L’America è un paese che ha fatto della repressione una delle sue radici. Una nazione in cui la violenza poliziesca e giudiziaria si abbatte in modo specifico sulle fasce di popolazione che non possono permettersi di pagare cauzioni, avvocati, poter star a galla nel sistema. In modo particolare ad esser colpiti sono gli afro-americani, anche sotto la presidenza di Obama non sono mancati casi di assassinio da parte dei poliziotti contro individui della comunità nera. A seguito arrivano i latino americani e poi i bianchi poveri.
Analizzando
il sistema poliziesco e giudiziario repressivo americano, possiamo
constatare che la
lotta di classe, da parte di quelle dominanti e ricche contro le
masse povere, è una pratica consolidata.
Un paese che si basa sulla fondamentale
importanza del successo,
della ricchezza, come dono divino e parte di un destino di comando
mondiale, non può che creare grandi malcontenti, sommosse, oppure
alimentare una profonda esclusione
sociale, dalla quale partono problemi
di droga, alcol, criminalità quotidiana perché c’è ben poco
altro da fare.
Sono 13 milioni di persone all’anno che
vengono arrestate negli Stati Uniti, un numero così alto perché
dipende molto dall’opinione che il poliziotto si fa di te.
Fondamentale è non cercare di contrastarli, di creare problemi. Non
che questo possa migliorare la vostra situazione.
Come
viene anche mostrato nel documentario The
Force, disponibile su Netflix, la
popolazione ha grossi problemi con la polizia, per via di sistemi
poco ortodossi e rispettosi delle persone. Prendendo spunto da un
articolo apparso il 13 luglio 2018, poco più di un anno fa, sul sito
www.osservatoriorepressione.info
sono 700 i morti per mano della polizia, nei primi sei mesi
dell’anno. Perlopiù causa colpi da fuoco, ma non mancano le
vittime per uso di taser, un mezzo che dovrebbe stordire la vittima,
ma spesso si rivela letale. Di queste vittime molte sono
afroamericane ma non mancano le donne, 65.
Basterebbe andare un
po’ indietro nel tempo, nel 1992 quando a Los Angeles scoppiò la
rivolta dopo l’aggressione a Rodney
King e l’esito vergognoso del
processo a carico dei poliziotti imputati, o soffermarsi sui fatti
narrati da Kathryn Bigelow in quel bellissimo film che è Detroit,
per comprendere come questo sia un problema serio.
Sarebbe sbagliato però addossar la colpa alla sola polizia, in realtà è il sistema delle forze dell’ordine, della carcerazione, del sistema giudiziario a non funzionare. A volte ci giungono storie strazianti di persone innocenti sbattute in galera e della loro discesa agli inferi. Talora riescono ad uscire ma una volta fuori che possono fare? Alcuni hanno firmato confessioni estorte con violenze sia fisiche che psichiche, per questo si raccomanda sempre di parlare solo quando avete a disposizione un avvocato (il problema è quante persone in America possono goder del lavoro di un avvocato e quante invece sono destinate a soccombere contro il sistema), costoro si sentiranno sempre minacciati, avranno paura della polizia, avvertiranno l’ostilità della maggior parte dei connazionali convinti di vivere in un paese libero.
Gli afroamericani sono il 30 % della popolazione americana, ma arrivano al 60 % della popolazione carceraria. Un dato che è aumentato come risposta contro la rivoluzione dei neri americani, tra gli anni sessanta e settanta. Con la scusa della guerra alla droga, iniziata sotto la presidenza Nixon, si è aperta una caccia al povero e all’afroamericano che ha raggiunto livelli altissimi quasi quanto quelli degli arresti di massa nel sud degli Stati Uniti tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900.
Ci sono molte cose che non funzionano nelle prigioni americane, a partire dal fatto che spesso ci finiscono uomini e donne che sono vittime di malattie psichiche, i cui comportamenti autolesionasti o aggressivi vengono sedati con la violenza del corpo di polizia, oppure amplificati dalla vita durissima nelle celle. L’idea che un uomo con problemi mentali venga trattato con gli stessi metodi di un uomo sano è quantomeno discutibile, così come assai discutibile è il modo in cui funziona la sanità all’interno dei carceri. Pochissima attenzione per i malati, cure sbagliate e approssimative, aspetto che viene messo in luce nel documentario Come sopravvivere al carcere di Matthew Coocke, disponibile su Netflix, nel quale attraverso testimonianze di giornalisti, attivisti, detenuti, poliziotti si descrive una nazione repressiva e feroce che usa il sistema penitenziario per colpire duramente tutte quelle persone che fanno parte di categorie economicamente svantaggiate o giudicate pericolose.
Il documentario si sofferma in modo particolare sulle storie di Bruce Lisker e Reggie Cole, entrambi innocenti, entrambi vittime di indagini condotte male da detective alle prime armi, vittime di pregiudizi di razza o aspetto (Bruce aveva i capelli lunghi e occasionalmente fumava erba), o per proteggere un informatore (come il caso di Reggie incastrato per non mandar in galera il tenutario di un bordello informatore della polizia). Per entrambi si palesa subito il problema del costo alto della cauzione. In questo modo dovranno passare anni in galera prima di poter arrivare – forse- al processo. Subiranno violenze di ogni tipo dai detenuti e dalle guardie, fino a quando per motivi diversi riusciranno ad uscire, ma come? Reggie, che di sedici anni ne passa dieci in isolamento, uccide per difesa un uomo in galera, cosa che lo distrugge interiormente. Il problema della cauzione mette in luce la questione classista, cioè come gli Stati Uniti siano un paese dove ai ricchi è garantita una certa impunità o misure meno repressive rispetto a chi non ha soldi o non guadagna abbastanza per poter pagare cauzione, avvocati, sistema sanitario.
L’isolamento è una vera e propria tortura che negli Stati Uniti trova il paese con il record di abuso di questo tipo di prigionia. Il 95 % dei detenuti sotto isolamento ha maggior possibilità di soffrire di paranoia, schizofrenia, tendenze suicide. Le celle senza finestra, di pochissimi metri quadri, il letto in cemento armato, il buio e il cibo pessimo trasformano uomini in esseri disperati. Sopratutto per l’uso continuativo di anni.
I
detenuti però sono una grande risorsa economica
per molte aziende private e per l’esercito, costoro stipulano
contratti con le aziende private che gestiscono moltissimi
penitenziari in America e offrono a chi lo richiede manodopera a
bassissimo costo, da sfruttare legalmente per la produzione e il
profitto economico di multinazionali, grandi industrie e appunto,
esercito.
La deriva della privatizzazione nasce negli anni 80,
quando a comandare c’era Reagan. Risposta all’abitudine americana
degli arresti in massa, dovuti principalmente all’inasprimento
delle pene per reati non violenti legati all’uso delle droghe. la
privatizzazione ha bisogno di un numero sempre alto di detenuti da
poter vendere alle aziende come manodopera. I prigionieri sono
costretti ad accettare perché altrimenti finiscono in isolamento.
Quindi abbiamo di fatto un vero e proprio schiavismo,
a sostegno della produzione e del profitto che mina la favola della
terra delle libertà. Per saperne di più su questo tema, vi
consiglio questo
articolo del Post
datato 10 marzo 2019
Anche il sistema giudiziario è molto diverso rispetto a quello che vediamo in tv. Il pubblico ministero ha a disposizione la polizia, ha un potere molto forte sulla corte, dispone di informazioni che spesso gli avvocati della difesa non hanno. In modo particolare avvocati che difendono detenuti proletari o poveri. Il sistema subisce il peso dei mezzi di comunicazione che pilotano l’esito dei verdetti attraverso le loro immagini, suggestioni e percezioni che offrono all’opinione pubblica la quale agisce pesantemente sotto l’influenza della rabbia del momento. Si tende a patteggiare, a far dichiarare l’imputato colpevole, anche se non lo è, con l’illusione di sconti di pena e altri vantaggi, i quali spesso non ci sono.
Per farvi un’idea più profonda vi consiglio la visione dei documentari The Force, Sopravvivere in carcere, XIII emendamento, sopratutto Time: The Kalief Browder Story, la vera e tragica storia di un ragazzino di sedici anni accusato di un furto mai compiuto che dopo tre anni di isolamento e continue violenze subite per mano di detenuti e guardie, riesce ad uscire dal carcere ma in condizioni tali che lo porteranno ad uccidersi.
In questi giorni si è discusso di totalitarismi, di dittature, ma davvero possiamo chiamare democrazia una nazione che usa la legge per far guerra alle minoranze e ai proletari? Per me no. Non possiamo chiamarla democrazia.
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni