Donald Trump ha dato già più volte prova della sua spregiudicata gestione delle relazioni internazionali, ad essere magnanimi si può dire che le sue scelte appaiono indecifrabili sia nelle dinamiche progettuali che negli esiti che vuole ottenere. Anche in questa vicenda è difficile capire quanto l’uccisione del generale iraniano sia pianificata e quali obiettivi intenda perseguire; se è facile immaginare che quest’azione avrà un riflesso immediato sul procedimento di impeachment e sulle prossime elezioni – pianificare azioni militare a ridosso delle elezioni è ormai una tradizione per i presidenti in carica in crisi di consenso – è più complicato decifrare quali saranno gli effetti non solo nel medio oriente, ma anche sugli equilibri politici mondiali: Russia, Onu, Europa, Regno Unito e gli altri attori globali come si porranno di fronte ad una ulteriore destabilizzazione della regione che potrà portare ad una escalation militare anche di vasta scala?
Leonardo Croatto
E’ difficile capire quali valutazioni muovano le scelte di Trump in politica estera, ma non credo che definirle folli o insensate aiuti a comprenderle. L’impressione è che Trump misuri ogni sua scelta secondo uno schema di valutazione totalmente autocentrato (e probabilmente ipernarcisistico) che lo porta ad ignorare tutte le conseguenze delle sua azioni diverse da quelle che intervengono sul suo interesse diretto.
In questo senso la sua politica estera ha portato gli USA fuori da qualsiasi percorso di coordinamento o collaborazione tra stati e ha impostato ogni relazione bilaterale in una logica di pura misurazione diretta dei rapporti di forza.
Anche in medio oriente tutte le decisioni prese da Trump sono andate in questa direzione: gli Stati Uniti si sono sganciati da ogni rapporto di collaborazione con le altre potenze mondiali impegnate sul territorio e hanno reimpostato le proprie relazioni in maniera più esplicitamente polarizzata, rafforzando i legami con Israele e Arabia Saudita interrompendo più complicati percorsi di relazioni diplomatiche multilaterali.
Allo stesso tempo, con questa azione Trump realizza il vantaggio interno di indebolire il processo di impeachment e rafforzarsi in chiave elettorale, non solo perché le guerre per i repubblicani hanno sempre pagato nel rapporto con gli elettori, ma anche perché questa decisione pone la sua figura in forte contrapposizione con quella di Barak Obama.
Questo alleggerimento delle relazioni diplomatiche riguarda anche Europa e NATO, ovviamente: l’EU non appare essere considerata più un alleato strategico dagli USA, anche vista la sua debolezza (e viene il sospetto che Trump non immagini come negativo un suo ulteriore indebolimento); ugualmente, la NATO non è ritenuta più un soggetto collettivo di cui gli Stati Uniti intendono rispettare le regole di relazione. E, purtroppo, sembra che le valutazioni del Presidente degli Stati Uniti non siano, anche in questo caso, affatto campate in aria: NATO ed Europa stanno dimostrando la loro irrilevanza sullo scenario internazionale e, allo stato delle cose, risulta difficile immaginare che possano trovare uno spunto per recuperare un ruolo attivo indipendentemente dagli USA. Ma, se non dispiace affatto osservare la NATO che si sfalda, avremmo tutti sperato che l’Europa Unita potesse diventare qualcosa di diverso e migliore della miseria politica e culturale che dimostra ogni giorno di essere.
Piergiorgio Desantis
Trump e la sua amministrazione, con questo atto di guerra, smuovono il dibattito sulle molteplici difficoltà del suo presidente e degli USA nel mondo. Oltre a vivere un declino economico che, per il momento, è stato fronteggiato con la politica dei dazi, in chiave geopolitica gli americani appaiono sempre più assediati con i loro alleati storici, mentre il contesto necessiterebbe di una politica di coinvolgimento di nazioni come Russia e Cina. Inoltre, ogni velleità di diritto internazionale (ONU e, perfino, NATO) viene superata utilizzando quanto di meglio la tecnologia militare fornisce: i droni. Gli scenari sono inquietanti: è in corso la terza guerra mondiale o guerra a piccoli pezzi (Bergoglio docet) che si svolge senza eserciti in campo a fronteggiarsi. La costante afonia dell’UE e la scarsa predisposizione della Farnesina a svolgere un ruolo in questo contesto, conferma la necessità di smuovere e far (ri)nascere un grande movimento per la pace.
Jacopo Vannucchi
A chi giova l’omicidio del generale Soleimani?
Molto, senza dubbio, alla destra israeliana. Con Netanyahu in crescente difficoltà e il Likud che rischia di perdere il potere alle elezioni di marzo, l’escalation della tensione in Medio Oriente è un copioso regalo ai settori militaristi e xenofobi di Israele.
Giova anche, sempre da un punto di vista elettorale, a Trump? Questo è più dubbio. Anzitutto perché, sebbene l’assassinio sommario di un cittadino straniero possa rafforzare la figura di “uomo forte” del Presidente, le conseguenze di destabilizzazione e di guerra ne intaccano l’immagine di isolazionista o distensionista con cui, richiamandosi alla Realpolitik nixoniana, egli vorrebbe accreditarsi. Su quest’ultimo punto pare però aver ceduto ai neoconservatori, nonostante i suoi tentativi di emarginarli (ad esempio il licenziamento di Bolton da consigliere per la sicurezza nazionale, nel settembre scorso, oppure l’interregno di sette mesi al Pentagono dopo le dimissioni di Mattis).
Probabilmente, come già accaduto su altri temi cruciali come la politica fiscale e le nomine giudiziarie, il gruppo repubblicano al Senato – o, in questo caso, i suoi falchi militari Tom Cotton e Lindsey Graham – ha ancora una volta barattato il proprio sostegno parlamentare con una politica alla George W. Bush. Un sostegno parlamentare tanto più necessario per Trump in vista dell’impeachment (la condanna non è un’opzione realistica, ma le brutte figure sì), tanto più che il senatore Graham presiede la Commissione Giustizia.
Negli anni Novanta gli Stati Uniti hanno coltivato per breve tempo l’illusione di poter essere i poliziotti del mondo. Realizzato di non avere le forze per un simile compito, e non volendo sedersi nuovamente a patti con gli altri attori, hanno quindi scelto di mantenere il globo in uno stato di scompiglio, provocandolo laddove non ve ne sia, così che, in quanto prima potenza militare, possano comunque primeggiare. La Russia non ha le forze se non per rispondere con altre azioni di disturbo alla periferia dell’impero di Washington; la Cina preferisce il confronto economico. Ma quanto consenso vi è, in terra Usa, per quel tipo di politica? L’arrivo di una nuova recessione potrebbe – pur sollevando uno tsunami di altri problemi – ridurlo a zero.
Alessandro Zabban
La politica estera dell’amministrazione Trump non è mai stata isolazionista e non ha neanche mai brillato per lucidità. Soprattutto nello scacchiere mediorientale gli Stati Uniti hanno collezionato un numero impressionante di fallimenti e figuracce, non ultimo il vigliacco disimpegno dalla Siria che ha lasciato i curdi nelle mani di un Erdogan sempre più autoritario e ambizioso nei suoi piani espansionistici. Il tentativo di contenere l’Iran e i suoi alleati sciiti per venir incontro alle richieste saudite e israeliane ha portato Trump su posizioni molto più aggressive di quelle di Obama. L’abbandono dell’accordo sul nucleare e le sanzioni alla Repubblica Islamica degli Ayatollah erano pensate per sfiancare le ambizioni egemoniche iraniane. Ma l’Iran non si è fatto piegare e si è dimostrato maestro nell’arte della guerra asimmetrica. Il criminale assassinio di Suleimani si deve leggere in questo contesto. Suleimani non era solo il generale che aveva sconfitto sul terreno Daesh ma era anche il braccio destro di Khamenei: il suo ruolo era quello di espandere l’influenza iraniana in Iraq, Siria e Libano per contribuire a rafforzare un fronte sciita in grado di resistere all’imperialismo saudita, israeliano e statunitense. La capacità di Suleimani di organizzare una forte milizia sciita in Iraq e di canalizzare un sentimento di grande risentimento popolare contro le forze statunitensi presenti sul territorio iracheno (testimoniato dall’assalto all’ambasciata americana nei giorni a cavallo fra 2019 e 2020) stava rappresentando una spina nel fianco per gli Stati Uniti e i suoi alleati regionali ma la drastica soluzione di Trump, fatta forse senza una chiara strategia di azione ma solo per ottenere un guadagno elettorale, potrebbe complicare ancora di più la difficile situazione americana in Medio Oriente. Quello che traspare infatti da questi primi giorni dopo l’attentato è che, sia in Iran che in Iraq, Suleimani sia diventato un martire della causa sciita. Non solo con la sua morte le fazioni interne alla Repubblica Islamica si sono ravvicinate, ma anche in un Iraq scosso da grosse proteste popolari contro la povertà e la corruzione, il fronte sciita sembra ricompattarsi nella denuncia dei crimini americani. L’Iran puntava a espandere la sua influenza in Iraq e a cacciare gli americani da un paese che avevano invaso e occupato dal 2003. La morte di Suleimani sarà un duro colpo per l’Iran ma proprio questo tragico avvenimento ha portato il parlamento iracheno a decidere di espellere le truppe americane dal suo territorio. Una decisione che potrebbe rafforzare l’asse sciita e indebolire la presenza americana nella regione. Se le autorità iraniane saranno prudenti e saggie, invece di puntare ad azioni punitive spettacolari ma che rischiano di provocare un’escalation pericolosa, insisteranno a lavorare in maniera sotterranea per cercare di rafforzare la loro influenza regionale.
Immagine da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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