In occasione della giornata mondiale contro il razzismo è stata presentata a Roma la prima ricerca italiana sui discorsi d’odio nei media e on line, promossa da COSPE nell’ambito del progetto europeo BRICKS (Building Respect on the Internet by Combating hate Speech). Quest’iniziativa ha visto la partecipazione della Federazione Nazionale della Stampa, insieme a Articolo 21 e Carta di Roma in collaborazione con www.illuminareleperiferie.it.
Il tema della diffusione dei discorsi d’odio in Italia e del suo contrasto è all’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori politici ormai da tempo, ma ha assunto maggior rilevanza con la grave crisi umanitaria che ha portato in Europa migliaia di profughi e rifugiati, provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Spesso i giornali restituiscono un’immagine distorta di quello che sta accadendo, favorendo in tal modo il moltiplicarsi delle espressioni di incitamento all’odio razziale nei confronti di rifugiati, migranti e minoranze. Inoltre molti esponenti politici (non solo quelli leghisti!) alimentano questa tendenza pompando notizie faziose e cavalcando l’onda dell’odio contro il capro espiatorio di turno, ed utilizzandola a scopi elettorali.
I forum dei giornali online, i commenti a margine degli articoli, le pagine Facebook delle testate nazionali e locali sono ormai piazze virtuali in cui dilagano i discorsi d’odio contro i migranti. Questo fenomeno, difficilmente monitorabile e controllabile, mette in luce un quadro ricco e controverso, e apre il dibattito sui confini fra libertà di espressione e offese. Rispetto alle discussioni “dal vivo”, il dialogo in rete risulta più distorto, meno empatico, e nel momento in cui si conversa sul web, il confronto tra opinioni si fa più veloce, sbrigativo. Rispetto al dialogo faccia a faccia la conversazione on line comporta una esasperazione del proprio punto di vista, che porta a tutti i partecipanti alle discussioni a radicalizzare le proprie posizioni.
I social media hanno il pregio di permettere un confronto diretto con chi produce le notizie, dando la libertà di potersi esprimere su ogni argomento; ma il diritto di diffondere il proprio pensiero si traduce troppo spesso in commenti intrisi di violenza e discriminazione nei confronti del “diverso”.
Nonostante la ricerca non ne faccia menzione, va ricordato che l’hate speech non è solo legato al razzismo, ma si rivolge a qualunque “categoria sociale” non egemone: nella rete possiamo trovare innumerevoli esempi di sessismo, omofobia ecc. Sarebbe però riduttivo limitarsi a parlare di “cyber-bullismo”, in quanto si tratta di veri e propri fenomeni di intolleranza, che non devono essere sottovalutati.
Si tratta di un fenomeno in crescita: nel 2014, l’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) ha registrato 347 casi di espressioni razziste sui social, di cui 185 su Facebook e gli altri su Twitter e Youtube. A questi se ne aggiungono altri 326 nei link che li rilanciano, per un totale di 700 episodi di intolleranza, con un trend in crescita per il 2015.
La ricerca è stata svolta tramite l’analisi qualitativa di casi studio, monitoraggio di articoli esemplificativi e interviste con giornalisti delle principali testate italiane ed esperti del settore. Lo studio è stato portato avanti su due livelli: il primo ha affrontato il mondo della stampa, lavorando a stretto contatto coi giornalisti, principali produttori di informazione, e si è focalizzato sulle modalità di monitoraggio delle notizie e dei commenti dei lettori da parte delle varie testate. Il secondo livello si è sviluppato lavorando con le scuole, con lo scopo di prevenire i discorsi d’odio affrontandoli a livello educativo e culturale, così da creare un nuovo modulo educativo multimediale. In particolare sono stati realizzati corsi di formazione per gli insegnanti, non sempre aggiornati sul mondo dei new media e dei social network. Si è inoltre lavorato coi ragazzi, per sensibilizzarli e renderli più consapevoli della pericolosità dei discorsi d’odio.
Le conclusioni della ricerca non sono confortanti anche per quanto riguarda i siti di informazione. Nei casi rilevati si è riscontrato un uso insufficiente degli strumenti di moderazione da parte delle redazioni giornalistiche, perfino quando il linguaggio si rilevava pesantemente offensivo. La prassi più diffusa è risultata quella di rimuovere il messaggio offensivo, ma manca quasi sempre un intervento esplicito di un moderatore che riporti la discussione su toni accettabili o che richiami i lettori a un uso corretto dello spazio di commento. Lo studio incita i giornalisti e le redazioni ad assumersi la responsabilità di valorizzare interventi più obiettivi e consapevoli, monitorando la qualità del dibattito e guidando i toni della conversazione, al fine di evitare una deriva delle esternazioni. Perché lasciare “liberi” i commenti d’odio significa di fatto legittimarli.
La ricerca è disponibile al seguente link: L’odio non è un opinione
Pubblicato per la prima volta il 24 marzo 2016
Immagine User:Colin (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.