Negli ultimi decenni il nostro paese ha subito radicali trasformazioni. La società è stata stravolta, a partire dalla sua componente fondamentale, il mondo del lavoro. Le forme di rappresentanza politica sono passate attraverso processi di decomposizione e metamorfosi che, con la nascita anche di nuovi soggetti, ne rendono irriconoscibili i tratti. Gli elementi connettivi della società hanno perlopiù acquisito una valenza negativa: precarietà, incertezza per il futuro, insicurezza, paura della diversità.
Solo il sindacato, fra le grandi organizzazioni di rappresentanza, sembra aver attraversato quasi immune questo cataclisma. La cosa ha dell’incredibile se si pensa che i cambiamenti più profondi e dirompenti sono stati proprio quelli che hanno investito il lavoro. Eppure il sindacato è rimasto sostanzialmente il medesimo. A differenza dei partiti, ha mantenuto un considerevole livello di adesioni e le sue strutture organizzative, come le sue procedure, salvo ritocchi poco significativi, sono rimaste le medesime. Come è potuto accadere? Ed è un segnale di forza o c’è altro?
Il primo riscontro, quello più oggettivo, sembra abbastanza rassicurante. Per i partiti il livello di tenuta viene periodicamente misurato dal consenso elettorale. Quando questo si riduce sarebbe buona regola per un partito comprenderne le ragioni e correggere il proprio profilo ideale e programmatico. Chi non lo fa, e così è stato per i partiti di sinistra e di centro-sinistra, va inevitabilmente verso il declino o direttamente verso il tracollo, da dove potrà tentare di risalire soltanto riprendendo il filo del discorso politico dal punto in cui si è spezzato.
Parallelamente per il sindacato la prima verifica dello stato di salute è data dal numero degli iscritti, che viene costantemente monitorato. Nonostante una crisi economica ultradecennale, il sindacato è riuscito a mantenere un alto tasso di iscrizioni. Era inevitabile che vi fossero un calo e uno spostamento a vantaggio dei pensionati visto che le nuove assunzioni sono state in grandissima parte quelle di lavoratori a tempo determinato per forza di cose difficilmente reclutabili, ma il risultato finale era tutt’altro che scontato.
Sta qui, nell’aver probabilmente sopravvalutato il valore della relativa tenuta della base associativa, il primo motivo della rigidità del sindacato e della mancata riflessione sulla necessità di una propria profonda autoriforma. Il secondo motivo lo si trova nella gradualità dei cambiamenti che hanno investito il lavoro. Non c’è stato un fatto esplosivo assimilabile a ciò che sono stati per la politica il crollo dell’URSS o la vicenda di Mani Pulite. Il punto di svolta nella composizione del lavoro e, conseguentemente, nei rapporti di forza fra le classi, è riconducibile alla grande ristrutturazione capitalistica della metà degli anni ‘70, da cui ha preso le mosse un processo volto in un’unica direzione, quella della precarizzazione estrema del lavoro e della demolizione sistematica di tutto ciò che poteva costituire un fattore di coesione e di potenziale conflittualità dei lavoratori. Il sindacato non ha compreso a tempo la portata di quel processo, tanto meno lo hanno compreso i partiti di sinistra, il principale dei quali si è presto convinto che quella strada non avesse alternative. Quella degli ultimi quarant’anni è la storia di un lungo, ininterrotto, ripiegamento. L’innesto in questa offensiva capitalistica di innovazioni tecnologiche senza precedenti ha complicato ulteriormente l’analisi di quanto stava accadendo. Si è trattato di innovazioni perfettamente funzionali alle tendenze in corso. Basti pensare a quanto esse abbiano supportato la scomposizione del ciclo lavorativo in ogni settore di attività portando al massimo risultato il processo avviato negli anni ‘70 col decentramento produttivo; o a quanto abbiano ingigantito la fungibilità del lavoratore e quindi la precarietà strutturale della sua condizione. È persino sorprendente come il sindacato sia riuscito tutto sommato a confermare in una quotidiana azione di resistenza la propria rappresentatività. Ma è pur vero che aver ceduto all’illusione che la spinta distruttiva per il lavoro insita in quel processo si sarebbe prima o poi esaurita ha reso il sindacato impotente e, quel che è peggio, non gli ha permesso di elaborare una qualsiasi alternativa.
Il terzo motivo risiede nella struttura stessa del sindacato. Il sindacato è dotato di un enorme apparato burocratico con qualche migliaio di funzionari distribuiti nei vari livelli di categoria e territoriali. Questo impianto costituisce un fattore di forza in quanto consente di aderire all’articolazione del mondo del lavoro, ma, come accade a ogni forma estesa di burocrazia, genera una naturale spinta autoconservativa che limita la capacità di percepire i cambiamenti del mondo esterno, soprattutto di quelli che, una volta compresi, imporrebbero modifiche profonde e tutt’altro che indolori.
Queste sono alcune possibili spiegazioni della stabilità della struttura del sindacato nella tempesta che ha stravolto la fisionomia del paese.
Ma se la forma è stata salvaguardata, altrettanto non può dirsi della sostanza. In primo luogo è calato pesantemente il suo riconoscimento sociale. Per quanto opinabile sia l’attendibilità dei sondaggi, il grado di fiducia espresso dai cittadini nei suoi confronti si è nel tempo ridotto a livelli molto bassi, soprattutto se si tiene conto che il sindacato è stato immune dagli scandali che hanno portato ai minimi termini la fiducia riposta nei partiti. Questo elemento ha consentito a quelle forze che già lo consideravano come un fastidioso ingombro di trascurane l’esistenza o, quanto meno, di non assumerlo come un interlocutore necessario. Si è trattato di una emarginazione che in apparenza ha riguardato tutte le organizzazioni di rappresentanza di interessi collettivi, essendo venuti meno i momenti di triangolazione fra governi e parti sociali, ma la componente datoriale ha mantenuto canali di autonoma comunicazione e di influenza sulle politiche dei governi, anche se si volesse prescindere dal fatto che le politiche dei governi erano pienamente allineate alla volontà delle classi dominanti .
Sarebbe comunque interessante indagare anche sul tipo di fiducia riposto dagli stessi iscritti attivi nei confronti delle loro organizzazioni. È molto verosimile quanto emerge seppure indirettamente da alcune inchieste. Si potrebbe dire che si sono ristretti molto gli orizzonti. Il sindacato è sempre meno percepito dall’iscritto come un soggetto in grado di realizzare importanti conquiste e di essere protagonista, assieme ad altri, dei processi di emancipazione del lavoro, ma piuttosto viene visto come uno strumento di tutela a breve della propria condizione e come erogatore, gratuitamente o a prezzi convenienti, di servizi comunque necessari. Lo dimostra il numero di nuove iscrizioni che si registra proprio nel momento in cui il lavoratore e il pensionato fruiscono dei servizi prestati dal sindacato. Già qui ci sarebbe quanto basta per una riflessione autocritica di grande peso.
Resta il fatto che caduta di consenso sociale e contestuale misconoscimento di ruolo hanno tolto ogni efficacia alle proposte del sindacato sui grandi temi economici e sociali. La crisi delle forze della sinistra politica, maturata proprio a partire dall’abbandono del carattere dirimente della questione sociale e del lavoro, rende ancor più drammatica, tanto più in prospettiva, questa irrilevanza del sindacato.
Non si giunge a conclusioni molto diverse se si prende in esame il secondo parametro che dà conto della sua forza reale, quello che misura il potere contrattuale nei luoghi di lavoro e nella contrattazione nazionale di categoria. Qui c’è un indice generale che parla un linguaggio inequivocabile, quello della distribuzione del reddito. Lo spostamento che vi è stato dal lavoro al profitto e alla rendita è impressionante. Si può dire, ed è giusto farlo, che questo risultato è dovuto anche all’adesione delle forze di centro-sinistra alle politiche neo-liberiste dei governi che si sono succeduti. Ma non può essere una spiegazione sufficiente per un sindacato che fa dell’autonomia un principio della sua identità.
C’è un nesso strettissimo fra efficacia della contrattazione nazionale ed efficacia della contrattazione di posto di lavoro, ma è la seconda che decide anche della prima. Ed è lì che si è consumato il disastro. Non è esagerato affermare in linea generale che nei posti di lavoro non si fa più contrattazione integrativa di tipo acquisitivo. La spiegazione è tutt’altro che complicata. Quando in un’impresa si può essere licenziati con qualsivoglia pretesto pagando un modesto indennizzo, quando coesistono svariati contratti di lavoro, quando i lavoratori a tempo indeterminato vengono sostituiti progressivamente e velocemente con lavoratori a termine, quando il mercato del lavoro rende disponibili lavoratori pronti a lavorare a qualunque prezzo e a qualunque condizione, quando si può mettere sul tavolo la prospettiva di delocalizzazioni, ristrutturazioni o concentrazioni che portano sempre a una riduzione degli occupati, e così via, che è appunto ciò che accade da molti anni, non è pensabile che si possa sviluppare una forma di contrattazione capace di migliorare la condizione di lavoro da un qualunque punto di vista.
Chi pensa che con la ripresa economica, che presto o tardi arriverà, ripartirà anche la contrattazione perché questa è stata la storia delle relazioni sindacali nella seconda metà del secolo scorso, non fa i conti con la natura strutturale delle trasformazioni che sono intervenute. Per come sono configurate adesso le imprese e l’organizzazione del lavoro e per le tendenze che vediamo avanzare, la parte datoriale è in grado di interdire la forza contrattuale dei lavoratori in modo del tutto lecito e senza colpo ferire, avvalendosi della vastissima gamma di strumenti legislativi e normativi che governi e parlamenti le hanno messo a disposizione. Quando si parla di una nuova servitù del lavoro si usa la parola che più si avvicina a rappresentare lo stato di subordinazione cui il lavoro è stato ridotto.
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Dirigente della CGIL, Segretario Generale della FIOM Toscana, Segretario della CGIL Toscana, Segretario Generale della FP Toscana, Presidente di IRES Toscana.