Sul dibattito riguardo le ONG
La questione migratoria in Italia continua a essere al centro di vivaci dibattiti politici. In particolare, negli ultimi mesi si è accesa una vigorosa polemica sul ruolo delle organizzazioni non governative che partecipano alle operazioni di salvataggio in mare dei migranti. L’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Trapani sull’operato di alcune persone fisiche appartenenti a queste organizzazioni e di cui si ipotizza il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ha sollevato un polverone, peraltro ben presto alimentato dalle dichiarazioni di alcuni esponenti di M5S e Lega che denunciano presunti accordi fra volontari e operatori umanitari con scafisti e trafficanti di uomini.
Mentre negli ultimi giorni nel mirino della magistratura è finita la nave di una organizzazione non governativa tedesca (Jugend Rettet), il Viminale ha redatto un controverso codice di condotta per i soccorsi in mare che non è stato firmato da tutte le ong, molte delle quali, fra cui anche Medici Senza Frontiere, denunciano seri rischi che nella sua attuazione pratica questo documento possa contribuire a ridurre l’efficienza e la capacità di portare soccorso.
Con buona pace della recente moda di incolpare il postmodernismo o una sua fantomatica diffusione a livello di opinione pubblica per i mali della ragione contemporanea, a sorprendere chi voglia analizzare da vicino il tema delle migrazioni è piuttosto la quantità di essenzialismi che vengono dati per scontati.
Cosa rende una persona un “migrante”? E cosa rende il “migrante” un “clandestino”, un “migrante economico” o un “rifugiato”?
Sforzandosi di dare una ineffabile essenza a quelle che non sono altro che derivati dell’articolazione del regime di frontiera dei diversi Paesi riceventi e delle loro più o meno salde unioni, il potere – politico ma anche mediatico – non può non ricadere in quelle che alla meglio sono grottesche semplificazioni. Ecco che il “migrante” è via via ridotto all’essenza dell’”islamico” (a prescindere dalla reale fede del singolo), del homo oeconomicus provetto in cerca di benefici di arbitraggio tra sistemi di welfare, oppure all’innominabile stereotipo razzista del “nero”. Ecco che il “clandestino” diventa colui che è connotato da una criminalità essenziale, una sorta di peccato originale che deriva dall’aver infranto o ignorato una o più disposizioni dell’involucro legale delle comunità politiche del Nord del mondo.
Del posto nella storia della persona nascosta dall’etichetta di “migrante” o di “clandestino”, come parte di un fenomeno intercontinentale come l’emigrazione, della vicenda del colonialismo europeo e della decolonizzazione, e come titolare di una biografia particolare, noi europei ce ne possiamo completamente disinteressare, affidando il malcapitato alla detenzione (travestita da accoglienza o meno) e all’espulsione come fosse una soluzione naturale, l’unica possibile. Rendersi conto di alcuni fatti basilari, largamente stabiliti dalla letteratura, potrebbe aiutarci – lo volessimo – ad uscire dall’emergenza e a trovare soluzioni che vadano incontro a tutte le parti coinvolte. Persistendo le cause strutturali della migrazione, regimi di confine più severi e sistemi d’accoglienza più vessatori, lungi dal far diminuire i flussi, rendono solamente miserabile la vita dei “migranti”, mantenendoli in un eterno stato di minorità o relegandoli ai limiti esterni delle nostre frontiere, esternalizzati in Paesi terzi “sicuri” (cosa rende uno stato uno stato “sicuro”?) come la Turchia. Il “pull factor” non esiste.
Si fa un gran parlare della minaccia all’identità e alle nostre comunità che le migrazioni rappresenterebbero. Ma l’identità – europea o italiana – non esiste come essenza. Non c’è nulla di essenziale nell’essere italiani, come nell’essere europei.
Esistono invece delle comunità immerse nella storia, frammentate e non esclusive, i cui partecipanti sono accomunati da un patrimonio condiviso non uniformemente, materiale ed intellettuale. Noi europei ci vantiamo del patrimonio dell’Illuminismo e dei diritti umani, oppure del patrimonio della solidarietà di classe o dell’amore fraterno del cristiano per il suo prossimo, o di tutto questo allo stesso tempo. È questo patrimonio, non una fantomatica essenza comune, a renderci “europei” in questo momento storico. Invece che parlare a vanvera dell’influenza del “migrante” sulla nostra “identità” dovremmo – prima ancora di discutere del lato pratico – chiederci fino a che punto rinunciare a quel patrimonio intellettuale, negando il soccorso e una accoglienza dignitosa o rinunciando a lottare per un futuro globale più giusto, possa distruggere “ciò che siamo” per renderci altro.
L’ambiguità del ruolo delle Ong dovrebbe risultare evidente ad una breve analisi delle attività svolte finora dall’America Latina al Medio Oriente e dalla provenienza dei finanziamenti di cui usufruiscono.
L’antistatalismo con cui è permeata l’ideologia sostenuta da queste organizzazioni umanitarie è tipica del liberalismo (vedi per approfondimenti).
La funzione delle Ong è rivolta a compensare i costi elevatissimi che le popolazioni dei paesi dominati dall’imperialismo sono costretti a pagare attraverso lo “scambio ineguale”, imposto tramite le politiche di “aggiustamento strutturale”. Il debito estero è ovviamente il perno su cui verte questo giogo neocoloniale, sostenuto da questo privato sociale basato sull’ipocrisia umanitarista e nato appositamente per supplire alla scomparsa dello Stato dai settori più fondamentali.
In seguito all’obbligo di sottoscrizione di un Codice di condotta Save the Children e Medici Senza Frontiere sospenderanno i soccorsi in mare pur di non accettare controlli a bordo delle imbarcazioni, il tutto ricorrendo a ragioni di scarsa sicurezza in acque libiche.
Insomma, le motivazioni umanitarie sembrano vacillare e venire facilmente meno e non appena le tensioni aumentano si abbandona il campo.
Il razzismo esiste. Si lega ad un pregiudizio diffuso, svincolato dalla questione dell’emigrazione. Nel mio piccolo, da persona nata come cittadino italiano, mi sento comunque chiedere “perché sono in Italia” dai Carabinieri, con un tono decisamente slegato da ogni valutazione legata all’ordine pubblico. Legare problemi diversi per sovrapporli è scorretto, genera barbarie e contribuisce a svuotare il dibattito politico dagli effettivi contenuti di cui dovrebbe occuparsi.
Utilizzare il passato per la polemica è ugualmente dannoso: non ci sono provvedimenti fascisti in corso (perché il fascismo attiene a una dimensione storica oggi non presente) e non è in corso un genocidio.
C’è una risposta inadeguata da parte di un Governo legittimamente incapace. Parlo di liceità perché il dibattito diffuso nella società (che coinvolge l’elettorato passivo e quello attivo) non è distante dal livello delle risposte offerte dai principali partiti italiani. L’anno scorso in Grecia sono stati contati 161.232 arrivi (fonte Oim riportata dal Sole 24 Ore il 12 agosto 2017, la Repubblica indica 160.888 lo stesso giorno). Nel 2017 il numero si ferma a 12.191 (11.713 per Repubblica). Diminuito l’esodo attraverso i Balcani? No. C’è l’accordo con la Turchia. Fate due calcoli…
In Spagna sta scoppiando una polemica analoga a quella italiana, perché è aumentato esponenzialmente il numero di emigrati che cerca di arrivare (stiamo parlando comunque di un decimo dei flussi a cui deve far fronte l’Italia). Per rassicurare l’opinione pubblica vengono snocciolati i risultati della repressione del Marocco. In Libia, non avendo più molto valore il petrolio e non avendo mai avuto significato geopolitico il patrimonio artistico ed archeologico, si sta insistendo per ottenere stabilità in cambio di meno sbarchi sulle coste della nostra penisola.
Da una parte ci sono le questioni etiche, ascrivibili a un patrimonio di valori condivisi a cui tutta la politica del secondo dopoguerra dovrebbe richiamarsi. Primo: si salva chi sta affogando, a prescindere da chi è e da cosa ha fatto, o dal perché è lì. Secondo: il razzismo non è accettabile. Poi vengono le questioni politiche. Che non possono prescindere da un’analisi economica del mondo “ai tempi della globalizzazione”.
Buttarla sui valori cristiani per salvare tutti e accoglierli tutti non è una soluzione (pare sia necessario ribadirlo), ma nemmeno voltare le spalle a quello che accade sull’altra sponda del Mediterraneo (intanto facciamo giustizia sociale nel nostro Paese, poi ci occuperemo delle condizioni indecenti in cui vengono tenuti migliaia di esseri umani dall’altra parte del mare) è accettabile.
La grande assente è l’Europa. Questa sarebbe la contraddizione su cui giocare in maniera pesante. Ricordarsi ad esempio che l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza è la Mogherini potrebbe essere uno spunto. Invece pare normale leggere di incontri e accordi tra Francia, Spagna, Italia e Germania…
Più Europa non è detto che sia la soluzione, come ingenuamente ripetono troppi. Potrebbe venire fuori, di fronte alle contraddizioni del ruolo del vecchio continente nel Mediterraneo, che l’attuale Unione non è adeguata alle sfide dei tempi.
Provare a voler risolvere i problemi, anziché cercare di tamponare le emergenze, sperando di arrivare al turno elettorale successivo, spingerebbe anche il dibattito pubblico a spostarsi su un registro comunicativo più adeguato ed opportuno. Finendo per capire che le ONG con i flussi c’entrano molto meno delle scelte economiche e politiche dei paesi (mentre le attuali norme del Governo Gentiloni paiono molto simili a una ripicca-rivendicazione di falsa sovranità).
La contestazione al “codice Minniti” fa parte dell’impazzimento di una sinistra in realtà molto liberale che crede nella strutturale bontà della società civile rispetto allo Stato e del privato rispetto al pubblico, aderendo in ultimo, come ha rilevato Fulvio Scaglione, all’ideologia “umanitaria” che giustifica l’ingerenza statunitense e la destabilizzazione anche del teatro europeo.
Chiunque si dia la briga di leggere i tredici punti in questione può rilevare che essi in nessun modo contrastano l’attività di soccorso, bensì semplicemente la riconducono a un quadro di regole giuridiche definite dalle autorità nazionali. L’idea folle che esse ostacolino il soccorso in mare è smentita fin dal primo punto, che mentre proibisce in linea generale l’ingresso nelle acque libiche lo permette però in situazioni di grave e imminente pericolo.
Si può delirare come Saviano, il quale, mentre accusa Maduro di dittatura e tace sulle minacce nucleari di Trump, contesta la possibile presenza di poliziotti italiani a bordo delle navi delle Ong paragonandola alla brutale ingerenza armata dei regimi militari africani. Si può delirare così, oppure provare a pensare al ruolo dell’Italia nel quadro libico.
I salvataggi in mare effettuati dalle Ong sono anzitutto una minoranza rispetto ai soccorsi delle forze militari italiane e delle missioni internazionali. Non solo: è proprio lo Stato italiano a farsi carico della gestione del flusso migratorio, nella completa indifferenza (a tratti ostilità) degli altri Stati UE. Anche alla luce delle rinnovate mire di Parigi è assoluto interesse italiano recuperare un’intesa privilegiata con la Libia e consentire l’operatività delle forze libiche nelle rispettive acque territoriali. E la possibile sostituzione delle navi di Ong con imbarcazioni delle missioni Sophia e Triton è un risvolto che pare riportare un principio giuridico pubblico, nonché una minima condivisione comunitaria degli sforzi, nelle operazioni di salvataggio.
Il “derby tra rigore e umanità” su cui pare essersi aperta una discussione nell’esecutivo italiano è una questione che non ha ragione di esistere. La distinzione che passa tra solidarietà in mare e organizzazione del flusso è pari a quella tra primo soccorso e pronto soccorso: tutti sono tenuti a prestare il primo (tutti i natanti, anche quelli privati come pescherecci o panfili, sono tenuti a soccorrere un naufrago), mentre il secondo deve essere fornito solo dagli organismi competenti. Appaiono in realtà ben lontani i tempi dell’agosto 2009, quando un gommone di migranti eritrei andò alla deriva per tre settimane nell’indifferenza di navi da crociera, pescherecci, yacht e perfino Guardia costiera maltese, lasciando cinque sopravvissuti su oltre ottanta persone.
L’isteria collettiva ha trovato un nuovo capro espiatorio: le ong che operano nel mediterraneo con lo scopo di soccorrere e salvare i migranti. Sul web si legge di tutto: “fuori dai piedi”, “affondateli”, “metteteli tutti in galera”, tanto per menzionare solo alcuni dei commenti, peraltro quelli meno censurabili. Vero è che quelle imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie non ci dovrebbero essere là. Ma non per i motivi razzisti addotti dalla destra, ma semplicemente perché dovrebbero essere i canali istituzionali e prima di tutto quelli comunitari a occuparsi interamente, compiutamente e in maniera esaustiva del soccorso in mare. Il fatto che sia la società civile a dover mettere le toppe a un sistema non soddisfacente la dice lunga sulla volontà e le priorità politiche dell’Unione Europea. Per fortuna allora ci sono le ong che nel loro piccolo provano a svolgere il lavoro che dovrebbero fare quelle agenzie governative ad hoc che non sono mai state pienamente predisposte.
L’ostilità è stata veicolata ed alimentata dalle accuse nei confronti delle ong di fare da traghettatori in combutta con gli scafisti, sebbene ad oggi manchino indizi forti in questo senso. Chiaramente qualora si rivelasse vero e venisse dimostrato che qualcuno che lavora per una di queste ong abbia commesso questo tipo di reato, andrebbe severamente punito, ma occorre stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio: il comportamento sbagliato di qualcuno non può mettere a rischio la possibilità di operare di tutte le altre organizzazioni, perché il contributo di chi lavora rispettando le regole è fondamentale, nella convinzione che la priorità debba sempre essere quella di salvare vite umane. Un generico e semplicistico attacco generalizzato contro tutte le ong risulterebbe fazioso e poco produttivo. Ma molto spesso chi critica in maniera così sprezzante e arrogante queste operazioni umanitarie lo fa perché preferisce un migrante annegato piuttosto che uno che sbarca a Lampedusa.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.