Il regista romano riesce nell’impresa, mostrando tutti i limiti della versione animata Disney.
Benedetto Croce disse che “il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità”. Qualcuno deve averlo ascoltato. Per primi i nostri politici: da Renzi a Salvini, da Berlusconi alla Meloni, da Bersani a Di Maio citano spesso Pinocchio. Soprattutto nelle campagne elettorali. E quasi tutti mostrano apertamente con le loro azioni di non aver capito granché dell’essenza dell’opera di Collodi. Sfatiamo subito un falso mito: quel qualcuno non era sicuramente quel fascista, sessista, razzista ed antisemita di nome Walt Disney. Ovvero colui che oggi molti considerano il proprio maestro di vita. Un bel modello davvero. E non è un caso che oggi la multinazionale Walt Disney si sia assicurata quasi il monopolio del mercato cinematografico italiano con sempre più numerosi franchise. Alla fine degli anni ’30, quando il cartone animato di Pinocchio venne realizzato su carta, la storia fu addolcita e non poco.
L’epoca dell’educazione rigida, con modelli a volte terrificanti per i bambini, stava giungendo al termine in favore di un’educazione più flessibile e moderna, e Disney fu l’interprete più efficace di questo passaggio generazionale. Ancora oggi possiamo vederne le terribili conseguenze. Prendete quella sciocchezza della favola del principe azzurro. C’è gente di quasi 50 anni che ancora oggi ci crede e la tramanda ai figli con risultati sotto gli occhi di tutti. Pinocchio probabilmente segnò un punto di svolta nella percezione di un nuovo metodo educativo. La Disney diede vita ad una storia dolce e commovente, su un bambino ingenuo che avrebbe dovuto ascoltare maggiormente il genitore. Quello raccontato da Collodi era, secondo Walt Disney, un ragazzo irrispettoso che viene torturato e quasi ucciso a causa della propria ignoranza. Non era un personaggio modello per tutti i bambini. Era molto più indicata invece la figura di un ragazzino ingenuo, che quando impara ad essere coraggioso e sincero trova la propria salvezza. Così fu cambiato e venne fatto un Pinocchio in versione zuccherino.
Questa storia non era vera, era pateticamente ammorbidita. Ce ne siamo accorti quando siamo cresciuti. Nel libro di Collodi Pinocchio, dopo aver ucciso la propria coscienza, schiacciando il Grillo contro un muro, ignora totalmente tutti i buoni consigli dati da Geppetto, facendo scelte sconsiderate e talvolta malvagie, che alla fine lo portano ad essere impiccato ad un albero proprio da quei falsi amici di cui si fidava. Questa è la triste realtà. Le proteste dei lettori indussero Collodi a cambiare il finale, ma Pinocchio rimaneva comunque una favola piuttosto amara: il burattino patisce molte volte per le conseguenze delle sue azioni, finendo derubato, picchiato, rapito, legato alla catena come un cane, perennemente sconfitto e affamato. Sembra incredibile dirlo, ma nessuno fino ad ora si era avvicinato al libro di Carlo Lorenzini, alias Collodi, come Matteo Garrone. È lui che lo ha ascoltato.
Garrone prima di diventare regista era un pittore. La cosa si vede: ogni bozzetto, ogni inquadratura è un dipinto raffinatissimo sullo stile dei pittori toscani, i “macchiaioli” (Giovanni Fattori, Adriano Cecioni), della seconda metà dell’Ottocento. In particolar modo da “L’addio dei volontari” di Vincenzo Cabianca per l’uso della luce e dei colori. La somiglianza è impressionante.
La domanda che molti si sono fatti quando uscì il trailer era questa: “è necessario questo film?”. Sì lo è. Giunge proprio nel momento migliore. Adesso vi spiego i motivi. Molti non lo sanno ma l’autore del libro è finito sotto la lente d’ingrandimento per via della sua (presunta) adesione alla Massoneria. Pur non comprovata da alcun documento ufficiale, i riferimenti in tal senso sono numerosissimi (vedi qui). Il Dott. Bernacchi, presidente della Fondazione Nazionale Carlo Collodi, spiega ad esempio la leggenda uscita su un giornale russo che parlerebbe dell’esistenza di un certo Pinocchio Sanchez, a cui Collodi pare si sia potuto ispirare per il suo burattino. Sanchez nato nel 1760, affetto da nanismo, di ritorno dalla guerra, mutilato alle mani, gambe e naso, avrebbe continuato a vivere grazie all’intervento di un medico locale, Carlo Bestulgi, che lo dotò di protesi in legno. Sembra che Pinocchio Sanchez venne sepolto nel cimitero di San Miniato a Monte, oggi conosciuto come Cimitero delle Porte Sante, di Firenze.
Cinematograficamente parlando, il celebre burattino è stato il fallimento di diversi registi: Francesco Nuti che iniziò la discesa con “OcchioPinocchio”, Steven Spielberg che ereditò da Kubrick il film “A.I. Intelligenza Artificiale” (2001) facendo flop, Benigni con la pessima versione del 2002 subito dopo l’Oscar del 1999 con “La vita è bella”. Poi ci hanno provato Pinocchio3000 e la versione animata di Enzo D’Alò del 2012 con le musiche di Lucio Dalla. Tuttavia le versioni preferite dal pubblico sono il cartone animato Disney del 1940 e il film tv di Comencini del 1972. Garrone quest’anno ha lanciato la sfida. Nel 2021 Guillermo Del Toro (Il labirinto del fauno, La forma dell’acqua) ci proverà con un inedito musical in stop motion made in Netflix. Sarà ambientato nel ventennio fascista. Riusciranno i nostri eroi a sfatare la maledizione? In attesa del regista messicano, il nostro portabandiera ci è riuscito.
Il regista romano Matteo Garrone, 51 anni, ha tratto giovamento dalle esperienze dei film precedenti. Pinocchio sembra una prosecuzione del Racconto dei Racconti con sprazzi di Reality. Il regista ha raccontato del suo legame con il personaggio: «davanti alla mia scrivania ho uno storyboard fatto a 6 anni: è stato forse il mio primo racconto per immagini. Il legame con Pinocchio è iniziato lì ed è continuato per tutta la vita. Nel corso degli anni ho sentito spesso citarlo come riferimento rispetto ad alcuni personaggi dei miei film: è come se lui tornasse nelle mie storie senza nemmeno che io ne sia consapevole».
Era lecito attendersi un Pinocchio contemporaneo e così è stato, ma per la prima volta un film di Garrone avrà il lieto fine. Tuttavia si vede che molti rischi sono stati calcolati, il film sceglie di non rischiare molto a livello di sceneggiatura. Il motivo di ciò è che l’intento era fare un film per tutta la famiglia. Secondo me non lo è (soprattutto la scena in cui Pinocchio e Lucignolo si trasformano in somari non è molto da bambini). Gli manca qualche guizzo per essere un film perfetto. Nonostante la vocazione internazionale del film (prodotto da Rai Cinema e dalla francese Le Pacte), la pellicola è italiana ed è un’opera vecchio stampo dal sapore artigianale. Come il nostro cinema sapeva fare ai tempi di Comencini. È un’opera neorealista che vanta qualche somiglianza con i film di Fellini (non a caso ci sono richiami circensi, tipici del regista di Rimini, ma anche del “Big Fish” di Tim Burton). Garrone ce lo sbatte in faccia ancora una volta ricordandocelo. Come in Dogman, il paesaggio della campagna è un personaggio del film per richiamare, come dice Gervasini su Film Tv, “una certa desolazione materica (quanta terra, quante pietre)”. Mentre le nubi nere stanno arrivando. Un oscuro presagio è in arrivo: ovvero quei due simpaticoni del Gatto e la Volpe (l’allegra brigata Papaleo – Ceccherini, assolutamente perfetti). Oggi due personaggi così li puoi trovare al bar o circolo di provincia in orario da apericena: in tal caso lo “spizzicare” selvaggio (e a sbafo) di Ceccherini e Papaleo è assolutamente perfetto.
Il film è stato girato tra Toscana (bellissima la fotografia della parte girata nelle Crete Senesi), Lazio e Puglia per 11 settimane con un budget complessivo intorno ai 18 milioni di euro. Una cifra importante per il cinema italiano. Anche il cast sembra risentire del doppio binario produttivo: ai nostri Rocco Papaleo, Gigi Proietti, Massimo Ceccherini (già autore e interprete dell’indimenticabile spettacolo cult dialettale “pinocchiesco” con Paci e Monni), Marcello Fonte (il Pappagallo), c’è Marine Vacht (una Fata Turchina gotica e “burtoniana”). Modella francese classe 1991, già musa di Francois Ozon in “Doppio Amore” e “Giovane e bella” (che tratta la storia di un’adolescente borghese che si prostituisce segretamente).
Ma sicuramente il più atteso era sicuramente Roberto Benigni. Il flop di Pinocchio (2002) lo ha rimesso in discussione dopo l’Oscar e dopo ha diretto solo “La tigre e la neve” (2005). Un altro flop che lo costrinse a uscire di scena. Al cinema fece soltanto un breve ruolo in un episodio di “To Rome with love” di Woody Allen (2012), per poi dedicarsi al teatro con Dante e la Divina Commedia. A dir la verità Garrone lo aveva voluto in “Dogman” nella parte che poi andò a Marcello Fonte, ma l’attore toscano rifiutò perché lo riteneva troppo crudo. Tutti gli altri attori sono ampiamente a loro agio, soprattutto Papaleo-Ceccherini (quest’ultimo ha aiutato Garrone alla sceneggiatura per rendere alcune parti più comiche) e Benigni, senza dimenticare il gradito ritorno di Gigi Proietti (Mangiafuoco). Forse è sacrificato un po’ Lucignolo, oltre all’assenza totale di Melampo (da cui Roberto Benigni ha attinto per il nome della sua casa di produzione).
Garrone lo ha fortemente voluto: stavolta il comico toscano sarà Geppetto e qui sicuramente è sicuramente più credibile di quando faceva il burattino (considerate che nell’epoca delle riprese nel 2001 il buon Roberto aveva quasi 50 anni). Ma soprattutto perché Benigni viene da una famiglia contadina quasi nulla tenente di Vergaio (Prato). Quindi conosce perfettamente lo stile di vita e la psiche di Geppetto. Come disse alla notte degli Oscar 1999, “il regalo più grande che i miei genitori mi hanno fatto è stata la povertà. E li voglio ringraziare per tutta la vita” (qui potete vedere l’intervista con Garrone a Che tempo che fa su Rai Due).
Pinocchio stavolta sarà interpretato da Federico Ielapi, 8 anni, che ha già lavorato in Quo Vado, Brave Ragazze e I moschettieri del re. Oltre al ruolo di Cosimo Farina nella fiction Don Matteo. Il suo look è stato affidato al talento del truccatore 2 volte premio Oscar, Mark Coulier (Harry Potter, Grand Budapest Hotel, The Iron lady). Ogni giorno, per 3 mesi, prima di andare sul set il giovane si doveva sottoporre a 4 ore di trucco per diventare quel burattino che voleva diventare un essere umano.
La storia la sapete tutti.
Un povero falegname toscano di nome Geppetto (Benigni) costruisce con le sue mani un burattino capace di parlare e di muoversi esattamente con un bambino qualunque. Un vero miracolo. Geppetto allora tratta il burattino come un figlio. Pinocchio (Ielapi), questo il suo nome, però non sempre obbedisce. Un giorno la Fata Turchina (Marine Vacht) gli fa una promessa: se si comporterà bene, lo trasformerà in un bambino in carne e ossa. Le intenzioni di Pinocchio sono lodevoli, come nella maggioranza degli esseri umani. Ma parole e fatti spesso non coincidono. Sulla sua strada incontrerà tanti volti e poche persone (per dirla alla Pirandello): il burattinaio Mangiafuoco (che bello rivedere il maestro Proietti al cinema), il Gatto e la Volpe (Papaleo – Ceccherini), Lucignolo e il Paese dei Balocchi, la Balena, Mastro Ciliegia, Corvo, Civetta, Pappagallo (Fonte, già protagonista di Dogman di Garrone), Gorilla, Faina, l’omino di burro (spettacolare l’uso della finta dolcezza riscontrabile nell’aspro mondo di oggi) e soprattutto il Tonno (che ha le battute migliori). Ognuno di questi “animali” (a due o quattro zampe non importa) rappresenta un qualcosa riscontrabile nella vita di ogni giorno. Senza dimenticare quel (fastidioso?) Grillo, ovvero la sua coscienza, che gli darà filo da torcere.
Questa versione però ha una componente “anarchica” nonostante sia concepito come un film per tutta la famiglia. Come diceva Rosseau, “lasciate che i ragazzi non imparino niente dai libri, che possano imparare dall’esperienza”. Lo si capisce da come Garrone tratteggia il maestro di Pinocchio. Probabilmente con la scuola che ci si ritrova oggi in Italia forse è meglio la strada come maestra di vita. Sperando che sia il cervello del singolo capace di girare a dovere e di comprendere dove sta andando (cosa molto meno facile e che oggi è drammaticamente attuale anche nell’uso delle parole chiave nel contesto socio-politico). Sempre per il sistema educativo, c’è da sottolineare il disappunto del regista per il sistema giudiziario italiano nella scena in cui Pinocchio va a denunciare il furto degli zecchini d’oro al giudice scimmia. Lo Stato italiano non eleva gli onesti e premia i disonesti.
La componente tecnica del film è eccellente in tutte le sue parti, soprattutto negli effetti visivi, il trucco e la fotografia magica che fonde realismo, fiabesco e onirico. Ogni frame, visivamente parlando, è di per sé un quadro (non a caso Garrone era un pittore prima di diventare regista). Un inno alla vita e alla gioia (senza Beethoven) dove l’immagine è tutto per fini umani(stici).
Un film italianissimo, fatto con volti tipici del nostro cinema, con artigianalità italiana, con colori e i luoghi tipici della nostra terra. Non lo dite alla Meloni sennò parte il solito ritornello della rete. Il cuore dello spettatore facilmente si scalderà. Mi sono sentito a casa. Chi vedrà un film del genere lontano dall’Italia sentirà profonda nostalgia di casa.
Un applauso a Matteo Garrone e al suo staff che meritano più di un elogio. Questo film ci riporta in un’Italia povera, rurale e preindustriale. Il più importante pregio però è quello di farci capire che noi italiani non abbiamo nulla da invidiare agli altri. Alla massa questo film probabilmente non entusiasmerà, soprattutto perché la storia la conosciamo quasi tutti.
Ma questo poteva essere un bene per concentrarsi sui tanti dettagli del film che molti non vedranno. Una parte fra chi considera questo film freddo e insipido, sicuramente vorrà “nascondersi” per non mostrare quanto Pinocchio sia sempre attualissimo. Si può notare come il Paese dei Balocchi somigli sempre di più a quello Stivale rovinato e logorato chiamato Italia (vedi qui). Mentre noi italiani siamo sempre più somari. Ma molti ancora non lo sanno o fanno finta di non saperlo.
Essere o non essere, questo è il problema.
FONTI: Cinematografo, Cinematographe, Mymovies, Comingsoon
Regia **** Interpretazioni **** Sceneggiatura ***1/2 Fotografia *****
PINOCCHIO ****
(Italia, Francia 2019)
Genere: Avventura, Fantasy
Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura: Matteo Garrone (in collaborazione con Ugo Chiti e Massimo Ceccherini)
Fotografia: Nicolaj Bruel
Cast: Federico Ielapi, Roberto Benigni, Rocco Papaleo, Massimo Ceccherini, Gigi Proietti, Marine Vacht, Marcello Fonte, Alessio Di Domenicantonio, Sergio Forconi
Durata: 2 ore e 5 minuti
Musiche: Dario Marianelli
Scenografie: Dmitri Capuani
Montaggio: Marco Spoletini
Costumi: Massimo Cantini Parrini
Trucco: Mark Coulieri
Distribuzione: 01 Distribution
Produzione: Archimede, Le Pacte, Rai Cinema
Uscita: 19 dicembre 2019
Trailer Italiano qui
Intervista a Matteo Garrone, Roberto Benigni e Federico Ielapi qui
Intervista a Massimo Ceccherini, Gigi Proietti e Rocco Papaleo qui
Budget: 18 milioni di euro
La frase: Per uno nato tonno, è meglio morire sott’acqua che finire sott’olio
Immagine da www.panorama.it
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.