È ormai da qualche anno che l’opinione dei paesi anglosassoni (e, gradualmente, anche di vari stati europei) è divisa sulla questione dell’integrazione delle persone transgender. Nonostante quanto si potrebbe ipotizzare sulla base dell’esperienza in Italia, i principali detrattori dell’inclusione non sembrano essere uomini benestanti di mezza età.
Qualche mese fa abbiamo assistito all’affascinante spettacolo della popolare scrittrice J. K. Rowling che pontificava contro il licenziamento di un’impiegata a causa delle sue opinioni non allineate con il pensiero dominante della comunità LGBT+. Salvo scoprire che l’impiegata in questione non è stata licenziata – non le è stato rinnovato il contratto, il che è non marginalmente diverso – e non tanto a causa delle sue opinioni, quanto delle azioni che da dette opinioni derivavano, tipo rifiutarsi di riconoscere l’identità di genere dei suoi colleghi di lavoro e trattarli di conseguenza.
Questa settimana il Guardian, giornale che nel chiedere (con britannica educazione) supporto finanziario si autodefinisce “progressista e indipendente”, ha pubblicato un pezzo di opinione a firma Suzanne Moore che rappresenta un attacco ai diritti delle persone transgender ancora più grave, ed è il tornasole di una situazione decisamente inquietante.
Il pezzo
d’opinione di Suzanne Moore è particolarmente subdolo perché
parte con un titolo che non possiamo non trovare condivisibile, e
mescola affermazioni decisamente poco confutabili con prese di
posizione che sono espressione di una pura violenza transfobica,
attraverso l’uso di una logica lasca ma in qualche modo suggestiva,
soprattutto in considerazione della visibilità che questo pezzo è
destinato ad avere, non su un pubblico conservatore che già sappiamo
poco recettivo nei confronti delle istanze delle persone transgender,
ma su un pubblico progressista che di dette istanze dovrebbe essere
latore.
L’evento da cui parte Moore è la cancellazione
dell’intervento della storica Selina Todd al 50° anniversario di
una conferenza sulla liberazione femminile in virtù della sua
appartenenza e del suo supporto a Woman’s Place UK,
un’organizzazione che a suo vedere sosterrebbe il diritto delle
donne ad avere spazi segregati
(particolarmente,
ma non esclusivamente, gabinetti e piscine pubbliche riservati a sole
donne cisgender) in virtù del loro sesso biologico. Secondo Moore
sarebbe questo il motivo per cui è categorizzata dal Labour Party
come hate
group,
anche se probabilmente la
sua ferrea opposizione al Gender
Recognition Act,
una legge che permetterebbe di autocertificare la propria identità
di genere, potrebbe essere una motivazione più solida ed evidente.
Moore, tuttavia,
non intende difendere il diritto di Todd ad intervenire a prescindere
dalla propria appartenenza ad una specifica organizzazione – né è
questo il punto d’interesse di questo commento. L’obiettivo di
Moore è dimostrare che Woman’s Place non è un’organizzazione
inneggiante all’odio, ma che le sue istanze sono legittime, e
l’opposizione ad esse da parte del movimento LGBT+
(non
tutto: proprio in questi mesi, nel
Regno Unito
è stato fondato un altro gruppo, chiamato LGB Alliance, che
testimonia ulteriormente dello scollamento tra il movimento per i
diritti trans e le altre componenti)
è
in definitiva una cessione ad una manipolazione patriarcale.
L’argomento centrale è l’oggettività del sesso biologico
– visto come necessariamente binario e inalterabile, nonostante una
sbrigativa frase di riconoscimento dell’esistenza di persone
intersessuali – rispetto al genere, visto come un costrutto sociale.
Non è necessario – ma è opportuno – ricordare che questa medesima
obiezione
al riconoscimento di identità transgender viene portata storicamente
avanti da gruppi conservatori, che sovente associano estremismo
religioso, idee politiche di destra e una sostanziale ignoranza
riguardo gli aspetti minimi della biologia. Tuttavia, nel Regno Unito
negli ultimi anni è principalmente il femminismo di sinistra ad
averla abbracciata e diffusa.
Il sesso
rappresenta
un aspetto estremamente variabile nei sistemi biologici, e solo in
una minima parte degli organismi va a definire tratti che vanno al di
là della riproduzione. Nato come sistema che incrementa la
variabilità di una popolazione di organismi, e quindi ne aumenta la
probabilità di sopravvivere in condizioni avverse, in un grande
numero di organismi non corrisponde nemmeno ad un reale aumento nelle
dimensioni della popolazione: molti organismi unicellulari, in
condizioni ambientali difficili, si limitano a scambiarsi una parte
di materiale genetico, nella speranza di beccare una variante
vantaggiosa, in una sorta di roulette russa al contrario. In molti
casi si passa quindi ad una generazione che va incontro ad un evento
di meiosi, che può condurre direttamente al gamete (la cellula
deputata al rimescolamento genetico), o dare origine a un organismo
pluricellulare, da cui verranno prodotti per mitosi i gameti.
Lo
sviluppo dell’anisogamia (cioè della produzione di gameti di
dimensioni differenti) è volto sostanzialmente a massimizzare la
probabilità del loro incontro: se per ogni gamete grande (prodotto
con una rimarchevole spesa energetica) ne produco tanti piccoli,
magari mobili (prodotti ognuno con una minima spesa energetica),
massimizzo la probabilità che si incontrino. Per convenzione, e per
una categorizzazione precedente alla loro scoperta, amiamo definire
gameti maschili i gameti piccoli e mobili, e gameti femminili i
gameti grandi e immobili.
Si noti che l’esistenza di gameti
maschili e gameti femminili non presuppone ancora l’esistenza del
celeberrimo sesso biologico come suggerito da Moore: moltissimi
organismi sono in grado di produrre sia
gameti
femminili, sia
gameti
maschili, contemporaneamente o in differenti momenti del loro ciclo
vitale. Anche la distribuzione della produzione di gameti di diverso
tipo in una specie può essere legata alla necessità di massimizzare
il tasso riproduttivo: diversi pesci nascono con gonadi femminili,
vivono in branchi con un unico maschio, e; alla morte del maschio, la
femmina più grande cambia sesso. Altre specie preferiscono invece
investire su femmine più grandi, dato che più grandi sono, più
uova produrranno, e quindi avranno maschi che maturano diventando in
seguito femmine. In altre specie ancora, non si ha un cambio di
sesso, ma i maschi saranno molto più scarsi e feconderanno un alto
numero di femmine – il che si ripercuote sulla loro struttura
sociale.
Ci si potrà chiedere a questo punto, cosa ci interessa
della riproduzione dei parameci, dei vermi, dei pesci o dei leoni per
definire cosa sia il sesso nell’essere umano. Una risposta brutale
potrebbe essere che è esattamente quello che ci interessa
dell’omosessualità nelle cocorite, nei cigni e negli arieti, cioè
assolutamente
niente,
dato che l’omosessualità umana è il risultato di un processo
interpretativo sociale. Per il sesso biologico, la questione è circa
la medesima: il dato oggettivo è un’allocazione della produzione
di gameti a differenti individui, che si porta dietro alcuni tratti
sessuali secondari, che peraltro vedono un’interpretazione
differente a seconda delle società umane.
Questo vuol dire
che tutte le considerazioni di Moore sono prive di fondamento?
Ovviamente no. Il sesso biologico – tratti sessuali primari e
secondari – nelle società umane è sempre vincolato ad una sua
lettura culturale e sociale. Questa interpretazione del sesso
biologico alla luce di un sistema culturale, sociale ed esistenziale
è esattamente ciò che prende il nome di “genere”; ed è
interessante che, pur riconoscendo l’esistenza di un genere
dipendente dal sistema socio-culturale di riferimento, sia Moore
stessa a porre l’accento sulla riproduzione come elemento fondante
dell’identità femminile – di nuovo, un’interpretazione
di
un dato biologico, non il dato biologico in
sé.
Ed è da rimarcare come il diritto riproduttivo, che Moore
correttamente identifica come uno dei sistemi di oppressione
patriarcale storicamente più gettonati, abbia coinvolto anche uomini
omosessuali e persone transgender (queste ultime spesso oggetto di
terapie dal sentore innecessariamente punitivo che hanno come effetto
“collaterale” la loro sterilizzazione).
La lettura
transgender, banalizzata da Moore, sposta sì l’accento dal sesso
biologico al genere, ma certamente non rinnega la natura culturale,
sociale e talora politica del genere in nome di una sua conclamata
oggettività, e sicuramente non ha come obiettivo la negazione dei
diritti ottenuti dalle donne cisgender.
Pure, Moore sostiene
che esprimere posizioni contrarie al riconoscimento del genere delle
persone transgender – e incidentalmente, costringerle a muoversi in
spazi che per loro non sono affatto
sicuri
– deve essere interpretato alla stregua di una difesa della sicurezza
delle donne – giungendo, con una logica alquanto fumosa, a chiamare
in causa Roman Polanski, senza proporre un esplicito paragone tra il
regista, colpevole di violenza sessuale su una minorenne, e il
movimento LGBT+, ma lasciando ai lettori e alle lettrici la
possibilità di fare autonomamente il collegamento.
La conclusione è
il punto più basso dell’articolo. Dopo aver rivendicato il diritto
delle donne cisgender a spazi segregati in nome della loro sicurezza
– avendo lasciato trasparire un totale disinteresse nei confronti di
altre categorie oggetto di violenza maschilista – Moore pone un
ultimatum alla comunità LGBT+: un appoggio sostanziale alla
richiesta di spazi separati sulla base del sesso biologico – con le
conseguenze problematiche per donne e uomini trans – o una poco
definita, ma francamente angosciante minaccia di ritorsioni che si
conclude con “siamo più di quel
che pensate”. Da un lato Moore fa
leva sul supporto del movimento LGBT+ in nome della comune situazione
di vittime del patriarcato, ma dall’altro lato considera
esplicitamente le istanze del movimento LGBT+ come subordinate e in
ultima analisi irrilevanti.
Il tutto dalle colonne di un
giornale “progressista” letto principalmente da persone di
sinistra, ma che non ha apparentemente problemi a condividere delle
posizioni reazionarie e repressive, oltre che basate su una fallacia
scientifica. L’idea che l’alternativa al maschilismo e al
patriarcato sia questa, francamente, fa venire la pelle d’oca: una
reale opposizione ad una società maschilista non può partire dalla
costruzione di ulteriori gerarchie, di ulteriori catene di
oppressione, e in definitiva dallo scaricare, con feroce noncuranza,
i mali della società sulle persone più a rischio.
Immagine di Ted Eytan (dettaglio) da Wikimedia Commons
Joachim Langeneck, assegnista di ricerca in biologia presso l’Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell’ambito dell’etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.