Non sono solo le scuole private a fare notizia in Inghilterra, nell’ultimo periodo. In oltre 60 università del Regno sono in corso scioperi proprio in questi giorni, con decine di migliaia tra docenti e personale tecnico ed amministrativo coinvolti.
Tutto il sistema contrattuale è chiamato in causa da queste manifestazioni: si contesta l’uso massiccio di personale precario, i bassi salari, l’aumento dei costi dei piani pensionistici, la verticalizzazione dei rapporti gerarchici (con dirigenti che si regalano stipendi da manager della grande industria mentre il personale vede deteriorarsi di mese in mese le proprie condizioni di lavoro) e, anche in questo caso, la mercificazione del sistema dell’alta educazione inglese: gli atenei operano ormai come aziende private, puntando alla massimizzazione dei profitti comprimendo i costi del personale e non disdegnando anche speculazioni finanziare e immobiliari, quando capita l’occasione. Gli studenti, poi, sono coinvolti nella protesta a causa del pesante aumento delle rette universitarie.
Gli scioperi sono organizzati da UCU, il sindacato dei lavoratori delle università e dei college, che dichiara oltre 40.000 lavoratori in sciopero e molte altre votazioni in corso per avviare azioni in atenei per adesso non attivi.
Le agitazioni sono partite nella prima metà di novembre, ma in realtà la storia di questo movimento di protesta è molto più lunga: sono circa due anni che le università inglesi sono in mobilitazione. Nel 2018, a seguito di un tentativo di riorganizzazione del sistema pensionistico dei dipendenti di una parte del sistema universitario, fu indetto un ciclo di scioperi durato due settimane con oltre 60 università coinvolte per oltre 40.000 dipendenti in sciopero, un conflitto che causò la perdita stimata di circa mezzo milione di ore di lezione. Dopo il lungo ciclo di scioperi e manifestazioni i rettori delle università furono costretti a rimangiarsi la pesante rimodulazione della contribuzione pensionistica raggiungendo col sindacato un accordo non particolarmente soddisfacente che però passò con discreto margine il referendum tra i lavoratori.
Ai dubbi sulla tenuta e sulla correttezza del nuovo schema pensionistico e al mai sopito disagio per la deriva aziendalista e mercantilista del sistema universitario si è aggiunta in questi ultimi mesi una disputa sugli aumenti salariali che ha portato alle nuove agitazioni, e il 25 di novembre sono ripresi gli scioperi. Anche in questo caso le ragioni tecniche sono due: salari e pensioni, ma dietro a queste c’è tutto un sistema che lotta per ridare senso a se stesso.
L’alta formazione inglese è un settore economico da 45 miliardi di euro di fatturato e 450.000 dipendenti che ha visto un calo drastico di finanziamento pubblico, le università si sono quindi riorganizzate secondo i canoni della neoliberalissima disciplina del New Public Management, assai in voga adesso, che teorizza la riorganizzazione della governance degli enti pubblici secondo i principi dell’impresa privata come strumento per ottenere l’efficientamento del servizio la riduzione dei costi di gestione. Curiosamente, questo tipo di trasformazione, dove applicata, non ha mai dimostrato un miglioramento dei servizi, ma in compenso ha reso questi soggetti, impiccati alla logica della massimizzazione del profitto, molto più vulnerabili al blocco della produzione.
Delegato sindacale CGIL dal primo contratto di lavoro, rimasto tale anche durante i periodi di precariato a vario titolo, alla faccia di chi dice che il sindacato non è per giovani e per precari. Ora funzionario sindacale per la FLC CGIL. Sono stato in minoranza di qualsiasi cosa durante tutta la mia storia politica.