Non è un paese per residenti, parafrasando il titolo di un noto e bellissimo film dei fratelli Cohen. Questo sembrano dirci le pagine de La filosofia del trolley, di Grazia Galli e Massimo Lensi, pubblicato da Carmignani Editrice (Carmignani 2019), un saggio che ciascuno di noi, non solo i cittadini di Firenze, dovrebbe leggere.
Il libro, che unisce una parte romanzata e una parte di approfondimento critico, analitico statistico e propositivo, è uno strumento prezioso, da tenere sempre a portata di mano come un vademecum del cittadino consapevole.
La filosofia del trolley affronta la tematica della turistificazione di massa che le città d’arte, come Firenze, Venezia, Barcellona, San Francisco ecc., hanno subito e stanno subendo, in maniera continuativa e senza contenimento, a scapito della vivibilità della città, della dignità dei suoi abitanti, indipendentemente dalla propria condizione sociale ed economica, e dell’identità genuina della città, depauperata della sua anima più profonda e autentica, delle sue tradizioni e della sua essenza, sociale, culturale, urbana, artistica e folcloristica.
Io ho studiato a Firenze, prima al liceo e poi all’università, e per quanto la mia percezione, rispetto a quella di un residente del centro storico fiorentino, sia molto parziale, in un decennio, o poco più, ho visto e continuo a notare come la bella, bellissima Firenze, sia cambiata, diventando, pian piano (e nemmeno troppo lentamente) una mera vetrina luccicante destinata unicamente al consumo di un turismo sempre più selvaggio e “mordi e fuggi”, che condensa in una giornata o poco più le frettolose visite guidate ai musei e alle attrazioni più note, unendole alle esperienze del palato e dello shopping in locali che adattano i propri menu alle esigenze del turismo globale, o assalendo le vie “cool” e “trendy” in cui acquistare oggetti di consumo a più o meno caro prezzo, come in via Tornabuoni o in via dei Calzaioli.
Lo sa bene Lucio Lentini, protagonista del racconto che apre il saggio di Galli e Lensi. Lucio vive vicino a Santa Maria Novella, è uno dei pochi resilienti e residenti che, nonostante l’invasione dei trolley e di coloro che li trascinano, provenienti da ogni parte del globo, cerca di sopravvivere mantenendo abitudini locali in luoghi che conosce e ama da tutta la vita. Deve scrivere un libro sul turismo di massa e da qui inizierà un tour cittadino che lo porterà a dialogare, ad ascoltare pareri e riflessioni, a porre domande e a cercare risposte tra i negozianti e gli esercenti del centro storico: mercato di San Lorenzo, bar, forni, trattorie. E Lucio chiede. Chiede come si sentano i venditori locali in questa folla pagante di turisti che vanno e vengono con il loro trolley e con il desiderio spasmodico di catturare esperienze dentro un selfie da condividere su qualche piattaforma social.
Lentini cammina, per le strade del centro, quel centro dove ogni anno arrivano circa quattordici milioni di turisti su un totale di circa 380 mila residenti nell’intero comune e poche decine di migliaia nel centro, “modificando il tessuto intimo della città e aprendo le porte alla sua trasformazione in mercato esclusivo del turismo globale”[1]. È “la filosofia del trolley”[2], dice Renato, proprietario di un bar in zona San Lorenzo. Un trolley sempre più vuoto di contenuti ma “carico di iperconessioni con il mondo virtuale”. Questo bagaglio avido di immagazzinare esperienze da condividere con il mondo digitale e social, crea il brand della città, il marchio vendibile, svendibile, commerciale, condivisibile, ripetibile, identificabile, della città. “Quel brand che oggi è tutto. Non puoi andare avanti nel mondo del turismo se non sei parte del brand e a tua volta non ne crei di nuovi. È creazione pura, commerciale, certo, ma così va il mondo, anche se sfrutta una città fino a consumarne l’identità”[3].
E quello con Renato non è l’unico incontro che manifesti lucidità e consapevolezza riguardo al fenomeno dell’overtourism, termine introdotto per la prima volta da Rafat Ali, fondatore di Skift, società di analisi del settore viaggi, nella prefazione di un articolo dedicato all’impatto del turismo in Islanda[4]. Anche Priscilla, vecchia fiamma di Lentini e attivista di sinistra ha un’idea molto chiara e approfondita sul fenomeno della turistificazione selvaggia e sullo snaturamento urbano e cittadino del capoluogo toscano – benché il fenomeno non riguardi solo questo. Priscilla dice cose importanti a Lucio: l’industria del turismo “è […] una forma pericolosa di capitalismo selvaggio. Molti gruppi di lotta lo chiamano Turismo estrattivo. È una pratica neoliberista, che impone una nuova forma di colonialismo urbano. Dalla città si estrae identità. Attraverso piani urbanistici che fossilizzano le città gli abitanti subiscono la gentrificazione. […] Le città lentamente si trasformano. Case, negozi, servizi, strade, quartieri interi devono essere svuotati per fare spazio al mercato del turismo e soffocare le tensioni in crescita tra cittadini e turisti. Una pratica ignobile. Attraverso il consumo del turismo di massa l’economia urbana si trasforma in capitale per pochi. Le multinazionali stanno privatizzando tutto, anche il progresso. La rendita turistica è una forma di parassitismo sulle spalle dei più poveri. E va combattuta”[5].
Come afferma Priscilla, un’altra conseguenza della trasformazione delle città a misura di turista è quella di renderle delle vetrine immacolate, epurate da qualsiasi scarto che possa compromettere la bellezza luccicante e sfavillante della città. Da qui tutte le misure sul decoro urbano e sul controllo disciplinare che mirano a nascondere, a rimuovere, qualsiasi residuo di marginalità, qualsiasi eco di degrado, di sporcizia, di miseria e povertà. E di questo fanno le spese gli ultimi, i poveri, i miserabili, i venditori ambulanti, relegati ai confini dello sguardo, spazzati via come rifiuti urbani da dimenticare, da seppellire come polvere sotto tappeti persiani.
La bellezza di Firenze resta immutata ma accessibile solo a chi può permettersela, a chi può pagare per averla, per consumarla, per ammirarla. Chi non può deve essere eliminato, allontanato, relegato in periferie lasciate a se stesse, laddove il degrado è permesso perché non raggiungibile dalle macchine fotografiche o dai selfie di folle turistiche, laddove la povertà è consentita purché non dia fastidio alle fotocamere degli smartphone che potrebbero catturarla e diffonderla nello spazio virtuale, dove tutto viaggia a velocità impressionante: “Lentini si trovò a riflettere sulla città fragile, quella degli ultimi, la parte del vivere comune inserita nelle pieghe invisibili di una guida per turisti. Le mense per i poveri, i luoghi di prima accoglienza per i migranti, le comunità di recupero per tossicodipendenti, il carcere, le RSA per anziani non autosufficienti e altri luoghi che il turismo non voleva e non doveva vedere. Una città popolata da senzatetto, ex detenuti e dalle più diverse marginalità sociali confinate senza appello ai bordi della società, che però appartenevano a pieno titolo alla comunità. A quella città così fragile la bellezza di Firenze cominciava a essere preclusa dall’urbanistica della disciplina che aveva svuotato la città storica di panchine e spazi di socializzazione. Sentire la ‘bellezza’ era diventato uno slogan di cui Firenze viveva. Intriso parecchio, però, di facile retorica”[6].
Si pensi al recente caso di Dumitru, un senza fissa dimora morto congelato dal freddo in via Santa Caterina d’Alessandria, vicina a Piazza Indipendenza. Firenze li dimentica questi invisibili, non c’è spazio per loro nel mondo scintillante creato ad hoc per un consumo sempre più sfrenato e vorace, dove tutto diventa anonimo, comprabile, mercificabile, persino il patrimonio artistico, venduto e svenduto a privati, o affittato a grandi multinazionali come accadde a Ponte Vecchio, durante il mandato di Renzi a Sindaco di Firenze, che fu “requisito” per ospitare solo gli invitati Ferrari a una cena esclusiva.
Le città si trasformano nella sola funzione di un turismo predatorio, a caccia di esperienze e sensazioni e questa trasformazione, pensata e governata solo per rendere la città appetibile e fruibile da un numero sempre maggiore di host, o meglio, di city users e soggiornanti di breve, brevissimo periodo, incide sulla vita dei cittadini, mutando radicalmente sia le loro abitudini che il loro benessere quotidiano, la loro reale vita cittadina. Molti abbandonano il centro – per questo si parla di gentrificazione – e si rifugiano in isole dove la vita è meno affollata, meno a portata di turista con il portafoglio da svuotare. Il centro storico si svuota dei suoi abitanti per lasciare spazio a bed and breakfast, alberghi di lusso, catene di negozi e fast food, e, soprattutto di nuove frontiere dell’alloggio condiviso e di breve durata, le cui sedi hanno luogo altrove e le tasse che pagano vanno a fagocitare le pance di qualche paradiso fiscale senza poter incidere sui servizi del comune in cui mettono a disposizione camere, alloggi e appartamenti per soggiornanti mordi e fuggi.
Lo denunciano bene gli autori del libro, che nella seconda parte, riportano dati dettagliati e allarmanti su quanto siano enormi le proporzioni della presenza turistica nel capoluogo toscano. Dai dati riportati dagli autori innanzitutto si evince che “dal 2010 a oggi i flussi del turismo hanno registrato una crescita pressoché ininterrotta di arrivi e presenze […]. Andando subito al 2018, vediamo che i turisti registrati nelle sole strutture ufficialmente accreditate sono stati 3.914.770, per un totale di 10.598.222 presenze, con tassi di crescita rispetto al 2010 pari rispettivamente al 39,9% e al 54,2%”[7].
Uno dei problemi sta proprio qui. Che i dati ufficiali pubblicati sul sito della Città Metropolitana riportano solo le presenze censite, mentre non compaiono i numeri relativi alle persone che hanno pernottato presso alloggi concessi in affitto breve (l’obbligo di iscrizione nel registro della Regione Toscana per i gestori delle locazioni brevi è stato introdotto dal nuovo Testo Unico sul sistema turistico regionale solo a maggio 2019). Come scrivono gli autori “grazie al diffondersi delle piattaforme della sharing economy, infatti, agli esercizi ufficiali si è affiancata nel corso dell’ultimo decennio un’intensa offerta di locazioni brevi a uso turistico, di cui per ora è difficile ottenere una quantificazione. […] Secondo il Centro Studi Turistici (CST) di Firenze, che ha analizzato i dati forniti da AirDna, gli annunci per locazioni brevi pubblicati sulla sola piattaforma Airbnb relativamente al Comune di Firenze sarebbero passati dai 4.659 del 2014 ai 10.408 nel 2018”[8].
Queste piattaforme , nate, almeno nella versione ufficiale, con lo scopo di promuovere la condivisione delle proprie abitazioni, si sono trasformate in vere e proprie compagnie miliardarie cambiando il volto di molte città. Le amministrazioni locali dovrebbero fare i conti con questa nuova realtà esistente e prendere atto dell’espansione selvaggia dell’industria turistica e dello stress che può causare a una “città tarata sui bisogni di 367.062 persone (i residenti del Comune fiorentino), rendendo difficile non solo la vita quotidiana dei residenti ma anche la fruibilità di spazio e servizi per turisti e city users. Prendere coscienza del problema della turistificazione incontrollata da parte delle istituzioni, è di fondamentale importanza, per adottare strategie di contenimento e permettere di creare un equilibrio tra ospiti e residenti.
La soluzione, infatti, come spesso ribadiscono gli autori del libro, non è un semplice “Go away”, ma cercare di contenere il fenomeno, di porre dei limiti senza favorirne un ulteriore aumento. I due autori, per bocca di Lucio Lentini, sanno bene che l’unica soluzione è riassumibile “in una sola parola: equilibrio. Tra il profitto e la dignità. Tra numeri e sostenibilità[9]”.
Sembra però ormai che per le amministrazioni cittadine l’unica risorsa di una città come Firenze sia il turismo e di conseguenza la città si sta trasfigurando in una Disneyland anonima e priva di autenticità per attrarre sempre di più orde di ospiti paganti: “Il pericolo che si percepisce […] è che, in assenza di interventi regolatori, le città si trasformino in spazi omologati, esclusivi e smart, per temporanei city users paganti, cessando di essere luoghi creativi di cittadinanza consapevole della necessità di sostenere e tutelare i diritti di persone della più variegata condizione sociale ed economica”[10].
La Regione Toscana sembra tuttora non rendersi conto dei pericoli connessi alla saturazione turistica. Una governance territoriale che non tiene conto dei bisogni di una città e dei suoi residenti, e che scorge nell’industria turistica l’unico elemento di guadagno, l’unica risorsa da sfruttare, senza neanche pensare ai servizi che può mettere a disposizione per garantire una dignitosa vivibilità per tutti, residenti e ospiti, manca di lungimiranza e finisce per rimanere del tutto cieca e impreparata di fronte a un fenomeno, come quello dell’overtourism, che sta diventando, per città come Firenze o Venezia (tanto per citarne due) una vera e propria emergenza, lasciandola crescere a dismisura, anzi, fomentandola, senza porvi limiti, freni, controlli, misure di contenimento entro criteri di equilibrio e sostenibilità.
Come spiegano bene gli autori, della Legge regionale n. 86 del 20 dicembre 2016 di cui si è dotata la Regione Toscana, non si può non notare che “l’impulso principale […] sia di promuovere il turismo e attrarre nuovi e sempre più numerosi flussi turistici verso le mete della nostra regione in una sorta di complesso meccanismo che lega il settore turistico, o meglio l’industria turistica, alla crescita economica e ai modelli di produzione della ricchezza. La legge regionale infatti, oltre a regolare il settore, stabilisce precise norme di condotta economica, mescolando la ratio regolamentare con quella politica. Il legislatore, però, non ha considerato la possibilità di invertire la rotta, stabilendo un solo senso di marcia, quello della promozione. In presenza di fenomeni, ormai globali, di ipersaturazione turistica la legge è nuda, priva di previsioni e delle necessarie contromisure”[11].
Le amministrazioni dimenticano di ascoltare e dare maggior spazio ai cittadini, che finiscono per perdere qualsiasi dialogo, confronto e fiducia nelle istituzioni, sentendosi impotenti e impossibilitati a incidere nelle scelte che riguardano il proprio vivere il quotidiano e il proprio vivere la città. Molti residenti del centro storico finiscono semmai più per subirla, la città. Si sono visti privati di spazi di socializzazione, di momenti di socializzazione. Le piazze sono invase da dehors con spruzzini di caldo e freddo, sui marciapiedi di via De’ Neri non si può mangiare un panino, gli esercizi storici chiudono per lasciare spazio a catene, multinazionali, brand anonimi e negozi di souvenir dove si può trovare dal David di Michelangelo stampato su grembiuli di cucina fino al limoncello (squisitamente fiorentino, tra l’altro!) in bottigliette fatte a forma di chitarra.
Per non parlare della sorveglianza: Galli e Lensi non si dimenticano di indicare come Firenze si vanti di essere una delle città con più telecamere, nel nome di una sicurezza che è diventata ossessione, paura del prossimo e soprattutto paura o odio nei confronti di chi consideriamo diverso, straniero, povero, malato. In nome della sicurezza abbiamo svenduto noi stessi, nel vero senso del termine. Le telecamere, la sorveglianza non si limitano a rendere le città più sicure, ma catturano continuamente migliaia di dati che ci riguardano. Ci profilano. Noi diffondiamo continuamente, semplicemente camminando con un telefono in mano, informazioni. Informazioni sulla nostra privacy, sui nostri gusti, i nostri interessi, i nostri spostamenti, persino le nostre interrelazioni e tutto questo è potenzialmente fonte di profitto per indurre bisogni e incentivare consumi creati ad hoc sul nostro profilo, ricamati e cuciti addosso a noi, ai nostri gusti, ai nostri interessi, alla nostra situazione economica. Non ci sono tutele, ancora, sulla nostra privacy virtuale.
I due autori non si limitano però a evidenziare il problema dell’overtourism e delle sue conseguenze, ma offrono anche esempi virtuosi di contenimento o limitazione del fenomeno messi in essere da alcune città, come San Francisco o Barcellona e indicano delle strategie costruttive di risoluzione da poter realizzare qualora ci fosse la volontà, da parte delle istituzioni, di farlo. I due autori sono infatti tra i fondatori dell’Associazione Progetto Firenze, un movimento che riunisce persone (soprattutto residenti) che non si limitano a essere resilienti e ad adagiarsi in maniera supina e impotente alla trasformazione di Firenze fagocitata dal turismo di massa, ma si impongono di essere resistenti, militano e si impegnano per trovare alternative a una ratio urbana e a una governance territoriale che finge di non vedere quanto il fenomeno dell’overtourism stia modificando il tessuto urbano e sociale della città. Il loro saggio, insieme alla loro attività militante, sono esempi di resistenza urbana, politica e sociale che andrebbero seguiti, sia per prendere maggior consapevolezza sulla problematica e sulle statistiche allarmanti che la concernono, sia per riprendere in mano il nostro diritto a esercitare una cittadinanza realmente attiva. Il nostro diritto a essere cittadini, prima ancora che residenti. La loro denuncia è in fondo un inno alla bellezza della città che vivono e amano. Ed è un invito, o meglio, una spinta, a diventare cittadini coscienti, attivi e responsabili, appunto. Perché essere cittadini significa proprio questo: essere partecipi a quello che succede intorno a noi, che riguarda la politica della città, la sua vita e coloro che ci vivono, anche coloro che ci passano per poi andarsene.
La città è di tutti e di tutte, ma per poter esserlo deve anche essere una città davvero vivibile per tutti e tutte, non solo per chi può consumarla. Cittadino e cittadina sono anche quegli ultimi che il turismo non vuole vedere o che i governi cittadini non permettono di vedere, creando una “Grande bellezza” che è puramente artificiale, finta, formale. La “grande bellezza” di Firenze è anche la sua puzza, come dice Lentini, sono anche i suoi poveri, che Firenze in realtà ha sempre amato. È nella sua vulnerabilità e nella sua fragilità. La grande bellezza, di ogni città, si racchiude nell’interezza della città stessa, nella sua totalità, anche in quelle parti più brutte, più sporche, più apparentemente insignificanti, più fragili, più marginali, più misere, meno appariscenti e luccicanti, e non nella sua mera facciata. La bellezza di una città è nelle sue pieghe più sottili e nascoste, nei suoi angoli più sconosciuti, nei vicoli labirintici in cui ci si perde per caso, quelli non segnati dalle guide turistiche e meno battuti dalle ruote di trolley frettolosi e sempre più ingombranti. È nelle rughe e nelle mani sporche di un uomo che chiede l’elemosina, è disegnata sui murales che ogni tanto si scorgono su qualche muro anche del centro storico; è nel fiaschetto di vino di una trattoria storica e nell’ironia beffarda dei vecchi fiorentini. È nel volto dimenticato dei detenuti, della cui bellezza e umanità non si cura nessuno. È nel primo raggio di sole che trafigge la Basilica di Santa Croce o di Santa Maria Novella, quando ancora per strada ci sono pochissime anime. È nelle piazze, dove gli studenti e le studentesse potrebbero suonare la chitarra e ridere insieme. È nei bassifondi, è nelle buche per terra, è arrivare in ritardo alla stazione e poter rincorrere il treno senza esser fermati prima ai tornelli, che sembrano gabbioni, in cui vengono controllati i biglietti. È camminare per le vie e le piazze senza imbattersi, davanti ai monumenti principali, in militari con il mitra. È la polvere sulle strade acciottolate, è un lampredotto ma è anche un kebab senza patatine fritte ovunque dentro. È un bagno pubblico gratuito, una bottega antica, una piccola libreria indipendente, una biblioteca polverosa e che odora di libri antichi. È il fiume e non solo i ponti. È il mercato cittadino con le voci urlanti dei venditori (mercato che ora però, di autentico, a Firenze, non ha quasi più niente). È nelle sue periferie, nelle case popolari, nei luoghi autogestiti, nei centri sociali, nei vecchi cinema senza multisala. Come dice Lentini è nelle mense per i poveri, nelle RSA e nei luoghi di prima accoglienza per i richiedenti asilo. È nella “chiacchiera” col barista e con la fruttivendola o dentro la pasticceria di fiducia. E sì, la bellezza di una città è anche nel mosaico di colori di tutte le diverse nazionalità del mondo, nel turbinio fonetico di lingue e dialetti diversi che si mescolano in una giostra sonora, in un arabesco squillante di voci. Ma lingue che tra loro possano trovare una comunicazione e un arricchimento reciproco. Ricchezza umana, culturale, intellettuale. E quella può esserci solo se si trova una misura di convivenza reciproca, tra turisti e cittadini, secondo criteri di sostenibilità e non di sfruttamento, degli uni e degli altri e della città.
- G. Galli, M. Lensi, La filosofia del trolley, Carmignani Editrice, Pisa 2019, pp. 8-9. ↑
- Ivi, p. 21. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 2. ↑
- Ivi, pp. 47-48. ↑
- Ivi, pp. 52-53. ↑
- Ivi, p. 88. ↑
- Ivi, p. 103. ↑
- Ivi, p. 81. ↑
- Ivi, p. 115. ↑
- Ivi, p. 146. ↑
Rettificato dall’autrice in data 9 gennaio 2020
Immagine di Katrina S (dettaglio) da needpix.com
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.