Case Popolari è una pagina Facebook come tante altre. Ne esistono migliaia. Questa raccoglie le fotografie di costruzioni di edilizia popolare in Italia e nel mondo. Ogni tanto, sempre più di frequente purtroppo, gli amministratori fanno presente che loro non trattano “assolutamente richieste per la risoluzione di problemi come la mancanza d’acqua e il malfunzionamento dei riscaldamenti e soprattutto non possediamo graduatorie e né tantomeno gestiamo l’assegnazione degli alloggi”.
Quale è il punto, vi starete chiedendo? Con un post di qualche giorno fa, niente di eclatante tra l’altro, qualche centinaio di interazioni, gli amministratori della pagina hanno deciso di accompagnare (tutelandone ovviamente la privacy) il solito messaggio con gli screenshot di alcune delle richieste che arrivano loro. Richieste di informazioni sulle uscite delle graduatorie per l’assegnazione di alloggi popolari, persone disperate per case allagate, altre con rischio di sfratto: sono solo alcuni degli esempi delle richieste che arrivano. L’intento della pubblicazione non era quello della derisione (anche perché a tutte queste persone viene data una risposta molto cortese) quanto piuttosto, nel piccolo, provare a dare loro un po’ di visibilità, per rendere nota attraverso un ulteriore canale la disperazione a cui arriva chi è titolare di un diritto che dovrebbe essere garantito dallo Stato nelle sue diverse forme.
Questo episodio mi ha fatto riflettere molto, mi ha fatto tornare su argomenti su cui rimugino spesso, argomenti che potrebbero entrare a gamba tesa nel dibattito pubblico sviluppato in questi giorni di emergenza sanitaria che viviamo ma che, invece, vengono troppo spesso lasciati da parte.
L’analisi di questo post e delle risposte che ne sono seguite ci potrebbero aprire delle praterie per il confronto, soprattutto a sinistra: lo stato dell’edilizia popolare, il diritto alla casa, l’informazione, la comunicazione, l’analfabetismo digitale e il modo in cui questi fenomeni vengono, a loro volta, trattati dagli esperti.
La prima cosa che mi è venuta da pensare è chissà quali sono le difficoltà di una persona che, pur di trovare una risposta al suo problema, decide di prendere e scrivere sulla chat di una pagina che, vagamente, si chiama Case Popolari. E la seconda, successivamente a ruota, è che l’enorme problema che abbiamo in Italia in termini di analfabetismo digitale non riguarda solo il mancato sviluppo delle figure professionali di cui il mercato di oggi lamenta tanto la mancanza, quanto il fatto che abbiamo la maggior parte della popolazione che, con il Paese che sta cambiando, non riesce (più?) a fruire dei propri diritti. Ed è su questo che vorrei soffermarmi un momento.
Analfabetismo informatico ed analfabetismo digitale non sono esattamente la stessa cosa: nel primo caso ci si riferisce alla capacità tecnica di utilizzare uno strumento, sia esso un pc, uno smartphone o un tablet, mentre nel secondo a quella di “saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie di informazione e comunicazione (TIC) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione” (Unione Europea, Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, (2006/962/CE). È quindi evidente come lo sviluppo di queste capacità non sia solo funzionale alla migliore collocazione sul mercato del lavoro quanto anche al poter usufruire a pieno dei diritti collegati alla cittadinanza.
Pensiamo solamente a cosa sta succedendo in questi giorni: una crisi senza precedenti, che riguarda da vicino e che sta cambiando la vita di tutti noi. Ciascuno di noi come cittadino è chiamato sì a fare la propria parte rispettando una serie di disposizioni ma ha anche il diritto ad essere informato e a sapere, esattamente, cosa fare in caso di necessità. Concordiamo che un sistema di informazione serio si impegnerebbe al massimo a fare da tramite, quindi, tra le istituzioni e il cittadino, garantendo così un flusso di informazioni il più chiaro e preciso possibile. Invece siamo qui che, tra fughe di notizie, diffusione di notizie non verificate, allarmismi, caccia all’untore, servizi fatti da giornalisti che scorrazzano in auto per mostrare “come è cambiata l’Italia”, sta a ciascuno di noi riuscire a selezionare di “chi fidarsi e di chi no”.
Pare una cosa semplice. Non lo è per chi come la sottoscritta utilizza internet quotidianamente, sforzandosi di farne un uso il più critico possibile, da quindici anni. Fermiamoci un attimo e pensiamo che cosa ha voluto dire internet per i nostri genitori ad esempio. Magari per una persona non particolarmente istruita, che negli ultimi anni ha avuto accesso ad uno smartphone senza che nessuno le insegnasse ad usarlo. Un mondo si è spalancato per lei: WhatsApp, con la possibilità di mandare infiniti messaggi e Facebook, con l’illusione di fare parte di una piazza virtuale in cui la tua voce conta qualcosa. Ma nessuno che ti spieghi, ad esempio, perché WhatsApp e Facebook sono gratuiti (o meglio, che non lo sono affatto e che tu ripaghi con un’altra moneta il poterli usare), oppure che tutti, proprio tutti possono generare un messaggio e metterlo in circolo, quindi bisogna fare molta attenzione a chi si dà la propria fiducia. Nessuno che, ancora, ti dica come funziona un motore di ricerca o che Facebook è solo un social network, che non è un canale di comunicazione ufficiale (difficile da credere eh, quando hai esponenti del governo che elaborano politiche di portata nazionale a suon di dirette) e che anche nelle piazze virtuali ci sono delle regole da rispettare (quella fondamentale è che se una cosa ad una persona non la diresti in faccia, allora è meglio non scriverla nemmeno).
Chi è che protegge queste persone dalle “armi” che sono state date loro? In questo senso credo fermamente che quello dell’analfabetismo digitale (non solo quello informatico) sia un grosso problema per il nostro paese: siamo travolti da una rivoluzione, che piano piano arriva (e anche sulle modalità con cui viene attuata questa rivoluzione digitale potremmo discutere a lungo), che ci dà degli strumenti che però molti di noi non sono in grado di usare (emblematico è il servizio offerto dalle grandi catene di elettrodomestici, come MediaWorld, che dove l’assistenza per l’installazione di WhatsApp viene fatta pagare almeno 5 euro).
E qui passiamo alla seconda parte del ragionamento, ovvero: che senso ha, soprattutto sulla pubblica piazza virtuale, scatenarsi contro chi non ha le competenze e le capacità di discernere? Siamo davvero convinti che il prototipo Burioni dell’esperto che blasta l’ignorante sia funzionale al raggiungimento del nostro obiettivo, ovvero un uso più consapevole degli strumenti di cui stiamo discutendo? Non ci porterà anzi ad un inasprimento dei rapporti e ad un inaumento della sfiducia nei confronti di chi “fa informazione”? Che colpa hanno le persone che scrivono alla pagina Case Popolari se, in preda alla disperazione per uno sfratto imminente, decidono di scrivere anche lì? Magari nessuno ha mai spiegato loro cosa è esattamente Facebook e come funziona. Magari sono stati obbligati a presentare una richiesta per alloggio ERP online senza però che nessuno gli spiegasse poi come reperire informazioni o chi contattare.
La trasformazione digitale dell’Italia è uno dei grossi temi che dobbiamo affrontare. È veramente un tema enorme, che tiene insieme dallo sviluppo economico del paese al rispetto dei diritti e del principio di eguaglianza dei suoi cittadini. Si tratta di un tema enorme perché in Italia siamo indietro da molti punto di vista: da quello di infrastrutture e tecnologie (pensiamo alla fatica che stanno facendo le scuole ad adattarsi alle disposizioni di didattica online di questi giorni o quanti sono i paesini lungo l’Appennino dove la connessione internet va così così), da quello delle competenze (l’OCSE ha elaborato la relazione Skills Outlook 2019, nella quale vengono raccolti dati di 29 paesi relativamente alle competenze digitali) ma anche dal punto di vista delle disuguaglianze che lo sviluppo “a singhiozzo” di queste competenze comportano (ad esempio, degli studi ne evidenziano un ruolo nel perpetuare le disuguaglianze di genere già molto affermate in Italia).
Immagine da www.torange.biz
“E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa”
Cit.