“I fatti sono sacri“, così apre il The Guardian in un suo articolo riepilogativo sull’esito delle elezioni del Regno Unito di fine 2019. La vittoria di Boris Johnson è stata indiscutibile. Un successo per Boris Johnson e per il Partito Conservatore, che sale a 356 eletti (con un aumento di + 66). La Brexit ha di fatto dominato questo appuntamento elettorale, orientando l’espressione di voto in modo significativo. Il Labour ha perso 42 seggi, scendendo a quota 203, di fronte a una maggioranza della destra che da tempo non si vedeva nel Paese (il precedente è quello della Thatcher nel 1987). I liberali si fermano a 11 seggi, mentre i Verdi ne acquistano 1, con una buona affermazione del Partito Nazionale Scozzese (alla voce “altri” vanno individuati i 22 seggi che completano il quadro). Le questioni irlandese e scozzese pare siano destinate a riaccendersi in modo significativo mentre in larga parte della sinistra occidentale il dibattito si sta concentrando su un giudizio in merito alle scelte di Corbyn e al ruolo giocato dall’Unione Europea in numerosi contesti elettorali. Di questo scriviamo nell’appuntamento di questa settimana della nostra rubrica a dieci mani.
Leonardo Croatto
“I fatti sono sacri” è un bel titolo, peccato che non abbia alcun senso. Non sono i fatti a determinare la percezione della realtà: gli stessi fatti possono essere raccontati in modi diversi e ogni racconto verrà recepito in maniera diversa a seconda di chi lo ascolta, sulle informazioni che ognuno riceve viene applicato un filtro che lo porterà a trarre conclusioni del tutto soggettive. Con buona pace del povero Leibniz i dati nudi non raccontano una sola verità, ma verità diverse a seconda degli strumenti interpretativi e dei bias cognitivi di chi li legge.
Come si è visto in questi giorni, delle elezioni inglesi è stato detto e scritto di tutto, ed ogni lettura dei dati proposta in realtà racconta (spesso in maniera piuttosto evidente) solo il punto di vista assolutamente parziale del commentatore. Coi dati delle ultime elezioni inglesi si può costruire una rappresentazione catastrofica (basandosi solo sul numero dei seggi), una sostanziale tenuta (facendo il confronto sulla numerosità dei voti rispetto al passato), un successo politico che per incidente non si è trasferito sul piano elettorale (il sostanziale spostamento a sinistra di tutto il dibattito politico inglese, Tory inclusi), un grande investimento per il futuro (la percentuale incredibile di giovanissimi che ha votato Labour rispetto a una massa di vecchi tromboni che hanno votato conservatore) e via giocando coi numeri.
Se c’è una lezione che si può trarre da queste elezioni, forse più di altre, è proprio che la potenza delle narrazioni governa l’immaginario collettivo e conduce le azioni più di qualsiasi inesistente – per quanto spesso invocato, specialmente da sinistra – elemento di razionalità.
Ho il sospetto che diversi Laburisti questa cosa ce l’avessero più che chiara: è evidente dal programma del partito e dalla campagna elettorale che il Labour ha fatto un disperato tentativo per spostare il focus di queste elezioni dall’uscita dall’Europa alle conquiste sociali, ma la potenza del “racconto” brexit ha soffocato qualsiasi altro discorso pubblico, ed evidentemente ha guidato con molta più forza le scelte degli elettori. Anche territori assolutamente rossi e popolari hanno votato per il partito dei ricchi pur di ottenere l’uscita dall’Europa, evento a cui metà degli inglesi (con una prevalenza di quelli più poveri) hanno associato una qualche potentissima virtù catartica capace di dare una svolta alle loro vite. Varrebbe la pena, senza superficialità e evitanto risposte banali, interrogarsi su quale incredibile forza possegga quel dispositivo che ha portato così tanta gente a fare una scelta così manifestamente irrazionale, quale potenza esprimono certi racconti se possono spingere le persone a commettere quello che può essere considerato l’equivalente politico di un suicidio di massa.
Poi, assunto che tutto questo potere viene dispiegato oramai solamente a destra, la riflessione che dovrebbe fare la sinistra, e non solo nel Regno Unito, è: per quale motivo i nostri racconti non sono ugualmente convincenti? quale percorso di affrancamento offriamo alla nostra gente? di quale racconto di liberazione li facciamo protagonisti? perché le classi popolari si affidano a chi offre come via di riscatto la violenza contro gli ultimi e non a chi offre un percorso di liberazione collettiva? abbiamo forse smesso di offrire un sol dell’avvenire per cui valga la pena lottare?
Piergiorgio Desantis
Le elezioni in UK si sono svolte su un unico tema dominante per la Gran Bretagna stessa, ovvero la conferma della Brexit, referendum già svoltosi il 26 giugno del 2016. A distanza di oltre tre anni, il percorso di uscita non era ben definito, anzi, da alcuni veniva messo in discussione. Il risultato delle elezioni ha messo fine a questo lungo dibattito e ha confermato ciò che era già stato deciso precedentemente. Boris Johnson ha incarnato perfettamente la volontà della maggioranza del popolo inglese, soprattutto del Nord, che, anche nei tradizionali bastioni laburisti, voleva sganciarsi da questo tipo di UE. La ragioni di conflittualità sono molteplici e sembrano per lo più, purtroppo, come risposte che percorrono un’uscita da destra o, quantomeno, egemonizzata dalla destra. Il collegamento con la destra trumpiana, infatti, è fin troppo evidente per negarlo, anche perché si fonda su pulsioni assai affini e autenticamente legate a quel mondo.
Si evolve la collocazione geopolitica dell’UK che, pur contenendo il nodo Scozia, depotenzia il progetto UE, che già era in palese difficoltà. La sinistra laburista vive una cocente sconfitta, ma, nonostante ciò, il 32% è uno dei migliori risultati a sinistra che si sono visti in UE negli ultimi anni. Jeremy Corbyn ha incarnato quello che è storicamente sempre stato il Labour: il partito del lavoro e dei lavoratori. Tuttavia, va presa coscienza che quel mondo cui si rivolgeva (già massacrato e desertificato dalle pruriennali cure Thatcher, ma soprattutto Blair), si è legato, già da tempo, al conservatorismo inglese della difesa dell’esistente. Corbyn, dopo aver comunicato l’intenzione di non ripresentarsi, ha avviato una riflessione dentro il partito, necessaria e di sostanza. Le ricette neokeynesiane non hanno smosso un elettorato popolare che, ormai da anni, è egemonizzato dalle paure e dalle istanze sociali e economiche delle destre europee e non solo. Su questo punto un’analisi va condotta fino in fondo, oltre che sulle modalità comunicative che restano il contorno, soprattutto sul nocciolo del problema ovvero il tipo di modello di sviluppo che, necessariamente, si collega alle sempre più estreme diseguaglianze e ai nuovi conflitti che si stanno originando nell’Europa stessa. All’esperienza di Corbyn e del suo gruppo dirigente, per il quale si sprigiona un sentimento di affetto e legame di una parte rilevante del popolo della sinistra (che, soprattutto, tra i giovani conquista una maggioranza di adesioni), va dato il merito di aver ripreso a tessere i fili della critica dell’esistente e di aver rotto il dogma del TINA (there is no alternative). Oltre il capitale c’è vita.
Dmitrij Palagi
La storia della sinistra inglese (discorso diverso andrebbe fatto per quella irlandese, per quella scozzese, per quella gallese…) è diversa dal resto di quella del vecchio continente. Così come il rapporto tra Regno Unito e Unione Europea non può essere associato ad altri Paesi. Leggere l’esito elettorale come una sorta di referendum sulla sinistra storica, rispetto alla impostazione “nuova” del centrosinistra che ha governato la globalizzazione all’inizio del nuovo millennio è un errore imbarazzante. Il crollo del Muro di Berlino è davvero solo un ricordo, mentre le macerie su cui ci muoviamo riguardano proprio l’illusione di un’encomia finanziaria capace di esportare ricchezza e unire tutto il mondo.
In merito all’ipotesi di lettura che vorrebbe Corbyn schiacciato da una polarizzazione sulla Brexit, con un tentativo fallito di spostare la discussione su altri temi, si potrebbe far presente che il 32% è un’ottima base di partenza per provare nel futuro a consolidare una visione distinta da quella del sistema di informazione nazionale. In un contesto ostile bisogna scegliere quale strategia scegliere; quella che si mimetizza e prova a modificare le cose a piccoli pezzi (sempre se non si dimentica di muoversi e non finisce immobile/subalterna) o quella che smuove le acque in modo significativo. Nel secondo caso l’azione deve prolungarsi in modo progettuale e sul medio-lungo periodo, senza perdere di vista la tattica e il consenso immediato, ma anche provando a sopravvivere a qualche singola battaglia persa. Certo è che la seconda linea di azione non appartiene al centrosinistra e al Labour da molto tempo. Le novità si vedranno quando i “giovani” Corbyn e Sanders avranno lasciato spazio a eventuali nuovi protagonisti. Il mondo comunque è in mutamento, la stessa vittoria dei conservatori in chiave Brexit lo attesta.
Jacopo Vannucchi
A prima vista il risultato elettorale del 2019 appare diversissimo da quello del giugno 2017. All’epoca il Labour toccò il 40% e riuscì a negare la maggioranza assoluta ai conservatori di Theresa May. In realtà, le elezioni di giovedì scorso non sono altro che la prosecuzione di un andamento già presente due anni e mezzo fa.
Nel 2017, infatti, il Labour toccò la massima punta di consenso tra i ceti borghesi dall’inizio di tali rilevazioni nel 1979, mentre di converso i Conservatori ottennero il risultato migliore dal ’79 tra le classi inferiori (leggi qui).
Il Labour era riuscito allora a mobilitare elettori che in precedenza non avevano votato. Dettero la loro preferenza al partito di Corbyn il 60% degli astenuti alle politiche 2015 e il 66% degli astenuti al referendum del 2016. Questo fatto riuscì a mascherare alcuni segnali di allarme già presenti.
Primo: nella classe di età 18-34 anni il Labour si situava sopra il 50% in tutte le fasce sociali. L’affluenza dei giovani proletari era però ampiamente inferiore, tanto che sulla base degli aventi diritto i laburisti erano insediati più tra i ceti alti.
Secondo: nella classe di età sopra i 65 anni il Labour era minoranza anche nelle classi deboli, il che significa che era minoranza nel movimento operaio che aveva condotto lo sciopero dei minatori del 1984-85.
Rispetto alle precedenti elezioni del 2015 (leggi qui) il divario Conservatori-Labour si accorciava di 9 punti nella borghesia medio-alta e di 8 punti nella medio-piccola, ma aumentava di 4 punti tra gli operai qualificati e di 5 punti tra i lavoratori non specializzati e i disoccupati.
A rendere ancora più simbolica la sconfitta del Labour, il fatto che i collegi perduti siano situati in larga maggioranza in zone ex industriali o minerarie, in seggi in gran parte “rossi” dalle elezioni del 1935 (in alcuni casi, dal 1922 o dal 1918), e per giunta quando per la prima volta da quasi quarant’anni alla guida del partito c’era un esponente dell’ala sinistra storicamente legata ai sindacati e al movimento operaio.
A ben vedere, questo non è niente di nuovo rispetto a quanto accaduto non solo alle elezioni del 2017, non solo alle presidenziali Usa del 2016 (il loro programma era considerato il più a sinistra nella storia: leggi qui), ma già alle mid-term Usa del 2010: la classe operaia desiderosa dell’intervento economico statale ma conservatrice sul piano culturale volta le spalle alla sinistra. E già alle elezioni britanniche di maggio 2010 la più illustre vittima di giovedì, Dennis Skinner, era calato a Bolsover al 50%, con un preoccupante aumento dello Ukip e del neofascista Bnp.
Le condanne postume hanno la medesima utilità dei facili entusiasmi. Ciò su cui mi auguro si possa riflettere, con l’esempio-limite di Corbyn che perde seggi secolari, è che non basta avere un programma di sinistra rivolto ai ceti deboli: bisogna anche che i ceti deboli riescano ad apprezzarlo.
Alessandro Zabban
Quelle britanniche non erano elezioni qualsiasi, e quello del Labour non è un semplice scivolone elettorale. Segna il fallimento di un’opportunità che per la sinistra potrebbe non ripresentarsi tanto a breve. Nello stato attuale delle cose, Jeremy Corbyn non era un moderato. Il suo programma era, in questa congiuntura storica dominata dal neoliberismo e dal sovranismo, abbastanza radicale da provocare uno spostamento semantico delle categorie politiche che hanno segnato la Gran Bretagna dalla Thatcher in poi. E il suo progetto rappresentava una chiara rottura con il blairismo e con la sua attrazione fatale nei confronti della globalizzazione liberista. Corbyn ha saputo ridare vigore a un Labour in grande crisi riuscendo a catalizzare in maniera significativa il voto dei giovani. Ma la sua sconfitta, meno netta di quanto si potrebbe pensare limitandosi a contare i seggi assegnati, riapre le porte a una sinistra reazionaria e affarista e a tutto il suo apparto mediatico che sta già facendo sentire la sua voce. Si accusa Corbyn di aver perso per aver proposto ricette anacronistiche tacendo il fatto che quelle idee abbiano avuto un successo enorme fra la popolazione più giovane. Si vorrebbe invece riproporre una sinistra neoliberista di matrice blairiana come se questa non avesse giù fallito e anzi abbia contribuito significativamente ad alimentare l’astio e il malcontento che stanno dietro la Brexit.
Delegittimare Corbyn significa delegittimare ancora una volta i tentativi di costruire un’alternativa al neoliberismo e significa gettare ulteriore benzina sul fuoco del sovranismo. La Brexit quantomeno rimescolerà le carte, togliendo molte certezze sul futuro delle dinamiche politiche britanniche ma è evidente che una separazione dall’Unione Europea egemonizzata da destra potrebbe rivelarsi tutt’altro che una buona notizia anche per chi vede nell’Europa un ostacolo oggettivo all’affermazione dei valori della sinistra. Nel breve e nel medio periodo, la sconfitta di Corbyn rischia così di diventare il pretesto per delegittimare ogni progetto di riformismo radicale (come anche quello di Bernie Sanders) e riproporre le ricette liberiste di “sinistra” che hanno stravolto le società occidentali.
Immagine da www.wikipedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.