1988, Kurdistan Iracheno. Durante le battute finali della guerra con l’Iran, le forze armate di Saddam Hussein scatenano una campagna genocida contro curdi e assiri nel nord del Paese. La cittadina di Halabja viene attaccata con un gas tossico, forse gas mostarda o un gas al cianuro; l’attacco costa la vita a circa cinquemila persone, che si vanno a sommare ai più di centomila (il numero non verrà mai stabilito con precisione) morti dell’intero parossismo genocida. Nonostante l’evidente responsabilità del governo iracheno la CIA statunitense addossa – in una girandola di versioni – la colpa all’Iran.
2002, l’amministrazione Bush inizia l’escalation diplomatica che di lì a pochi mesi porterà all’invasione dell’Iraq.
Il governo
statunitense sostiene di avere prove schiaccianti del fatto che
Saddam Hussein stesse nascondendo e ricostruendo un arsenale di armi
di distruzione di massa, che avrebbe invece dovuto distruggere negli
anni ’90. In ottobre il Congresso autorizza il presidente ad adottare
ogni mezzo necessario contro l’Iraq, in novembre le Nazioni Unite
danno all’Iraq “un’ultima possibilità” di dimostrare la propria
buona volontà.
Alcuni dei più stretti alleati degli Stati
Uniti, tra cui Germania e Francia, rimangono inorriditi di fronte ai
venti di guerra che vengono da Oltreoceano; non il Regno Unito di
Tony Blair, che appoggia incondizionatamente la dottrina Bush,
come gli altri maggiori membri europei della rabberciata “coalizione
dei volenterosi” riunitasi attorno ai piani bellicosi di Bush:
Italia, Polonia (che
parteciperà all’invasione) e Spagna. Nel Regno Unito,
nonostante le dimissioni di tre membri del governo, una imponente
ribellione alla disciplina di partito tra i parlamentari laburisti e
l’opposizione vocale di un gigante della politica britannica come
Charles Kennedy, la risoluzione del governo contro l’Iraq passa con
un’ampia maggioranza, il 18 marzo 2003.
Il 20 marzo 2003 l’Iraq viene invaso dalle forze americane e della “coalizione dei volenterosi”, lo stato baathista (il partito Baath è il partito panarabo nazionalista radicale a cui apparteneva Hussein) crolla, le sue forze armate sono sbagliate e nel giro di un mese il Paese mediorientale è in mano agli invasori. Il primo maggio del 2003, a bordo della portaerei Lincoln, George W. Bush dichiara “missione compiuta”. In realtà il peggio doveva ancora arrivare. La fine dell’invasione segnava solamente l’inizio di una brutale insurrezione, una guerra di tutti contro tutti tra vari gruppi religiosi e politici del Paese, il governo centrale e le forze occidentali che, attraverso varie fasi, arriverà fino ad oggi. L’insurrezione costerà migliaia di vite alle forze della “coalizione dei volenterosi” e agli americani, decine di migliaia di vite agli iracheni e farà da incubatrice alla barbarie di Daesh, nato dalla costola irachena di Al-Qeda, che prima dell’invasione angloamericana – sembra – non esisteva o era estremamente debole. Dall’invasione al 2011, secondo lo studio più attendibile, sono morte in Iraq circa mezzo milione di persone (vedi qui).
L’Iraq, più che
l’Afghanistan o le molte bushiane operazioni “Enduring Freedom”,
ha segnato profondamente la consapevolezza politica e l’immaginario
della generazione dei nati tra anni ’80 e prima metà degli anni ’90.
La causa dell’opposizione alla guerra ha risvegliato nel mondo
occidentale un movimento di massa altrimenti traumatizzato dalla fine
della stagione No Global, e ha generato il fiorire di una produzione
saggistica politologico-filosofica di varia natura e qualità, tra
cui vorrei ricordare soprattutto Iraq. The borrowed kettle
dello psicoanalista Slavoj Žižek.
Se quel movimento non è
riuscito nel (probabilmente ormai improbabile a prescindere, data la
natura ademocratica della politica contemporanea) obiettivo di
evitare che iniziasse o fermare la guerra mentre si svolgeva, non mi
sembra troppo ottimistico o ingenuo dire che – almeno in Europa –
ha ottenuto una vittoria sul piano culturale, nel lungo periodo. La
realtà della guerra e del suo inverso, il movimento pacifista, ha
distrutto la carriera politica di Blair, trasformando quel “brand”
di centrosinistra economicamente liberista e politicamente assertivo
sul piano internazionale in un rifiuto tossico della storia (anche
se, recentemente, Partito Socialista francese e Partito Democratico
italiano hanno dimostrato a loro spese di non aver capito questa
lezione).
In Gran Bretagna, il rapporto Chilcot ha messo
nero su bianco che la guerra poteva essere evitata e andava
evitatata, che i militari britannici sono stati mandati allo
sbaraglio nel teatro mediorientale, con tattiche basate su assunzioni
fantasiose e senza obiettivi chiari, che sull’intera impresa bellica
si staglia l’ombra dell’illegalità internazionale; è difficile
immaginare che una simile opera di parresia si debba solo allo
spirito di trasparenza delle istituzioni del Regno, a prescindere
dalle spinte del movimento pacifista. L’ascesa di Jeremy Corbyn dalla
retroguardia laburista alla leadership non si può capire se non si
considera il suo passato di oppositore radicale della guerra in Iraq.
Specularmente, le tendenze filo-New Labour nella destra laburista
scontano tuttora la complicità della stragrande maggioranza dei loro
politici più esperti con l’aggressione irachena.
Purtroppo,
l’eredità del movimento contro la guerra in Iraq non è di segno
solamente positivo, soprattutto in Italia: in esso, e per colpa della
tolleranza di molti soggetti organizzati che animavano quel
movimento, hanno trovato nuova vita gli istinti di alcuni nella
sinistra a schierarsi a prescindere, con posizioni
tragicomicamente tagliate con l’accetta sul modello di una Guerra
Fredda di cui non si accetta la fine. Sullo sfondo, da un lato,
all’interno del “Palazzo”, lo stritolamento di ogni posizione
critica operato dai dispositivi della responsabilità istituzionale,
dall’altro lato l’impotenza di chi, escluso dalle istituzioni, stenta
a trovare un modo efficace di fare politica.
Tra chi quella guerra, quindici anni fa, l’ha voluta, le cose vanno in maniera molto più lineare. Già Melissa A. Orlie, in un articolo uscito sul South Atlantic Quarterly nel tardo 20061), diagnosticava nella trasformazione del partito Repubblicano in una mera appendice degli interessi dei grandi gruppi di potere capitalistici sotto la spinta di una brutale campagna di conquista di una destra radicale teocratica e venata di millenarismo il dispositivo cruciale al “ritorno a casa” della brutalità della Power politic, che gli USA erano soliti applicare in contesti stranieri e lontani e che proprio con le presidenze Bush veniva applicata sul corpo vivo della società americana, tramite il conferimento di sempre maggiori fette di “denaro dei contribuenti” al complesso industriale- militare, l’erosione della democrazia statunitense e la distruzione di ogni residua forma di welfare e regolamentazione del mercato (come eloquentemente descritto nelle dichiarazioni di un attivista della destra radicale repubblicana, riportate dalla studiosa, “to cut government in half in twenty-five years, to get it down to a size where we can drown it in a bathtub’’). A prescindere dagli schieramenti politici dei singoli, un ruolo fondamentalmente in questo imbarbarimento della vita associata statunitense avrebbero, secondo Orlie, gli stili di vita e di consumo del cittadino americano medio, per la loro ovvia connessione con l’aumentare del potere economico delle multinazionali e quindi della loro presa sulla politica. Anche per questo motivo, la scalata della destra radicale alle leve del potere non si poteva pensare come conclusa con le presidenze di Bush jr., ma come un inquietamente processo in fieri. Nel 2018, con Trump alla Casa Bianca, non possiamo che confermare questa fosca profezia.
Non ci si deve però lasciar scoraggiare. Come giustamente afferma Orlie, la destra estrema e gli interessi che la sostengono hanno impiegato una trentina d’anni per imporre la loro agenda al mainstream della politica americana, e in questo hanno potuto tanto le ideologie diffuse da migliaia di chiese fondamentaliste – a cui spesso è mancata una vera opposizione confessionale – quanto i milioni dei lobbisti.
Sta alla sinistra,
in tutto il mondo, imparare da questa storia, ricominciando con un
lavoro capillare che sappia fare egemonia nel lungo periodo,
valorizzando il patrimonio di esperienze che ha accumulato in questo
primo ventennio di XXI secolo ma sapendone pure riconoscere i
limiti.
Gli anniversari, per quanto tristi, possono essere
preziose occasioni di riflessione. Sta a tutti noi non sprecarle.
1 Melissa A. Orlie, Mass Support For Power Politics, in «South Atlantic Quarterly», 2006, 105:1, pp. 217-240
Pubblicato per la prima volta il 12 aprile 2018
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.