Argomento divisivo quello della musica degli anni Dieci. Cosa ci ha detto questo decennio musicale? Quali sono i dischi da tramandare ai posteri? Rispondere ora in maniera esaustiva a queste domande appare un’operazione eccessivamente ambiziosa, così come provare a fare dei confronti e delle generalizzazioni. C’è però la percezione diffusa che questa decade abbia complessivamente prodotto risultati qualitativamente inferiori alle precedenti.
I critici musicali più vicini ai cultural studies, legando il discorso della musica pop al contesto sociale e culturale contemporaneo, hanno messo in evidenza la cronica e generale difficoltà a innovare e inventare nuovi stili e generi, notando come il panorama musicale sia caratterizzato da un atteggiamento “retromaniacale” in cui si tende più a guardare indietro piuttosto che avanti (Simon Reynolds) o infestato dall’idea dello scarto, dall’impossibilità di movimento e di poter esprimere qualcosa di significativo (Mark Fisher). Un panorama musicale atrofizzato dunque, dove a dominare le classifiche dei migliori dischi del decennio sono lavori facilmente inquadrabili in generi musicali con una tradizione ben consolidata. Ma questo non significa che non siano stati realizzati lavori di qualità e destinati a influenzare la musica dei prossimi anni.
Del resto, gli anni Dieci
sono stati anche quelli che hanno visto il consolidarsi
di un atteggiamento cosiddetto poptimista
che ha profondamente influenzato il modo con cui la critica ha
guardato la musica, finendo a sua volta per influenzare quest’ultima
e il pubblico. L’approccio poptimista si muove su varie coordinate
che globalmente definiscono una rivoluzione dalle implicazioni
culturali indubbiamente profonde che partono da un atteggiamento di
sostanziale rivalutazione nei confronti
del pop e della musica più disimpegnata
per quello che ha da offrire e per la funzione che essa svolge.
Questa ritrovata fiducia allo stesso tempo postmoderna e
“positivista” ha avuto delle ricadute decisive nell’accantonare
definitivamente ogni presunta gerarchia fra generi musicali e nel
dare dignità a nicchie musicali prima ignorate o disprezzate (come
la disco music). L’idea che la musica
vada giudicata in quanto tale e non in base al genere nel quale è
catalogata ha rappresentato un
atteggiamento che ha aiutato a marginalizzare quasi definitivamente
certi stereotipi sciocchi e retrogradi (come ad esempio l’assurda
convinzione che la musica suonata con una chitarra sia superiore e
più “umana” di quella prodotta con un sintetizzatore).
Se
al poptimismo va dunque riconosciuto il merito di aver rotto con le
categorie tradizionali come quella fra musica alta e musica
commerciale, non dobbiamo ignorare le sue preoccupanti derive.
Ponendosi infatti in modo polemico rispetto all’immaginario rock e
alla sua pretesa di superiorità, una parte della cultura poptimista
ha finito per reificare la categoria di “rockismo”, associandola
a una cultura retrograda, conservatrice e dominata da “uomini
bianchi eterosessuali”. Un poptimismo
interpretato da taluni in questa maniera ha sviluppato la tendenza a
marginalizzare la musica rock tout court
e a celebrare per reazione gli aspetti più pacchiani e nauseabondi
della cultura pop commerciale,
alimentando una dicotomia, quella fra poptimismo e rockismo, non meno
stereotipata delle distinzioni e categorizzazioni che i poptimisti
vorrebbero abolire.
Le classifiche dei migliori dischi degli anni
Dieci che le
principali riviste specializzate statunitensi hanno stilato (vedi
tabella in fondo all’articolo) risentono di questa influenza e degli
aspetti sia negativi che positivi del poptimismo. Bisogna innanzi
tutto constatare che nella top 100
di quasi tutte le più importanti riviste (abbiamo preso in
considerazione Pitchfork,
Paste, Vice, Rolling Stone e Stereogum)
vi sia una diversità musicale
ricchissima che abbraccia una notevole
varietà di generi e stili.
D’altro canto non si può non
notare una sovrarappresentazione di dischi pop e R&B dal grande
successo commerciale ma qualitativamente non sempre del tutto
all’altezza. Convincono ad esempio davvero poco, a mio modesto
avviso, le lodi eccessive tributate a delle popstar come Beyoncé
che su Beyoncé
(3° posto per Pitchfork) e Lemonade
(2° posto per Paste e Rolling Stone) propone un R&B finalmente
ricercato e maturo ma non particolarmente creativo, oppure a Drake,
il cui Take Care (13°
posto per Pitchfork, 6° per Rolling Stone), al di là di una
produzione magistrale e di qualche base azzeccata, non ha poi molto
da offrire ad un ascoltatore esigente. Fa poi sorridere la presenza
in una classifica così potenzialmente competitiva anche di due
dischi di Taylor
Swift (Uno dei due, Red,
addirittura 4° per Rolling Stone e 10° per Stereogum). E qualcuno è
arrivato persino a inserire dischi di Adele e Justin Bieber.
Appare sempre esagerato ma già molto più accettabile il favore della critica per altri tre celebri artisti. Il primo è Frank Ocean che ha portato la sua commistione di soul, R&B e pop su livelli di una certa sofisticazione su Channel ORANGE (5° posto per Paste) e Blonde (disco del decennio per Pitchfork, al terzo posto su Vice) dimostrandosi un valente architetto di melodie pregiate e basi suadenti. La seconda non ha bisogno di presentazioni: Rihanna, ripudiati i suoi trascorsi da macchina sforna-singoloni dozzinali, si scopre valida compositrice su Anti (7° per Vice, 12° per Pitchfork), disco scuro e ricercato, scandito da texture densi e bassi potenti sui quali si innalzano i suoi vocalizzi stralunati. Il terzo nome è quello di Solange, sorella di Beyoncé, il cui intimistico A Seat at the Table (2016) è un delicato, sognante e malinconico neo-soul. Il primo posto di Vice e il sesto di Pitchfork appaiono comunque decisamente esagerati.
Parzialmente affini a questi artisti, con cui
hanno spesso collaborato, anche i musicisti del mondo propriamente
hip hop
hanno ottenuto un notevole successo di critica, oltre che
commerciale. Non è un caso che due rapper come Kanye
West e Kendrick Lamar siano risultati complessivamente quelli più
apprezzati nelle classifiche delle riviste specializzate. In questo
caso non si può parlare di un abbaglio. Anche se si può storcere il
naso di fronte all’eccessiva veemenza con cui troppo spesso vengono
elogiati questi due artisti, bisogna riconoscere che hanno avuto il
merito di rinnovare profondamente l’hip
hop, allargandone a dismisura i
confini, seppure in modo piuttosto diverso.
Kanye
West sulla maestosa hip-hopera
di My Beautiful Dark Twisted Fantasy
(2010)crea sonorità strabordanti, pompose,
densissime e travolgenti in un perenne e affascinante equilibrio fra
lo scabroso e il sublime, l’esaltato e il disperato. Attorniato da
una miriade di collaboratori (fra cui Bon Iver e Rihanna), West
diventa registra magistrale di una serie di sinfonie hip hop ricche
di soluzioni spiazzanti, stratificazioni ardite e arrangiamenti da
capogiro per un’orgia di suoni che spaziano dal jazz al soul,
passando per il folk e la psichedelia ma che restano di una
immediatezza quasi brutale. Disco del decennio per Rolling Stone,
secondo posto su Pitchfork e quarto posto nella classifica redatta da
Paste e Stereogum. Molto apprezzato anche il più debole ma comunque
interessante Yeezus
del 2013 (secondo per Stereogum).
Ma l’album che ha
complessivamente riscosso maggior successo è To
Pimp a Butterfly (2015) di Kendrick
Lamar, nella
top ten di
tutte le riviste ed eletto miglior disco degli anni zero da Stereogum
e Paste. Si tratta forse non di un capolavoro ma di un pregevole
compendio di tutto ciò che è e può diventare l’hip hop: dall’R&B
anni novanta, all’avant jazz, passando per il rap di protesta, il
soul e i cori gospel. Il tutto declamato con furore da invasato. Dopo
le lucide invettive del cupo Good Kid,
M.A.A.D City (presente anch’esso
nelle posizioni alte della classifica di tutte le riviste prese in
esame) contro il degrado e i problemi sociali della sua Compton,
Lamar ripulisce il suo stile senza perdere in potenza espressiva e
universalizza la sua critica politica, riattualizzando il lato
conscious
e impegnato dell’hip hop. Lamar mette a segno la sua tripletta di
presenze nelle charts anche col successivo e meno ispirato Damn
(2017).
C’è da dire che l’entusiasmo sfrenato per West e Lamar riguarda in primo luogo la critica musicale statunitense. All’interno della rivalità storica nella popular music fra Gran Bretagna e Stati Uniti infatti la tendenza è quella di esaltare i propri campioni nazionali. Così, il britannico New Musical Express si discosta dal plebiscito delle riviste americane nei confronti di questi due artisti. Eppure si avverte una certa tendenza a una graduale uniformazione, con il baricentro sempre più spostato verso il Nord America come dimostrano il terzo posto per Yeezus e il quinto per GoodKid, M.A.A.D City nella classifica dello stesso NME. Anche Rate Your Music, che come suggerisce il nome è una comunità di appassionati dove le classifiche sono il risultato della media ponderata dei voti di semplici utenti iscritti al sito, ed ha un profilo internazionale, premia in maniera pronunciata artisti come Lamar, Ocean o West.
Comunque, quello che appare abbastanza chiaro è che la scena musicale britannica si trovi a inseguire. E non stupisce più la poca attenzione che la critica statunitense rivolge alla musica britannica. Molto snobbata è ad esempio la ricca scena indie locale: almeno l’esordio dei Vaccines e un disco come Luminous dei sottovalutatissimi Horrors meritavano decisamente più riconoscimento. Ma il caso più eclatante è forse quello degli Arctic Monkeys il cui AM è disco del decennio per NME ma non rientra in praticamente nessuna rivista americana (in realtà entrambi gli estremi appaiono poco condivisibili). Chi invece riesce a farsi ben volere anche negli USA sono soprattutto gli artisti o i gruppi che si sono già ritagliati nel passato uno status di vere e proprie leggende. Stiamo parlando di David Bowie e del suo bellissimo commiato, Blackstar (5° posto per Rolling Stone) e in misura minore del positivo ritorno dei Radiohead con A Moon Shaped Pool.
In ambito britannico, mi limito a segnalare anche la poca attenzione rivolta a quelli che sono a mio avviso due dei migliori dischi dello scorso decennio: il disco eponimo di James Blake, irrequieto gioiello post dubstep, e Immunity di John Hopkins, meravigliosa odissea ambient techno.
Tornando all’indie, lo scarso riconoscimento che ha avuto in questo decennio riguarda anche gli Stati Uniti stessi. La crisi del genere si può toccare con mano, rispetto ai fasti degli anni Novanta e primi anni Duemila, ma il sottobosco a stelle e strisce continua a generare cose davvero interessanti. Almeno due giovani artisti che hanno avuto il merito di interpretare in maniera molto personale e originale le lezioni dei maestri, senza peraltro nascondere la propria ambizione, come Car Seat Headrest (il suo Twin Fantasy è un lo-fi da cameretta che si erge ad epopea di una generazione tormentata) o Mitsky (che sul febbrile e sanguigno Puberty 2 propone un indie cantautore variegato ma coerente, dalla forza espressiva dirompente), non hanno ricevuto il trattamento che meritavano. Persino St. Vincent il cui stile eclettico e schizofrenico ha sempre avuto il plauso della critica, è stata piuttosto ignorata dalle classifiche, sebbene il suo album eponimo, improntato a una wave eccentrica e pregiata, sia di indubbio valore.
A essere premiato è stato invece l’indie/mainstream pop dei sempre piacevoli Vampire Weekend (il loro Modern Vampires of The CIty è addirittura settimo per Pitchfork e all’ 11° posto su Paste) e lo slacker rock sghembo e sbarazzino dell’australiana Courtney Barnett (il magnetico Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit ottiene il 6° posto su Paste). Due dischi validi ma resta l’impressione che si potessero fare delle scelte migliori.
Nessuna obiezione invece sull’inserimento di The Suburbs, comunque in posizioni abbastanza defilate, dei mostri sacri Arcade Fire (2010). Non è il loro miglior disco (i primi due sono forse inarrivabili) ma è il loro lavoro più ambizioso ed eterogeneo, un caleidoscopio di suoni in cui sprofondare e perdersi.
La sorte del rock più propriamente alternativo non è dissimile. Nonostante un certo revival di suoni psichedelici, noise e hardcore soprattutto nell’ultima parte di questa decade, nelle classifiche non appare praticamente nulla. Stupisce la mancanza persino degli Swans che anche in questa decade hanno prodotto cose decisamente interessanti rimettendo al centro le loro proverbiali atmosfere funeree e ossessive a partire da metalliche basi industrial, post punk e gothic rock (The Seer, To Be Kind e The Glowing Man sono tutti e tre album di valore, giustamente premiati dalla comunità di Rate Your Music).
Trova invece un po’ di spazio il synth pop, tanto
nella sua componente più arty, dark e indie, interpretata dalla
canadese Grimes
(ci sentiamo di condividere le lodi tanto per il fascinoso e
spettrale Visions
che per il suo successore più upbeat, Art
Angels, addirittura al 3° posto nella
classifica di Stereogum),
che in quella più robotica e
martellante dove si impone la svedese Robyn
con l’interessante e ambizioso doppio Body
Talk (2010) che si colloca
stilisticamente fra i connazionali Knife e il britannici Ladytron
(per lei piazzamenti in tutte le riviste dall’8° al 23° posto).
Sul versante della disco, troneggiano gli inni da dancefloor
presenti su This is Happening
degli LCD
Soundsystem, un album che però,
a parare di chi scrive, al di là di alcuni pezzi travolgenti, perde
un po’ della verve e della compattezza che aveva l’esordio Sound
of Silver. Per Paste è addirittura
terzo miglior disco del decennio e anche le altre riviste lo tengono
in alta considerazione.
Se, come abbiamo visto, i critici statunitensi non si sono risparmiati quando si è trattato di inserire album di autentiche pop star nelle loro classifiche del decennio, hanno dimostrato di apprezzare anche il pop, sempre molto orecchiabile, ma meno canonico e più obliquo di due quasi-outsider dell’industria radiofonica. Una è la diva anti-diva Lana del Rey celebre per le sue ballate noir e sognanti che sul pregevole Norman Fucking Rockwell! degenerano in narcolessia e indolenza pura sullo sfondo di un sogno americano in polvere. Per quello che è uno dei migliori dischi del 2019, arriva come miglior piazzamento il 19° posto di Pitchfork.
Diversa invece la storia di Carly Rae Jepsen che ha un approccio decisamente più pulito al pop, come dimostra la hit Call Me Maybe. Ma questa ragazza canadese su Emotion ha fatto vedere le sue reali ambizioni artistiche, lavorando minuziosamente sugli arrangiamenti e sui testi, per mettere insieme una raccolta di canzoni pop intelligenti e personali senza perdere niente in termini di freschezza. Per questo grazioso gioiellino pop Paste e Sterogum arrivano addirittura a inserirla nella loro top ten. Sul versante del pop più propriamente cantautorale, si è imposta Fiona Apple con i mantra scarni e destrutturati del solidissimo The Idler Wheel… (5° posto per Pitchfork e posizioni di prestigio su tutte le altre).
Molte però le proposte musicali che meritavano più riconoscimento. Un nome su tutti è quello di Julia Holter, una delle compositrici più talentuose di questa generazione, che almeno per il suo capolavoro Have You in My Wilderness meritava ben più di qualche citazione estemporanea.
Infine, quel grande microcosmo rappresentato dal
folk e dal
country,
il cuore pulsante della tradizione americana, nelle sue infinite
peripezie e contaminazioni ha prodotto diversi dischi finiti nelle
classifiche delle riviste specializzate. C’è innanzitutto quel
gioiello scarno e dolente di Carrie
& Lowell (2015) a
firma Sufjan
Stevens che meritava forse anche
di più delle posizioni dalla 16 al 31° che gli sono state
tributate. E c’è anche l’altro grande nome del folk
statunitense, Bon
Iver col suo Bon
Iver, Bon Iver, disco affascinante e
ambizioso, dagli arrangiamenti complessi e ricco di sonorità
avvolgenti, ma che non regge il confronto col suo capolavoro For
Emma, Forever Ego (uno dei migliori
dischi folk degli anni zero). C’è poi qualche meritata comparsa
per Mount
Eerie che riesce a superare
persino Stevens in dolenza e intimismo nel doloroso e intenso A
Crow Looked a Me.
Anche in questo
caso, molti i nomi poco considerati ma che meritano di essere
ricordati. Benji di
Sun Kil Moon e Helplessness Blues dei
Fleet Floxes tanto per restare negli States, e fra gli europei,
almeno Queen of Denmark
di John Grant, Wild Hunt
di Tallest Man on Earth e Once I was an
Eagle di Laura Marling.
La critica musicale americana fotografa un
decennio pieno di musica valida, ma forse senza troppi picchi
creativi. È possibile che fra dieci
anni queste classifiche verranno riscritte completamente, via via che
dall’anonimato si afferma tardivamente qualche disco di nicchia
pronto a ritagliarsi un posto di culto. Sono stati inseriti anche
molti dischi che difficilmente avranno una grande importanza storica
negli anni a venire, segno di una critica
musicale spesso troppo accondiscendente nei confronti delle grandi
star.
La presenza di molti dischi
hip hop e R&B
però non significa necessariamente una resa nei confronti delle
sonorità più modaiole. Questi generi stanno avendo un impatto
enorme sia socialmente che culturalmente sulle nuove generazioni e
stanno mostrando anche modalità più cooperative e collaborative di
concepire e produrre musica. L’innovazione che si è avuta in questi
generi è forse la novità più importante di questo decennio.
Una delle grandi promesse del poptimismo era quella di liberare la critica musicale dalle sue barriere formali. Uno dei fallimenti più clamorosi è stato quello di rinunciare a dotarsi di un respiro maggiormente internazionale. Quasi tutti i dischi presi in esame vengono dal mondo anglosassone (la maggior parte dagli Stati Uniti; seguono Gran Bretagna, Canada e Australia). Senza nulla toglie alla centralità di questi paesi nell’ambito della popular music, ormai la musica popolare è sempre più globalizzata. Non solo in Europa continentale o in Giappone si fanno molti dischi decisamente superiori ad alcuni di quelli finiti nelle classifiche americane ma, in ogni angolo del mondo, si ascolta, nel bene e nel male, musica sempre più intellegibile e comprensibile a un orecchio occidentale. Solo per fare due esempi neanche troppo distanti, Turchia e Corea del Sud hanno sviluppato negli ultimi anni scene musicali sorprendentemente interessanti. Cosa aspettiamo a prenderle in considerazione un po’ di più?
In questo decennio la musica ha parlato molto poco e in maniera inefficace di politica. Ha prevalso la vuota retorica o un atteggiamento di privatizzazione e di interiorizzazione del disagio. Ma la miseria sociale di questo ordine economico decadente sta riportando in auge, soprattutto nella musica black, una ritrovata coscienza e una critica sociale che sembra fare sempre più breccia, almeno fra i più giovani. Che il prossimo decennio sia quello di una ripoliticizzazione della musica?
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.