Proprio mentre stiamo per entrare negli ultimi due mesi di pre-voto (aprirà le danze il caucus dell’Iowa il 3 febbraio) le primarie democratiche hanno registrato ultimamente due o tre colpi di scena.
In primo luogo il tardivo ingresso in campo di due nuovi candidati: Michael Bloomberg, che ha così smentito la propria rinuncia alla candidatura (dichiarata il 5 marzo scorso), e l’ex Governatore del Massachusetts Deval Patrick.
Poi, forse più importante, una nuova ascesa di Pete Buttigieg che si trova ora in prima posizione nelle intenzioni di voto dei primi due stati che voteranno, Iowa[1] e New Hampshire[2].
Smottamenti e increspature sono fenomeni più che normali in un sistema elettorale storicamente aperto e fluido quale quello delle primarie Usa. Nella presente fase, tuttavia, le novità sono sintomo di preoccupazione e di agitazione, o, in alcuni casi, ne sono la causa.
I due fatti richiamati in apertura – un aumento dei consensi per Buttigieg e le candidature di Bloomberg e Patrick – sono infatti collegati: una parte dell’establishment democratico (compresi i finanziatori) non ritiene che il partito sia sulla strada per scegliere il candidato giusto in grado di battere Trump.
L’attuale sistema delle primarie è in vigore, con le medesime regole generali tuttora in uso, dal 1972. Ci sono quindi dodici precedenti storici a cui poter fare riferimento per cercare un confronto con il momento attuale e una chiave per interpretarlo.
Anzitutto, i candidati democratici sono arrivati a toccare complessivamente il numero record di ventinove[3] e storicamente a più alti numeri di candidati corrisponde un vincitore eletto con minor voti e, soprattutto, inviso alla dirigenza del partito (un caso noto recente: Donald Trump alle primarie repubblicane del 2016).[4] Sebbene gli elettori democratici mostrino una soddisfazione record per la qualità dei candidati in corsa[5], le élite temono i punti deboli di ciascuno dei possibili vincitori:
Joe Biden è troppo anziano (classe 1942);
Bernie Sanders è troppo anziano (classe 1941) e troppo a sinistra;
Elizabeth Warren è troppo a sinistra, e c’è il timore che come nel 2016 gli americani non intendano eleggere Presidente una donna;
Pete Buttigieg è troppo giovane (classe 1982) e privo di qualsiasi esperienza al di là dell’amministrazione locale. In più, anche a non voler toccare l’argomento tabù riguardo la disponibilità degli americani ad eleggere Presidente un omosessuale, è pesantemente incapace di mobilitare un segmento fondamentale della base democratica, gli afro-americani.[6]
In effetti, i candidati democratici vincenti dell’ultima generazione, ossia Bill Clinton nel 1992 e 1996 e Barack Obama nel 2008 e 2012, presentavano alcuni tratti comuni: erano uomini non troppo giovani, non troppo vecchi (46 anni Clinton, 47 Obama), con una lunga esperienza politica statale (Clinton) o già rodati a livello federale (Obama), e che si distanziavano dalle ali più radicali del partito.
Ora, è difficile che questa configurazione di “medietà” – ammesso che essa sia la ricetta vincente – possa trovare un proprio rappresentante in Bloomberg, che è troppo vecchio (classe 1942, come Biden), troppo a destra (ha dopotutto un passato nel Partito repubblicano) e, soprattutto, troppo inviso alla base. Ai militanti più convinti, perché rappresentante del cosiddetto 1% (ossia l’1% più ricco, che detiene il 31% della ricchezza nazionale[7]); agli afro-americani, per via delle politiche securitarie implementate come sindaco di New York e che furono applicate sproporzionatamente contro le persone di colore (soprattutto le perquisizioni personali a discrezione dei poliziotti, note come “stop and frisk”).[8]
Diverso il caso di Patrick, che a 64 anni sarebbe comunque più giovane non solo di Biden-Sanders-Warren, ma anche di Hillary Clinton nel 2016; è stato governatore; è afro-americano; si posiziona in un centrosinistra ritenuto sicuro e affidabile. Come è stato scritto, la sua principale opportunità è quella di apparire come la scelta equilibrata tra Biden il vecchio e Buttigieg l’inesperto.[9]
Il problema per Patrick, però, è che non è sufficiente essere una scelta mediana: bisogna anche che per tale offerta vi sia una effettiva domanda nell’elettorato. Chiedere alla senatrice Harris, che, nel tentativo di presentarsi al partito (establishment ed elettori) come il giusto punto di caduta per costruire una coalizione ampia, ha finito per scontentare tutti.[10]
Un ulteriore indizio della ristrettezza di una via mediana alla vittoria nelle primarie democratiche, le rilevazioni secondo cui Biden e Sanders – ossia il candidato più istituzionale e quello più critico – avrebbero basi di sostenitori ben più fidelizzate rispetto a quelle degli altri competitor.[11] Questa forza appare dovuta all’insediamento maggioritario che le due candidature hanno presso due blocchi chiave dell’elettorato democratico: gli afro-americani per Biden, i giovani per Sanders.[12]
Nel resto della base, di conseguenza, il consenso è molto più fluido, con gli altri due principali contendenti – la Warren e Buttigieg – che si disputano le preferenze degli attivisti bianchi. La senatrice e “Mayor Pete” hanno un profilo più simile di quanto si possa immaginare: «sono una scelta di tendenza tra le élite cosmopolite»[13], ma hanno un consenso molto scarso tra la popolazione di colore. Come l’ex vice di Obama e il senatore Sanders rappresentano rispettivamente le posizioni moderata e “populista” della classe operaia, così, volenti o nolenti, Buttigieg e la Warren hanno occupato il centro e la sinistra tra i democratici con istruzione universitaria. Questo almeno fino a poco tempo fa: secondo le ultime rilevazioni, il consenso della Warren tra i bianchi non laureati, inferiore rispetto a quello tra i laureati ma comunque significativo, sarebbe stato quasi del tutto drenato da Buttigieg, che si situerebbe quindi intorno al 25% in entrambi i gruppi (restando comunque quarto nelle intenzioni di voto aggregate a causa dell’impopolarità tra neri e ispanici).
Nel 2016 il campo repubblicano fu presto ridotto anch’esso a quattro scelte: Cruz, Kasich, Rubio e Trump, ciascuno rappresentativo soprattutto di uno dei quattro quadranti determinati dall’incrocio delle variabili di reddito (alto/basso) e orientamento politico (centro/destra). È probabile che un esito simile si determini nel 2020 tra i democratici, con la variabile reddito sostituita da quella del livello di istruzione. Tuttavia, la maggiore eterogeneità della base democratica rispetto a quella repubblicana può portare alla formazione di solidi, inattaccabili consensi di nicchia che potrebbero poi condurre a una convention in cui nessun candidato possa contare sulla maggioranza dei delegati: con l’inevitabile scelta di un candidato a tavolino (magari uno nemmeno passato per le primarie) e con gli annessi scontri, polemiche e strascichi.
Del resto, la percorribilità di una via di compromesso, che possa portare fin dall’inizio a individuare un candidato accettabile per tutte le aree del partito, è apparsa limitata ben presto, quando la personalità che più di tutti poteva rivolgersi tanto alla sinistra quanto alla classe operaia conservatrice – il senatore per l’Ohio Sherrod Brown – ha deciso di non candidarsi, per giunta dopo aver svolto un tour di ascolto negli stati chiave.[14]
Probabilmente conviene seguire il consiglio di uno che ha vinto le primarie (da sfavorito) e due elezioni presidenziali: smettere di preoccuparsi dei candidati[15] e accettare che primarie difficili rafforzano il vincitore.
La ricerca del “candidato giusto”, del resto, presenta nel passato recente due esempi che possono ancora dare qualche lezione. Dopo le contestatissime presidenziali del 2000 si riteneva plausibile che Al Gore avrebbe cercato la rivincita alla prima occasione: per questa ragione, in attesa di una sua dichiarazione, molti big democratici restarono ai margini. La rinuncia di Gore, dopo le mid-term del 2002, produsse una serie di candidati e un partito incerto su chi sostenere: da ciò l’arrivo all’ultima ora, nell’autunno 2003, del generale Wesley Clark, che effettivamente per qualche tempo risultò in testa alle intenzioni di voto, salvo poi sparire dai radar (vinse soltanto nell’ultraconservatrice Oklahoma) mentre, quasi a sorpresa, tutto il partito si unificava dietro John Kerry a seguito della sua vittoria in Iowa.
Il “candidato giusto” vi fu fin dall’inizio, invece, nel 2016: Hillary Clinton godeva all’epoca di un sostegno storicamente ineguagliato nel partito[16], mentre l’esatto opposto valeva per Trump[17]. Il miliardario newyorkese, infatti, aveva un programma che su politica estera e commercio si poneva quasi agli antipodi di quello neoconservatore (allora ideologia ufficiale del partito repubblicano), sull’immigrazione abbracciava le frange più estreme della destra radicale, mentre su circolazione delle armi, diritti degli omosessuali e aborto era più vicino al centrosinistra. Come è noto, infatti, la conversione dei repubblicani al trumpismo cela in realtà un cambiamento nella composizione sociale dei due partiti.[18]
In entrambi i casi, la persona scelta a tavolino (Clark) o unanimemente sostenuta (Clinton) non fu in grado di vincere le presidenziali. Questo dovrebbe anche sconsigliare l’eventuale (e a dire il vero improbabile) mossa di estrarre dal cilindro il coniglio Michelle Obama: nonostante la popolarità estrema degli Obama tra i democratici, candidare per la seconda volta di seguito una ex first lady sarebbe a dir poco rischioso.
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https://www.realclearpolitics.com/epolls/2020/president/ia/iowa_democratic_presidential_caucus-6731.html ↑
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https://www.realclearpolitics.com/epolls/2020/president/nh/new_hampshire_democratic_presidential_primary-6276.html ↑
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Il conteggio dipende ovviamente dai criteri adottati per distinguere i candidati “maggiori” dalle centinaia effettivamente registrati alla Federal Election Commission; i criteri applicati da Wikipedia (https://en.wikipedia.org/wiki/2020_Democratic_Party_presidential_primaries#Current_candidates) sembrano accettabili: essere o essere stato un membro di gabinetto, o un membro del Congresso, o un governatore; essere stato incluso in almeno cinque sondaggi nazionali indipendenti; aver ricevuto una seria copertura mediatica. ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/everyones-running-and-that-could-be-dangerous-for-the-democrats/ ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/do-you-buy-that-democratic-voters-want-a-new-2020-candidate/ ↑
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https://edition.cnn.com/2019/11/24/politics/pete-buttigieg-poll-of-the-week/index.html ↑
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https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-11-09/one-percenters-close-to-surpassing-wealth-of-u-s-middle-class ↑
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https://edition.cnn.com/2019/11/18/politics/michael-bloomberg-stop-and-frisk-black-forgiveness/index.html ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/why-deval-patrick-is-making-a-late-bid-for-the-democratic-nomination/ ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/what-happened-to-the-kamala-harris-campaign/ ↑
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https://edition.cnn.com/2019/11/27/politics/biden-sanders-support-base/index.html ↑
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https://poll.qu.edu/national/release-detail?ReleaseID=3650 ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/buttigiegs-centrist-pivot-may-be-winning-him-a-new-base/ ↑
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https://www.businessinsider.com/sherrod-brown-dignity-of-work-tour-2020-presidential-election-2019-1?IR=T ↑
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https://time.com/5736775/obama-democrats-chill-out-candidates/ ↑
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https://projects.fivethirtyeight.com/2016-endorsement-primary/ ↑
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https://fivethirtyeight.com/features/why-donald-trump-isnt-a-real-candidate-in-one-chart/ ↑
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Ne ho parlato qui: https://www.ilbecco.it/tracce-dellopposizione-democratica-a-trump/ ↑
Immagine Dell Deaton (dettaglio) da flickr.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.