Il cattivo risultato delle scorse elezioni britanniche ha, tra le altre conseguenze, messo fine all’era di leadership del Labour party di Jeremy Corbyn (che ha comunque annunciato di voler rimanere al suo posto fino alla nomina del suo successore), aprendo quindi a una complessa fase di ripensamento e democrazia interna, in realtà resasi necessaria già nelle settimane precedenti alla tornata elettorale. Stante il ritiro dalla vita politica di Tom Watson, vice dal 2015 e dimessosi in polemica con Corbyn, oltre al successore di quest’ultimo militanti e simpatizzanti del Labour saranno infatti chiamati a scegliere un nuovo deputy leader.
Per capirci qualcosa, è prima di tutto importante sottolineare alcuni elementi che altrimenti rischiano di sfuggire.
Prima di tutto, stante la maggioranza conquistata dai conservatori di Johnson e salvo eventi imprevisti, in ballo nella corsa alla leadership laburista c’è ad oggi meno il tema di trovare qualcuno in grado di vincere le prossime elezioni quanto la necessità di trovare una figura che sappia portare avanti un’opposizione dura e credibile al governo tory nei prossimi anni tenendo unito un partito che si trova ad attraversare una fase critica, scongiurando non così improbabili Idi di Marzo tra filo- ed anti-corbynisti. L’onnipresente spada di Damocle dell’“eleggibilità” quindi – se non sparisce – passa almeno in secondo piano rispetto alla necessità di una figura autorevole e di mediazione.
In secondo luogo, per sfatare uno spauracchio (o per infrangere una speranza) purtroppo assai diffuso sulle pagine della stampa di sinistra italiana: non sembra assolutamente essere all’orizzonte nessun ritorno al New Labour di blairiana e browniana memoria, e se – ragionevolmente – molti dei candidati leader hanno sottolineato la necessità di farla finita con l’autolesionistica opera di demolizione retorica dell’ultimo governo laburista nessuno di loro si è ad ora richiamato esplicitamente alla Third Way e al blairismo.
D’altronde, stante il rinnovamento del partito durante la lunga traversata nel deserto dell’opposizione iniziata nel 2010, solo Emily Thornberry, eletta alla Camera dei Comuni per la prima volta nel 2005, ha un qualche passato politico nel Labour dell’era Blair-Brown – e comunque al di fuori della maggioranza del partito e in ruoli di secondo piano – mentre la carriera politica parlamentare di tutti gli altri candidati è iniziata all’opposizione, negli anni post-crisi economica, o addirittura a cavallo tra la fine della parentesi Miliband e l’inizio della gestione Corbyn. La destra del partito ha tuttora una certa consistenza e speranze per la leadership, ma è altra cosa rispetto agli attori di quasi un quarto di secolo addietro.
Penultima e ultima considerazione preliminare. Il Labour party è l’unico partito britannico “maggiore” a non aver mai nella sua storia avuto al timone una donna, se si escludono le brevissime parentesi di Beckett e Harman in veste di facenti funzioni rispettivamente tra 12 maggio 1994 e 21 luglio 1994 e tra 11 maggio e 25 settembre 2010 e di nuovo tra 8 maggio e 12 settembre 2015. Un elemento che non passa inosservato, specialmente in un’epoca come l’attuale in cui le questioni di genere sembrano aver finalmente conquistato un qualche spazio se non nella pratica almeno nella coscienza politica e in una buona parte di opinione pubblica; da più parti quindi è giunta la richiesta di rompere la continuità e incoronare una leader donna, e d’altra parte le candidate sono nell’attuale corsa al vertice una maggioranza.
Dopo il disastro in Scozia e nel nord inglese, inoltre, nell’opinionismo vicino alla sinistra e all’interno del partito qualcuno ha posto nella discussione la necessità di una discontinuità nel presunto Londra-centrismo del vertice laburista (Corbyn rappresenta da sempre un seggio londinese), magari eleggendo un o una leader nordica.
Va d’altro canto notato che entrambe le questioni – stanti i sondaggi – sembrano essere percepite più tra i giornalisti e tra i dirigenti del partito che nella base.
La procedura per eleggere il o la leader del Labour party è alquanto complessa, e difficile da spiegare in poche righe.
Prima di tutto gli aspiranti candidati hanno dovuto conquistare la nomination di almeno 22 parlamentari ed europarlamentari laburisti, fase che si è chiusa pochi giorni fa e che è costata l’eliminazione a Clive Lewis, non riuscito a raggiungere la soglia necessaria entro la deadline.
In secondo luogo, entro il p. v. 14 febbraio gli aspiranti devono essere nominati da almeno 33 Constituency Labour parties – le sezioni del partito di collegio – o da tre delle organizzazioni affiliate al partito, di cui almeno due sindacati, rappresentanti almeno il 5% degli iscritti. Tra le trade unions le più corteggiate sono i giganti sindacali UNISON (dipendenti pubblici), Unite, General Municipal Boilermakers (GMB, un grande sindacato intersettoriale), la Communication Workers’ Union e infine il sindacato del commercio Union of Shop, Distributive and Allied Workers.
Superati questi ostacoli i candidati verranno sottoposti al voto di iscritti e simpatizzanti registrati, ed il 4 aprile verrà annunciata la vincitrice o il vincitore.
Escludendo il già citato Lewis, veniamo quindi ai cinque candidati rimasti.
Sir Keir Starmer, membro del parlamento (MP) per il collegio londinese di Holborn and St Pancras dal 2015, è uno dei favoriti assoluti avendo ricevuto ben 88 nominations di suoi colleghi parlamentari. Avvocato ed ex procuratore, Shadow Brexit secretary nel governo ombra di Corbyn dal 2017, sta portando avanti una campagna ben costruita, presentandosi come scelta di sicura competenza, saldamente di sinistra ma trasversale alle sensibilità interne al partito; è infatti sostenuto anche da una figura di peso del passato blairiano del partito come Lord Adonis, oltre che dall’ex leader Ed Miliband e dall’ex candidata browniana alla leadership Yvette Cooper.
Si è rifiutato di commentare in termini semplicistici la leadership di Corbyn. I critici lo accusano di aver giocato un ruolo determinante nello spingere il partito verso una posizione insostenibile sulla Brexit, ma né la sua posizione pro-Remain né al contrario alcune uscite passate sulla necessità di ripensare o eliminare il libero movimento delle persone tra UE e UK sembrano averlo per ora danneggiato.
Il primo sondaggio degli aventi diritto laburisti lo piazzava nettamente in testa, ma secondo un nuovo sondaggio condotto in questi giorni Starmer sarebbe al momento in seconda posizione, dietro Long-Bailey, in un sostanziale testa a testa. Ha ricevuto l’endorsement del più grande sindacato del Paese, UNISON, ed è molto probabile che venga sostenuto anche da GMB.
Rebecca Long-Bailey rappresenta l’opzione più vicina alla Hard left del partito, anche se con qualche distinguo. MP per Salford and Eccles, Greater Manchester, dal 2015 e Shadow Business secretary dal 2017 ha fatto parte del gruppo ristretto di Corbyn ed è la candidata favorita da John McDonnell e dal gruppo dirigente di Momentum, ed è quasi certa di ricevere la benedizione di Unite. Ha ricevuto 33 nominations; oltre a McDonnell hanno scelto di supportarla Diane Abbott, Shadow Home secretary, e Ian Lavery, Chairman del partito e alleato di Corbyn, oltre a buona parte della sinistra del partito parlamentare.
Nonostante abbia cercato di togliere enfasi alla sua continuità con l’era Corbyn, delineando una sua visione per un “patriottismo progressista” che guardi alla storia del movimento operaio britannico, ha – nel contesto di un’intervista televisiva – a fronte di una domanda in cui le veniva chiesto di “dare un voto” al leader uscente risposto senza esitazioni “dieci su dieci”, esternazione largamente derisa (molti si sono chiesti quanto avrebbe “dato” al leader uscente se quest’ultimo, invece che ridurre la rappresentanza ai Comuni del partito al livello minore dal 1935, lo avesse portato alla vittoria) e che è sembrata confermare le critiche di chi la accusa di non essere altro che l’etichetta nuova del progetto corbynista.
Detto tra parentesi, paradossalmente proprio questo potrebbe essere il suo principale punto di forza: molte delle politiche dell’ultimo manifesto sono in realtà molto popolari; la sfiducia dell’elettorato nei confronti del leader, politico controverso e di lunghissimo corso, ha invece sicuramente avuto un ruolo pesante nella sconfitta. Una leader con alle spalle una carriera breve quanto quella di Long-Bailey sicuramente eviterebbe di vedere rivangate dalla stampa vecchie prese di posizione discutibili, concentrando invece il dibattito sulle politiche.
Più insidiosa la critica mossale da diverse figure dei media e del partito di essere una pessima oratrice e di avere un carattere assai poco assertivo. La professata fede cattolica ha inoltre generato più di qualche dubbio tra coloro che temono che possa influenzare la sua posizione in tema di diritti civili e aborto, dubbi che Long-Bailey ha cercato di esorcizzare autodichiarandosi “nettamente pro-choice”. In ogni caso, rimane ad oggi la più diretta concorrente di Sir Keir.
Lisa Nandy, MP per Wigan (Greater Manchester) dal 2010, con 31 nominations è la terza candidata per supporto parlamentare. Vicina alla Soft left socialdemocratica, intende portare al centro del dibattito laburista le cittadine e i villaggi, piccoli centri in cui il Labour party ha sofferto particolarmente, a tutto vantaggio dei conservatori.
Nonostante abbia votato contro l’uscita dall’Unione Europea nel referendum del 2016 ha poi molto criticato la linea del partito, giudicata eccessivamente pro-Remain, e più recentemente ha accusato gli stessi remainers di eccessivo eurocentrismo e mancanza di internazionalismo, posizionandosi a tutti gli effetti come Labour leaver.
È supportata dalla National Union of Mineworkers, sindacato ridotto al lumicino dalla chiusura progressiva delle miniere di carbone del Paese ma ancora simbolicamente prestigioso. Se diventasse leader sarebbe la prima donna di ascendenza asiatica a guidare il Labour party.
Jess Phillips, MP per Birmingham Yardley dal 2015, si è distinta nella sua relativamente breve carriera politica come una delle voci più critiche nei confronti di Jeremy Corbyn. Senza rinnegare questo passato, Phillips sembra voler basare la sua candidatura più sul proprio trascorso di attivista femminista, proponendo un insieme di politiche incentrate sul sostegno pubblico all’infanzia. Nonostante abbia raccolto consensi prevalentemente tra la destra del partito si è più volte pubblicamente distanziata dal blairismo, ricordando il suo passato personale di opposizione alla guerra in Iraq (proprio in quanto contraria alla malaugurata avventura bellica angloamericana avrebbe infatti abbandonato il partito laburista tra 2005 e 2010).
Nota per la franchezza e la passione oratoria, è altrettanto nota come persona prona a cadere in gaffe offensive, debolezza che però – secondo i sostenitori – potrebbe essere in realtà un punto di forza, a fronte di un premier come Boris Johnson. Ha lanciato la propria campagna per la leadership a Grimsby, cittadina simbolo della sconfitta del Labour party nelle ex roccaforti provinciali e impoverite che nel 2016 hanno votato leave, ma è una convinta remainer.
Emily Thornberry è probabilmente la candidata più politicamente anziana del gruppo, MP per la constituency di Islington South and Finsbury, Londra, dal 2005; ha inoltre ricoperto una lunga serie di incarichi di rilevo nel governo ombra dell’opposizione.
Nata in una famiglia in condizioni economiche difficili, ha lavorato come avvocata specializzata in diritti umani. Nonostante la carriera di tutto rispetto ha fatto fatica a ricevere le nominations parlamentari necessarie a candidarsi, “salvandosi” solo all’ultimo minuto con 23 sottoscrizioni. Come Starmer, sconta il fatto di aver sostenuto il cambio di linea laburista verso il sostegno ad un secondo referendum sulla brexit, svolta controversa che ha generato una posizione contraddittoria e difficilmente sostenibile (rinegoziare un accordo di uscita con l’Unione Europea e al tempo stesso indire un referendum contro di esso), accusata da alcuni di aver pregiudicato le speranze di vittoria elettorale del partito.
In passato è stata molto criticata per un post in cui sembrava irridere gli abitanti di una casa di fronte alla quale sventolavano tre bandiere con la croce di S. Giorgio, la bandiera inglese. A chi le domandava come giudicasse il leader uscente ha risposto lodando la passione di Corbyn, ma al tempo stesso criticandolo per aver perso le elezioni.
La situazione è ovviamente in piena evoluzione, e non è possibile formulare previsioni, anche se al momento – come già sottolineato – Starmer e Long-Bailey sembrano essere i netti favoriti. Una fine anticipata della campagna di Thornberry andrebbe a vantaggio quasi certamente di Starmer, mentre sono meno facili da immaginare i flussi di voti da Phillips e Nandy.
Se alla fine Long-Bailey è rimasta l’unico nome della sinistra e sinistra estrema del partito, fatti come la goffa e presto abortita quasi-candidatura di Barry Gardiner (le notizie che citavano il segretario di Unite e stretto alleato di Corbyn Len McCluskey come ispiratore del tentativo di Gardiner sono state con forse troppa forza smentite dal sindacalista) e l’orwelliana procedura con cui Momentum – il gruppo “di base” pro-Corbyn – ha ratificato il suo sostegno segnalano che il rapporto con la left wing laburista non è probabilmente idilliaco e aproblematico come a prima vista. O semplicemente parlano di un autolesionismo che, da sinistra, non sorprende più nessuno in Europa.
Per quanto riguarda il deputy leader il quadro è se possibile addirittura più intricato, con cinque candidati che si contendono una posizione che – vale la pena ricordarlo – l’ala corbynista del partito ha recentemente tentato di abolire, un tentativo abbastanza rozzo di eliminare politicamente un avversario interno, il già citato Tom Watson. La favorita al momento sembra essere la MP per Ashton-under-Lyne Angela Rayner, della Soft left del partito, forte di un supporto trasversale nel Labour party e dell’appoggio della amica Long-Bailey. Richard Burgon, candidato della Hard left, non sembra invece avere granché il vento nelle vele.
Ma la situazione è fluida, e i prossimi mesi saranno sicuramente decisivi.
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Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.