. Sono la casa, la macchina, le avventure erotiche e lo sballo, la moglie come trofeo, tanta tecnologia di cui spesso ignoriamo l’uso.
Le rivendicazioni personali che potrebbero generata una società forte e migliore, spesso non vanno oltre al “ma se mi piace o sono felice, perché no?” Questa domanda retorica serve ad allontanare da noi un dibattito su cosa sia davvero giusto, quali sono le cose di cui abbiamo davvero bisogno? Non è possibile fermarsi e ragionare. Il pensiero è nemico dell’azione e quindi non ci permette di consumare in allegria e senza pensieri il cibo, l’amore, la vita e gli oggetti.
Una società di schiavi del lavoro, del benessere, della costante esibizione di vittorie, di facili scorciatoie.
Abbiamo dimenticato (o facciamo finta di dimenticare) che “la libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.”
Partecipazione non è altro che responsabilità individuale e sociale. Parto da me, dal costruire una serie di obiettivi e desideri veri, reali, voluti davvero e allo stesso tempo mi occupo di aver cura e a cuore tutto quello che mi circonda.
Responsabilità civile e politica dei doveri non è altro che il più grande e giusto senso di libertà, quindi di felicità, perché non seguo i ritmi e i miti del consumo ad ogni costo, ma costruisco dei bisogni concreti e profondi, in più non sono nemmeno vittima dell’individualismo infantile perché penso a quello che le mie azioni possono creare anche in termini di danni verso l’esterno. Non c’è la falsa leggerezza e felicità della giustificazione a prescindere, ma un’analisi tanto serena quanto severa dei miei desideri, gesti, darsi dei limiti per rispetto verso sé stessi e attenzione nel confronto di chi ci vive accanto e non solo.
Il problema di fondo sono questi anni in cui si è attaccato a testa bassa ogni forma di diritto sociale, dando in cambio una libertà effimera a ciascuna persona. Sono i danni dello smantellamento, attacco generalizzato ai partiti che creano, attraverso la militanza, cittadini responsabili e capaci di analizzare i meccanismi di produzione del benessere individuale e collettivo. Non partecipiamo più. Assistiamo, semmai.
Per questo io credo nella responsabilità dell’individuo e non nelle libertà tanto care al sistema occidentale e capitalista. Sono libero e felice non solo quando godo di un piacere personale, ma quando lo posso condividere, quando ho la forza di sostenere e portare avanti relazioni sentimentali e di amicizia anche se mi costano spazi liberi e ripensamenti su cose in cui pongo una certa fiducia, quindi quando non scappo da uomo debole e codardo dalle crisi che si aprono nei rapporti di amicizia o affettivi, ma ho il coraggio di esporre la mia sofferenza, essere vulnerabile e cercare un confronto. Sono libero e felice quando metto il lavoro al suo reale posto, cioè un mezzo per vivere e non il fine, non il padrone assoluto del mio tempo. Sono libero e felice quando non faccio il furbo, pago le tasse, rispetto le regole del codice stradale, ammetto pubblicamente di aver errato e accetto le ammende.
Sono libero e felice, grazie al senso di responsabilità e al dovere morale di donare un mondo migliore alle nuove generazioni. In cui la polizia non spari ai rifugiati, dove non si debba scappare perché l’espansionismo imperialista ci viene venduto come esportazione di democrazia. Sono libero e felice, quando sono un essere umano che crede negli esseri umani. Per farlo devo accettare che la mia vita debba essere regolata dalla responsabilità. Tutto qui.
Immagine da pxhere.com
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni