Il Kurdistan si estende su un’area di circa 520.000 km, e si distribuisce su quattro paesi vicini: la Turchia, al nord, la Siria a ovest, l’Iraq al sud e l’Iran a est. Il popolo kurdo conta circa trentacinque milioni di abitanti, ma, nonostante tale densità e nonostante la sua storia, ancora non costituisce uno stato ufficiale. Il Kurdistan esiste, ma non esiste di fatto, né di norma. Naturalmente esistono differenze enormi tra le varie zone in cui si estende il Kurdistan.
Il Kurdistan iracheno risulta de facto autonomo da Bagdad (governo centrale dell’Iraq) dal 1991 e gioca un ruolo importante nella scacchiera internazionale, risultando un’ala fondamentale degli Stati Uniti. Il governo kurdo (che ha sede a Erbil) partecipa attivamente alla vita politica e istituzionale irachena configurandosi addirittura come una sorta di “arbitro” nel contesto iracheno suddiviso tra sciiti e sunniti, ma anche tra questi ultimi e gli Stati Uniti. Il governo regionale kurdo è ormai riconosciuto ufficialmente dal 2003: è stato fino al 2017 sotto la guida di Massoud Barzani, eletto dopo la nomina del suo rivale, Jalal Talabani a presidente dell’Iraq. I loro due partiti (Il PDK – Partito Democratico del Kurdistan – e l’UPK – Unione Politica del Kurdistan) hanno mantenuto delle strutture amministrative unificate, costituendo di fatto un’alleanza tra i due governi, quello di Bagdad e quello di Erbil. Nel 2017 i kurdi sono stati chiamati alle urne per decidere, tramite un referendum, se ottenere una completa indipendenza dall’Iraq. Il 93% ha votato a favore, ma il governo iracheno ha definito più volte “illegale” il referendum e ha detto alle autorità kurde che non ci sarà dialogo finché i risultati della votazione non saranno ignorati.
In Iran i kurdi subiscono un dominio religioso, dovuto al fatto che essi non appartengono alla maggioranza religiosa sciita (lo sciismo in Iran è religione di Stato), prerogativa fondamentale per l’accesso a cariche politiche e amministrative. Il governo di Teheran ha esercitato una violenta repressione nei confronti dei curdi iraniani con esecuzioni sommarie, arresti, torture, violenze sessuali nei confronti delle donne, che non godono di tutele contro abusi e stupri.
In Siria vivono circa due milioni di kurdi che non sono considerati cittadini siriani non godendo di alcun diritto culturale o politico. Le regioni kurde restano in una situazione di sottosviluppo rispetto alle altre zone della Siria e i partiti kurdi sono vietati. L’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, al confine turco-siriano,e conosciuta più semplicemente come Rojava (in curdo: Rojava significa l’Occidente), è una regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria, non ufficialmente riconosciuta da parte del governo siriano. Nel 2018 la Turchia di Erdogan dà inizio all’operazione militare “Ramoscello d’Ulivo” nel cantone siriano, a maggioranza curda, di Afrin e nell’area di Tel Riifat del governatorato di Aleppo, nella Siria settentrionale. E oggi, dal 9 ottobre, sono iniziati i bombardamenti nella regione autonoma del Rojava.
In Turchia, che controlla la maggior parte del Kurdistan storico e dove abita il più grande numero di Kurdi (circa diciassette milioni di persone) la situazione è tragica. Già dal 1924, con la Repubblica di Mustafa Kemal, avviene un processo di assorbimento e cancellazione di ogni differenza etnica e culturale nell’ottica del mito di una Turchia laica ed europea, ma soprattutto culturalmente ed etnicamente omogenea. Così ogni specificità, compresa, se non in particolare, quella kurda, viene negata e, anche economicamente il popolo kurdo viene relegato a un sottosviluppo che lo separa dal resto della Turchia. Persino la lingua kurda viene dichiarata fuori legge. Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) dal 1984 lotta per i diritti del popolo kurdo, ed è finito nella lista nera dei terroristi, approvata da Europa e Stati Uniti. Tuttora il PKK fa parte di quella lista e i suoi membri sono giudicati, formalmente e di fatto, dei terroristi a tutti gli effetti.
Su ispirazione del leader del PKK, Abdullah Öcalan (in carcere da vent’anni nell’isola-prigione turca di Imrali, con l’accusa di terrorismo) e del filosofo, socialista libertario ed ecologista Murray Bookchin, i curdi turco-siriani della regione del Rojava hanno dato vita al “Confederalismo Democratico”. Questo modello politico, ispirato a un’ideologia di stampo marxista e libertaria, si fonda su un rifiuto dello Stato-Nazione, del Capitalismo, del sessismo e di ogni forma di repressione su base etnica, religiosa, di genere e culturale. “Questo tipo di governo o di amministrazione può essere chiamata una amministrazione politica non statale o una democrazia senza stato […]. Il Confederalismo democratico è aperto verso altri gruppi e fazioni politiche. È flessibile, multi-culturale, anti-monopolistico, e orientato al consenso. L’ecologia e il femminismo sono i pilastri centrali. Nel contesto di questo tipo di auto-amministrazione diventerà necessaria una economia alternativa, che aumenti le risorse della società invece che sfruttarle per sopperire giustamente alle molteplici necessità della società”[1].
Il progetto di “modernità democratica” creato dal Confederalismo si propone di essere una sorta di “tetto di una società eticamente fondata”[2], contro ogni mentalità che tende a ritenere necessaria la frammentazione monolitica e omogenea rigettando ogni differenza (etica, culturale, etnica, religiosa) interna, e al contempo vuole configurarsi come un modello di democrazia diretta e partecipativa: “In contrasto con una idea centralista e burocratica dell’amministrazione e dell’esercizio del potere, il Confederalismo pone un tipo di auto amministrazione politica in cui tutti i gruppi della società e tutte le identità culturali possono esprimersi in incontri locali, in riunioni generali e in consigli. Questa idea di democrazia apre lo spazio politico a tutti gli strati della società e consente la formazione di gruppi politici diversi. In questo modo sollecita anche l’integrazione politica della società nel suo insieme. La politica diviene parte della vita di tutti i giorni. […]La creazione di un livello operativo in cui tutti i tipi di gruppi sociali e politici, di comunità religiose, o di tendenze intellettuali possono esprimersi direttamente in tutti i processi decisionali locali possono essere chiamati democrazia partecipativa. Più forte la partecipazione, più potente sarà questo tipo di democrazia. Mentre lo stato-nazione è in contrasto con la democrazia ed anzi la nega, il Confederalismo democratico costituisce un processo democratico continuo. Gli attori sociali, che sono ognuno per sé delle unità federative, sono le cellule germinali della democrazia partecipativa. Possono unirsi ed associarsi in nuovi gruppi e confederazioni secondo la situazione. Ciascuna delle unità politiche coinvolte nella democrazia partecipativa è essenzialmente democratica. In questo modo, ciò che chiamiamo democrazia, è l’applicazione dei processi democratici dei decisori a livello locale fino a livello globale nella cornice di un processo politico continuo”[3].
Il Confederalismo, come si legge dal suo manifesto, non punta a creare uno Stato-Nazione kurdo, ma si configura come un paradigma sociale che implica piena e totale partecipazione ai processi decisionali provenienti dalla comunità, i cui livelli superiori servono solo a implementare e coordinare tali processi facendosene portavoce; che prevede la creazione di strutture federali in Iran, Turchia, Siria, Iraq che possano essere aperte a tutti i curdi; che mira al contrasto di ogni differenza di classe, o su base etnica e religiosa e garantisce piena libertà ed eguaglianza alla donna, partecipe, al pari degli uomini, di ogni processo decisionale e di ogni creazione politica o militare che sia (le donne hanno propri reparti militari, le Ypj – Unità di protezione delle donne – e hanno creato il “Movimento delle donne curde”). Il Confederalismo democratico, in un’ottica internazionalista, marxista ed eco-sostenibile, osteggia il capitalismo come unico paradigma economico, predatorio, accusato di esasperare le differenze di classe producendo estrema ricchezza da un lato (una percentuale irrisoria di popolazione mondiale) e povertà e miseria dall’altro, di radicalizzare le differenze economiche e lo sfruttamento delle persone e delle risorse del pianeta in nome di un profitto esteso a ogni ambito dell’esistenza umana e planetaria. Solo un differente modello di sviluppo, basato su municipalismo, superamento delle diseguaglianze di ogni tipo, convivenza pacifica, ecologismo e comunione dei beni, nell’ottica del Confederalismo, può garantire la protezione e la stessa sopravvivenza dei popoli e del loro habitat; solo un tale modello può frenare la nascita di nazionalismi e di repressione dei diritti umani. È anche, o forse soprattutto, questo processo di costruzione di democrazia, di auto-determinazione (non, ovviamente, in senso nazionalista) e di auto-organizzazione che Erdogan vuole soffocare, puntando alla repressione di un popolo e del suo anelito di auto-costituzione democratica e pacifica.
Oggi infatti, come ben sappiamo da media e stampa, la Turchia sta portando avanti, con il semi-silenzio della comunità internazionale (che non è riuscita a trovare una risoluzione unitaria e comune e, al di là delle condanne, non è neanche riuscita ad arrivare a un embargo) una carneficina di civili e attivisti Kurdi – non ultima l’attivista per i diritti civili e per la parità di genere e la pace e convivenza etnico-religiosa Hevrin khalaf . Con la giustificazione di star combattendo contro un nemico terrorista e di liberare così le zone del nord e dell’est della Siria per consentire agli sfollati siriani presenti sul territorio turco di tornarvi, il presidente turco vuole annientare l’identità di un popolo che è sempre stato la sua ossessione. Il goerno di Ankara tiene sotto ricatto l’Europa, stretta, tra l’altro, alla Turchia da un rapporto diplomatico e legislativo in materia di immigrazione: “La minaccia di Erdogan è vergognosa, perché nel tentativo di mettere a tacere le critiche, strumentalizza milioni di profughi siriani in fuga dalle atrocità del loro paese, brandendoli come strumento di ricatto nei confronti degli europei”[4].
In questo momento storico, poi l’ossessione da parte di Erdogan nei confronti dei curdi al confine turco-siriano è forse ancora più forte, dopo, appunto, la costituzione del Confederalismo Democratico che, come abbiamo visto è strumento di democrazia, pace, eguaglianza, ecologismo e mutualismo, tutti aspetti, questi, che preoccupano il sultano Erdogan e la sua mania di controllo, di soffocamento di ogni idea contraria o critica nei confronti del suo potere e delle sue decisioni politiche e militari. Oggi il premier turco è sicuramente ancor più timoroso che i kurdi, forti del loro assetto politico e democratico e della loro capacità di dar vita a un processo democratico e di auto-organizzazione, possano arrivare a ottenere un’identità ufficiale e configurarsi come vero e proprio Stato (sebbene, come accennato, non rientri tra i principi del manifesto del Confederalismo), progetto che Erdogan vorrà impedire a ogni costo: “La diplomazia di Ankara resta dominata dalla questione kurda e dall’ossessione di impedire ogni cristallizzazione sotto forma di Stato o di identità autonoma”, ha scritto Didier Billon nel numero di ottobre de Le Monde Diplomatique.
Oggi stiamo assistendo davvero a una strage ingiustificata (ma quando mai lo sono, le stragi?) contro un popolo pacifico, che, come si legge ogni giorno sui giornali, ha combattuto Daesh, liberando gli avamposti più nevralgici, quasi completamente da solo, almeno sul fronte di terra. Ora la comunità internazionale che ha elogiato i guerriglieri e le guerrigliere delle Ypg e delle Ypj (i reparti femminili) sta abbandonando il popolo kurdo presente nel nord est siriano al suo destino di sangue, morte, devastazione, distruzione (persino degli ospedali) e sfollamenti: “Secondo l’Onu oltre quattrocentomila persone, non avrebbero più acqua nell’area di Hassakeh, tra cui ottantaduemila profughi nei campi di Al Hoi e Areesha. Mentre gli ospedali pubblici e privati di Ras al Ain e Tel Abyad hanno chiuso già i battenti”[5]. Ma tutto questo evidentemente non conta nulla per il presidente turco che ha già dichiarato di voler andare ancor più avanti nel suo progetto di “liberazione dal nemico” annunciando la propria volontà di “penetrare per una profondità di 30, 35 chilometri in territorio siriano”[6].
Il dovere di fermare un dittatore sanguinario che sta annientando un popolo non deve essere imposto, o “semplicemente” derivare da ciò che quel popolo ha fatto per sventare la minaccia del terrorismo internazionale portato avanti dall’Isis, ma perché lo impongono il Diritto Internazionale e gli articoli delle carte costituzionali che ripudiano la guerra e il massacro dei popoli. Purtroppo, nella scacchiera internazionale, le strategie politiche e i rapporti diplomatici (la Turchia fa parte dell’Onu e della Nato), e, soprattutto gli interessi economici che si giocano nelle aree del Medio Oriente, compromettono una chiara e unitaria risoluzione contro questa carneficina. Le condanne si limitano a parole, a dichiarazioni, ma ancora non vi è stato un accordo internazionale per ostacolare, punire, sanzionare, reprimere l’azione del governo di Ankara. Nemmeno la consapevolezza che l’oppressione e la devastazione dei kurdi nel nord est della Siria faranno risorgere il terrorismo di Daesh (qualche giorno fa è già scoppiata un’autobomba a Qamishlo rivendicata dall’Isis e molti dei suoi membri sono fuggiti dalle carceri) sta producendo un reale effetto di stop a questa strage incondizionata. Vengono colpiti ospedali, Serekaniye è distrutta, vengono tagliati i rifornimenti dell’acqua, distrutti interi villaggi, feriti o uccisi bambini, uomini, donne civili e combattenti.
Perché sì, i kurdi combattono per difendersi da un attacco così feroce, così violento. I kurdi sono un popolo indomito che resiste. Che ha sempre resistito. Combattono e non soccombono. Ma sono soli. Anche nella loro lotta contro Daesh lo sono stati, se escludiamo ragazzi e ragazze coraggiosi, provenienti da ogni parte del mondo, che sono andati a combattere a fianco delle donne e degli uomini kurdi. Come il nostro Lorenzo Orsetti. Morto adesso per la seconda volta, ucciso, ancora una volta, dall’orrore di questa violenza annientatrice e barbarica contro un popolo che ha creato un modello di democrazia che dovrebbe essere invidiabile per tutto l’occidente, primo reale modello di democrazia diretta, di effettiva parità di genere, laicità, ecosostenibilità e di convivenza etnica, culturale e religiosa in tutto il Medio Oriente.
Immagine da www.flickr.com
1 http://www.uikionlus.com/wp-content/uploads/ocalan_confederalismo_democratico.pdf
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Da l’Internazionale dell’11 ottobre 2019.
5 Da La Repubblica del 14 ottobre del 2019.
6 Ibidem.
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.