La prima opera che mise in scena il Teatro Verdi di Pisa, alla sua apertura nel 1867, fu il Guglielmo Tell di Gioachino Rossini.
Ad oltre cinquant’anni dall’ultima rappresentazione (nel 1968) questa opera, considerata di elevatissimo valore nel già complessivamente pregevole repertorio rossiniano, ma anche tecnicamente difficilissima, torna sul palcoscenico pisano, con una messa in scena musicalmente solida, ancorché con una regia localmente discutibile.
Prima di entrare nel merito della performance pisana (in particolare, facendo riferimento alla rappresentazione del 23 Febbraio 2020, cui ho avuto la possibilità di assistere), è d’uopo una breve introduzione al Guglielmo Tell di Rossini.
Fu lo stesso Rossini (ancorché non da solo) a costruire la hype
che ha circondato il Guglielmo Tell in effetti da prima che
l’opera fosse composta. La ragione è abbastanza comprensibile:
Rossini dal 1824 al 1829 si trovava a Parigi, assunto
temporaneamente come direttore dell’opera, e, nella speranza di
ottenere un incarico permanente, promise ai parigini una serie di
grandi opere inedite. Tuttavia la critica e il pubblico parigini
rimasero freddi nei confronti di un compositore brillante, ma
percepito come un corpo estraneo, imputando a Rossini un’adesione a
stilemi italiani ormai superati e un’incapacità di innovare. Dal
canto suo, Rossini nei primi quattro anni di contratto non era stato
in grado di offrire al pubblico francese altro che dei reboot
di opere precedenti, e il pubblico continuava a chiedere la grande
opera che fosse al tempo stesso Rossini, ma completamente francese,
che ancora latitava. Fu in questa atmosfera che l’idea del
Guglielmo Tell come opera definitiva, pienamente matura di
Rossini iniziò a prendere piede.
Questa interpretazione fu
rafforzata dal fatto che il Guglielmo Tell fu
effettivamente l’opera definitiva di Rossini, nel senso che fu
l’ultima: a parte alcune composizioni minori, eseguite peraltro per
pubblici limitatissimi, Rossini si ritirò dalle scene per i quasi
quarant’anni che gli rimanevano da vivere. È possibile che una
spiegazione almeno parziale stia nella Rivoluzione di Luglio
del 1830, che come effetto collaterale compromise definitivamente il
desiderio di Rossini di ottenere un incarico permanente all’opera
di Parigi, possibilmente rappresentando un fattore aggiuntivo della
depressione con cui il grande compositore si trovò a lottare nella
seconda parte della sua vita.
Resta il fatto che l’accordo
con l’opera di Parigi prevedeva cinque opere dopo il Guglielmo
Tell, ma se queste mai esistettero nella mente di Rossini, non una
sola nota fu messa su carta.
Viene quindi da chiedersi se realmente la lettura del Guglielmo
Tell come canto del cigno (o, in questo caso, sarebbe forse più
appropriato “del cignale”) e al tempo stesso come apice
dell’opera rossiniana sia giustificata. La risposta è complessa.
Sicuramente ci troviamo davanti ad un prodotto artistico di
valore altissimo, e la richiesta di innovazione del pubblico parigino
è stata rispettata appieno: troviamo nel Guglielmo Tell delle
intuizioni che saranno recuperate solo, e in maniera incompleta,
cinquant’anni dopo dal tardo Romanticismo, e che se Rossini avesse
composto anche solo un’altra opera dopo il Guglielmo Tell
sarebbero probabilmente state portate a compimento nelle loro
potenzialità.
Al tempo stesso, il desiderio quasi nevrotico da
parte di Rossini di svincolarsi dalle opere composte in Italia e di
eliminare una serie di cifre stilistiche conducono ad una serie di
brillanti temi musicali svincolati gli uni dagli altri e
collegati da parti decisamente insipide. Un ottimo esempio di questo
è il giuramento tra Guglielmo, Arnoldo e Gualtiero, decisamente
sottotono dal punto di vista musicale e drammatico rispetto alla
scena precedente (in cui Arnoldo scopre della morte del padre per
mano di Gessler) e alla seguente (in cui gli abitanti dei tre cantoni
giurano di combattere contro gli austriaci).
Al tempo stesso,
le opere italiane non sono abbozzi di qualcosa che verrà portato a
compimento dal Guglielmo Tell, ma nella loro più immediata
freschezza sono comunque artisticamente complete, e il giudizio del
pubblico parigino è sostanzialmente ingiusto.
A livello drammaturgico, i personaggi del Guglielmo Tell
rappresentano invece un’evoluzione dei personaggi rossiniani
classici, effettivamente ancora informati dagli archetipi
dell’opera settecentesca.
Il ruolo centrale della donna
proattiva e decisa che rappresenta il personaggio centrale delle
opere italiane (Armida, Cenerentola/Angelina, Rosina) viene ceduto ad
un’opera principalmente maschile, sia pure con personaggi femminili
che mantengono dei tratti di autonomia rossiniana.
D’altro
canto, il rischio di una pomposità virilista quale quella che
troviamo in gran parte delle opere dell’ottocento è evitato
affidando ai due ruoli principali (Guglielmo Tell e Arnoldo
Melchthal) una psicologia complessa che prevede momenti di
inadeguatezza al ruolo eroico che il popolo svizzero richiede loro
(il vero e proprio crollo psicologico di Guglielmo nella famosa scena
della mela, la relazione problematica di Arnoldo con Matilde,
colpevole di essere un’odiata austriaca). Il tiranno Gessler è
invece quanto di più diverso possa esservi dagli umani, brutali ma
tutto sommato simpatici antagonisti delle opere buffe rossiniane: non
c’è alcun modo di empatizzare con lui, è semplicemente un
dittatore sadico ed inetto (come la stessa Matilde avrà a dirgli in
scena).
La messa in scena di questa stagione operistica, nonostante l’impegno
di orchestra e cantanti, ha mostrato alcuni problemi.
Il più
eclatante è sicuramente rappresentato dalla regia, che ha operato la
discutibile scelta di tenere costantemente semiaperta la quarta
parete, proponendo come chiave di lettura che il figlio di
Guglielmo Tell, Jemmy, sia al
tempo stesso un bambino che legge la storia di Guglielmo e vi si
immedesima. Nella scena la vita quotidiana di un bambino di buona
famiglia è popolata e ravvivata dai personaggi della storia di
Guglielmo, in una sorta di continuo sogno ad occhi aperti. L’idea è
teoricamente interessante, ma la sua realizzazione pratica confonde
terribilmente le idee allo spettatore, che con il personaggio di
Jemmy continuamente in scena, anche in momenti in cui non dovrebbe
proprio esserci, fa molta fatica a seguire la storia, e rappresenta
al tempo stesso un tentativo poco riuscito di ravvivare un’opera
che tutto sommato non ha granché bisogno di essere ravvivata, e una
proposta di lettura meta-operistica del Guglielmo Tell, cosa
che tuttavia non ha granché senso per un’opera che è stata
rappresentata per l’ultima volta in questo teatro cinquantadue anni
fa, e con cui non ci si può aspettare gli spettatori abbiano grande
dimestichezza.
Nel ruolo titolare, Michele Patti con una
voce morbida, voluminosa e dal timbro bellissimo, ancorché
localmente un po’ debole in basso, dà vita ad un Guglielmo
credibile sia negli aspetti eroici, sia in quelli drammatici. La
parte oggettivamente massacrante di Arnoldo è retta con qualche
durezza negli acuti, ma con una tenuta di voce invidiabile e una
notevole espressività, da Matteo Falcier. Barbara Massaro
nei panni di Jemmy risulta estremamente convincente a livello
interpretativo (e, per le scelte registiche, si trova a correre per
tre ore avanti e indietro per un palco tenendo il fiato in maniera
encomiabile), anche se a livello vocale risulta meno credibile nel
rappresentare un bambino. Infine, il soprano esteso e con un timbro
insolitamente scuro in basso di Clarissa Costanzo contribuisce
a materializzare una credibile interpretazione del complesso
personaggio di Matilde.
Joachim Langeneck, assegnista di ricerca in biologia presso l’Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell’ambito dell’etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.