Quando, nel febbraio 1955, Malenkov fu costretto a dimettersi dalla guida del governo sovietico, un giornale borghese in Italia (il Corriere della Sera, se non ricordo male) scrisse in prima pagina che tale evento segnava un ulteriore capitolo «nella torbida storia del bolscevismo».
Il non lusinghiero aggettivo si attaglia bene anche alle recenti dimissioni di Di Maio da capo politico del Movimento 5 Stelle (riguardo l’orientamento politico, invece, l’unica somiglianza è, al massimo, nel “Giggino Di Maiovskji” di Crozza).
Analizzare i sommovimenti nella dirigenza politica del M5s e le faide tra le correnti interne, infatti, è più difficile che per altri partiti, a causa di tre caratteristiche peculiari che lo rendono un’eccezione rispetto alle altre forze politiche.
In primo luogo, il M5s non è propriamente un partito bensì un’associazione privata costituita da Giuseppe Grillo, da suo nipote e da un commercialista. I contenuti della discussione interna sono gestiti tramite la c.d. “piattaforma Rousseau”, un software di proprietà privata della Casaleggio Associati srl. Si obietterà che tutti i partiti sono associazioni non riconosciute, visto che non esiste una disciplina attuativa dell’art. 49 della Costituzione. Formalmente è vero, ma empiricamente tutti i partiti sono dotati di organismi di confronto interno e rispondono a una base di militanti o di sostenitori. Persino il più atipico tra di loro (Forza Italia).
In secondo luogo, il personale politico del M5s non proviene da una storia di impegno sociale o politico, come invece è la norma nei restanti partiti, che selezionano – bene o meno bene – il gruppo dirigente a partire dalle organizzazioni giovanili, dalle federazioni locali, dalle associazioni considerate socialmente contigue (sindacati, terzo settore, ordini professionali, associazioni di categoria, ecc.). Nel caso del M5s, invece, il personale è stato “selezionato” alla cieca, al modo in cui si effettua, ad esempio, la pulizia delle spiagge: si getta la rete e si vede cosa resta dentro. In questo senso il M5s è certamente rappresentativo della società a un livello più elevato rispetto ai partiti politici veri e propri, per i cui militanti la politica rappresenta spesso una appassionata ragione di vita.
In terzo luogo, infine, le divergenze interne al M5s non rispondono – se non in minima parte – a considerazioni di carattere politico o tattico, bensì prevalentemente a uno stadio quasi tribale di guerra per bande. Esistono e sono esistiti, certamente, singoli esponenti caratterizzati ideologicamente sulla destra (Paragone, Rizzetto, Zanni) o sulla sinistra (Zaccagnini, Fico). Ma come dimenticare Paola De Pin, passata in successione a L’Altra Europa con Tsipras, ai Verdi, al centrodestra e infine a Forza Nuova? O lo stesso Vito Crimi, che ha votato Rifondazione, Pds, Italia dei Valori e An? Questa schizofrenia, dovuta a una radicale assenza di pensiero politico personale, è assai più diffusa nell’elettorato di quanto una persona interessata di politica possa pensare. C’è in effetti un filo conduttore attorno a cui si aggrappano, come il ragno al filo della sua bava, ed è la lamentazione contro “i politici”, il qualunquismo e talvolta – come nel caso di tanti giovani laureati – persino un qualunquismo “colto” che richiama alcuni versi di Gaber: «è un concentrato di opinioni / che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani / e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire».
Secondo il commento di Emanuele Macaluso[1] «lo sfarinamento del M5S, possibilmente la sua scomparsa, è un’occasione positiva e augurabile per il Paese».
Se parliamo del fenomeno M5s, si può senza dubbio concordare. La sua scomparsa sarebbe l’indicazione di una avvenuta maturazione del Paese o almeno, più realisticamente, di un miglioramento delle condizioni politiche di contesto. Il problema, tuttavia, è che il venir meno del contenitore M5s non indica di per sé lo sparire del fenomeno. Del resto lo abbiamo già vissuto con la sparizione del Caf nel 1992 e con quella del PdL dopo il 2013. Cosa accadrebbe oggi ai voti lasciati liberi dall’eventuale venir meno del M5s?
Dopo aver toccato il massimo storico di circa un terzo dei voti nella prima metà del 2018, il M5s ha ceduto molto terreno al suo allora alleato (la Lega) e in misura minore a Fratelli d’Italia. Da marzo 2019, con l’elezione del nuovo segretario Zingaretti, anche il PD si è giovato del declino grillino; andamenti che si sono rafforzati dopo l’insuccesso alle europee di maggio. Dopo aver ripreso un po’ di consenso alla Lega in occasione della crisi di governo ferragostana, la tendenza è tornata nuovamente negativa e l’impressione è che i consensi in uscita siano tornati alla Lega, che a propria volta ne ha persi e ne perde nei confronti di Fd’I.
Insomma, nel corso di questi due anni scarsi di legislatura i grillini hanno perso voti verso la Lega sia durante il primo governo Conte sia durante il secondo. È evidente che nel primo caso a fuoruscire fossero quelli che ritenevano il M5s non sufficientemente allineato sulla linea salviniana, mentre nel secondo siano stati quelli che non riescono a digerire l’alleanza con il centrosinistra. Da circa due mesi il Movimento è stabile intorno al 16%, ossia la metà del risultato elettorale del 4 marzo 2018.
Per tutto quanto detto, appare possibile che a confermare la propria fiducia ai grillini sia oggi l’ala “sinistra” di quell’elettorato – un’ipotesi che sarebbe suffragata anche da un’altra osservazione: il consenso aggregato dei partiti di destra e centrodestra in Italia oscilla oggi intorno al 50%; tornando con la memoria al vecchio bipolarismo e assumendo che i due poli si dividano grosso modo a metà il voto del Paese, il M5s oggi ricadrebbe giocoforza nel campo sinistro.
Basta questo per assicurarci che quei voti tornerebbero a forze di sinistra se il M5s sparisse?
Certamente no. I tre motivi, dianzi evidenziati, che differenziano il M5s dagli altri partiti indicano che esso esprime una subcultura, o meglio ancora uno stato d’animo, estraneo al campo culturale della sinistra. Diversi critici di Renzi – da Bersani a Zingaretti – gli hanno addebitato la colpa di una “separazione dal popolo della sinistra”, con persone che «protestavano per le politiche del PD votando Cinque Stelle o addirittura Lega» (parole di Enrico Rossi).[2]
Ora, non ho dubbi che il Partito Comunista Italiano sia stato per molti anni una fucina culturale di alto livello. I suoi fondatori erano in larga maggioranza intellettuali, il suo massimo esponente è stato un filosofo tuttora studiato in tutto il mondo e nel dopoguerra il partito investì molto sulla ricerca culturale, sulla formazione culturale e sull’ingresso a pieno titolo nel mondo della cultura (basti pensare all’adesione, oltre che dell’illustre latinista Concetto Marchesi, del rettore della Scuola Normale Luigi Russo).
Eppure qualcosa deve essersi inceppato, anche se non è questa la sede per analizzarlo, se oggi parte del gruppo dirigente nazionale del PD non riesce a rilevare la trave nel proprio occhio quando definisce “il nostro popolo” gente che, per protestare contro la poca sinistra del PD, vota per qualunquisti e simil-fascisti.
La realtà che bisogna riconoscere è che, come fu giustamente altrove rilevato[3], non esiste un “popolo” della sinistra. Non solo non esiste in dimensioni maggioritarie (nei momenti di massima avanzata solitamente costituiva in Italia il 33% o poco più), ma non esiste neppure in dimensioni comunque consistenti.
Né questo vale soltanto per il caso italiano. Le recenti elezioni nel Regno Unito si sono rivelate un’amara sorpresa per i laburisti, resa ancor più acre dal fatto che a voltare le spalle a Corbyn sono stati collegi “rossi” da tre o quattro generazioni. E le interviste a quegli elettori sono eloquenti: hanno votato conservatore perché non vedono l’ora di vedere gli immigrati polacchi buttati fuori dal Paese.[4] Una profilazione dell’elettorato britannico attorno ai poli interventismo/liberismo, internazionalismo/sovranismo, progressismo/conservatorismo ha trovato che soltanto il 4% degli elettori abbraccia posizioni di sinistra in tutti e tre i campi[5] e, in totale, tutti i tre gruppi della sinistra (compresi la classe operaia tradizionalista e i “blairiani”) arrivano soltanto al 25%.
Per cui appare ragionevole immaginare che oggi il M5s riceva il voto di gente che di sinistra non è mai stata e probabilmente non sarà mai, ma che una generazione fa avrebbe votato, per vari motivi (tradizione familiare, militanza sindacale, posizioni antisistema, ecc.), a sinistra.
Sbrigliando questi elettori è facile immaginare a chi possano rivolgersi: in prevalenza a formazioni di destra, già presenti o che si presenteranno in futuro.
Per questo motivo, più che augurarsi la fine immediata del Movimento 5 Stelle, sarebbe utile per la sinistra averlo ancora in piedi e con un esponente “progressista” alla guida.
Il partito di Grillo è, al pari di Forza Italia, una trave marcia che ancora per poco si regge in piedi e che reggendosi in piedi contribuisce, per via dell’eterogenesi dei fini nota hegelianamente come Astuzia della Ragione, a sostenere il barcollante malato d’Europa – l’Italia. Quando queste due travi collasseranno, a saldarsi all’area ultraconservatrice Salvini-Meloni-Toti dovrà esserne un quantitativo il più possibile ristretto.
Se così non dovesse essere, l’Italia tornerebbe un paese in cui bande squadriste suonano ai citofoni dei bersagli della violenza – stranieri, omosessuali, femministe, oppositori politici, ebrei, musulmani… – e li linciano per la strada.
-
https://www.facebook.com/emmacaluso/posts/2494994857441517 ↑
-
https://www.wittgenstein.it/2018/12/14/bisogna-tornare-a-parlare-a/ ↑
-
https://www.nytimes.com/2019/12/13/world/europe/uk-election-labour-redwall.html ↑
Immagine di Pasere (dettaglio) da flickr.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.