La multinazionale dell’acciaio Mittal ha intenzione di abbandonare l’ex Ilva e ritirarsi dall’operazione con cui avrebbe dovuto rilevare uno dei principali stabilimenti industriali dell’Italia meridionale. Si tratta di una notizia su cui si è concentrato larga parte del politico nazionale, anche perché da tempo ormai l’area produttiva torna al centro della cronaca nazionale. Un intrecciarsi di tematiche economiche, ambientali e sociali, di cui ha scelto di occuparsi questa settimana la nostra rubrica a più mani.
Leonardo Croatto
È piuttosto complicato dare giudizi sugli elementi tecnici di una trattativa così complessa come quella che ha riguardato la sorte recente di ILVA e l’intervento di ArcelorMittal; il caso dell’ex Italsider suggerisce alcune di valutazioni di ordine generale. Per cominciare, la capacità della classe dirigente di questo paese di intervenire sempre quando il problema ha avuto il tempo di trasformarsi in catastrofe, quando l’appendicite è andata in peritonite. Questo operare costantemente in situazioni di disastro imminente è perfettamente in sintonia con la condizione di un paese continuamente in campagna elettorale: niente meglio di una crisi (economica, ambientale, industriale e via elencando) per riempire il serbatoio degli elettori disperati da cui attingere con facili promesse preelettorali.
La seconda valutazione ha a che fare con la narrazione del capitalismo che ci è stata sommimistrata negli ultimi decenni: l’infallibilità del mercato, il coraggio dell’imprenditore, l’inefficacia dello stato. Una narrazione efficacissima non tanto a salvare le aziende, quanto a legittimare operazioni di vero e proprio saccheggio di aziende pubbliche, privatizzate e poi depredate (i Riva non sono l’unico caso, basti ricordare i “capitani coraggiosi” di Alitalia).
Viene quindi da chiedersi, alla fine, quanto il nostro paese potrà durare, in una situazione di rapida deindustrializzazione e di altrettanto rapido spopolamento, prima che non resti più nulla da trasformare in immediato consenso elettorale o facile guadagno.
Piergiorgio Desantis
Sulla questione Ilva di Taranto è stato veramente detto tutto e il contrario di tutto, tuttavia si può constatare (a questo punto) l’assenza di una qualsiasi politica industriale italiana (ancora una volta).
Una classe politica balbettante, indecisa sul da farsi, prima privatizzatrice oggi supina all’impresa multinazionale di turno che detta le leggi e il numero di licenziamenti necessari per aumentare i profitti. È il caso di ricordare che nell’Europa occidentale (Francia e Germania per esempio), nei comparti strategici (e l’Ilva, ovviamente, lo è) lo Stato per tutelare salute, ambiente e occupazione continua a mantenere un quota rilevante dell’impresa stessa per incidere sulle scelte. Se l’Italia continuerà a perdere pezzi importanti dell’industria avremo davanti una prospettiva sempre più vicina alla Grecia, con la possibilità di avere a disposizione turismo, agroalimentare e piccole eccellenze del lusso destinate all’esportazione. Come all’esportazione/emigrazione saranno costretti la maggior parte dei lavoratori/lavoratrici italiane (ovvero ciò che è già avvenuto a partire dall’unità d’Italia, ma è destinato a aggravarsi sempre più).
Dmitrij Palagi
Basta chiedere un intervento pubblico? No, specialmente in Italia. Lo stesso Paese incapace di promuovere un qualsiasi tipo di politica industriale, anche se schierata in termini di classe dalla parte dei privati, come può intraprendere scelte produttive? Però davvero appare come l’unico campo in cui misurare direttamente le capacità o incapacità della politica. Purtroppo sono assenti soggetti collettivi e strutturati in grado di imporsi. La parte sindacale, le parti datoriali nazionali, le istituzioni in generale su ILVA (come su tante altre vicende legate al mondo economico e alla riqualificazione del territorio) sembrano passive, impotenti, incerte. In gioco c’è davvero molto, non solo per la parte più in difficoltà della penisola, quel meridione sempre più separato dal resto del paese. Le cordate e le multinazionali non ci salveranno. Il dubbio è che in quel Parlamento (o in uno eletto eventualmente domani) ci siano le capacità per trovare delle soluzioni. La soluzione è disperata? Lo si può dire solo se diventasse da stimolo per tentare nuove strade. In alternativa occorre cercare di ottenere il massimo possibile per la tenuta ambientale, sanitaria e lavorativa di quell’area. Un po’ poco, ma in parallelo sarebbe bene costruire soluzioni che non riducano queste situazioni a questo livello di disperazione…
Jacopo Vannucchi
La vicenda Ilva può essere letta assieme a quella FCA-Peugeot sotto un aspetto, quello della politica industriale italiana. In entrambi i casi lo Stato italiano si è limitato al ruolo di spettatore, o al massimo di una comparsa restia a farsi trascinare in scena. Le preoccupazioni sull’impatto della fusione automobilistica sugli impianti produttivi italiani non si sono tradotti, infatti, in una scelta di entrare come azionisti nella nuova creatura (lo Stato francese, invece, lo fa), mentre riguardo l’acciaieria di Taranto l’impressione è di un potere pubblico sostanzialmente ricettore passivo delle scelte di attori privati.
La rimozione dello scudo penale per gli investitori nella ex Ilva, del resto, è stato un ulteriore autogol: quale privato rileverebbe mai un impianto, per giunta con costi così ingenti, sapendo di poter finire condannato per reati a danno della comunità?
D’altro canto, come rilevato dal Ministro dell’Economia, è pericoloso illudersi che ogni crisi industriale possa essere risolta con acquisti di Stato. Il rischio è quello di mantenere artificialmente in vita siti improduttivi e non riqualificati, provocando soltanto l’incancrenimento dei problemi sociali che ne derivano. Una forma di intervento pubblico, tuttavia, appare necessaria come garanzia sia per l’investimento strategico nell’acciaio sia per la volontà di accompagnare l’investitore privato nel percorso di risanamento ambientale. Forme modulate di uno scudo giudiziario sembra siano allo studio del Presidente del Consiglio, nel tentativo di tenere insieme tutta la maggioranza – e, forse, cercare in Parlamento appoggi più larghi, in campo “sovranista”, sulla scelta degli investimenti industriali nazionali.
Immagine da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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