Lunedì scorso Facebook e Instagram (appartenenti, come è noto, al medesimo gruppo industriale) hanno oscurato i profili ufficiali dei partiti di estrema destra CasaPound e Forza Nuova. La medesima sorte è toccata ai profili di molti loro dirigenti e militanti, dal livello nazionale a quello locale, compresi gli eletti nelle istituzioni.
La giornata ha significato anche una particolare coincidenza, poiché in quelle stesse ore il nuovo Governo Conte si apprestava a chiedere la fiducia alla Camera, all’esterno della quale le due formazioni neofasciste, in compagnia di Lega e Fratelli d’Italia, stavano inscenando una manifestazione di protesta (che ha presentato a tratti i connotati di un’adunanza eversiva).
I destinatari del “ban” sui social network sono stati pronti ad attaccare Zuckerberg (il cognome è troppo ebreo per farsi scappare l’occasione, no?) denunziando un collegamento politico tra il conglomerato Facebook, l’Unione Europea e il nuovo governo italiano.
Il gruppo Facebook ha motivato il ban asserendo che i soggetti interessati sono responsabili di istigazione all’odio e violano quindi la policy degli utenti.
Gli esponenti della sinistra e dell’antifascismo hanno mostrato soddisfazione per la decisione di Facebook, alcuni rilevando la necessità di una più ampia regolamentazione del web.
Dmitrij Palagi
Difficile non essere fraintesi rispetto alla notizia che commentiamo questa settimana. Se chi ha nostalgia del fascismo trova meno strumenti per esprimersi e coltivare una pericolosa deformazione della storia (o della realtà) è sicuramente un dato positivo. Certo rimane il fatto che oggi le piattaforme social hanno sostituito una parte della comunicazione politica. Persino i telegiornali citano più un tweet di una nota ufficiale.
Il sistema di informazione si è saldamente ancorato a spazi privati, in cui le proprietà (spesso in capo a multinazionali e che rispondono in modo particolare alla legge) possono decidere liberamente un cambio di regole, purché non penalizzi l’utenza diffusa da cui dipende. L’area di Forza Nuova e CasaPound, a detta di studi dell’ANPI, sapeva sfruttare i social, ma in una misura talmente ridotta da non aver minimamente preoccupato chi gestisce questi canali. Discorso diverso sarebbe se una censura colpisse la pagina Facebook di Salvini.
Di base occorre grande consapevolezza da parte della politica, specialmente di quella sinistra che dichiara di voler superare l’attuale sistema di cose presenti. Perché la realtà virtuale ha il vizio di sostituire facilmente la faticosa quotidianità materiale. Poi però basta qualche minuto per ritrovarsi completamente sconnessi.
Jacopo Vannucchi
L’espulsione di forze neofasciste dal web significa una loro riduzione della capacità di espressione, di propaganda, di penetrazione fra i soggetti culturalmente e socialmente più deboli, nonché della loro legittimazione anche solo per abitudine nel discorso pubblico.
Sotto questo aspetto, il “ban” di Facebook è certamente una buona notizia.
Viene però in mente quel meme intitolato “opponent behind” («l’avversario alle spalle») in cui un ragazzino che deride un soggetto più debole non si avvede di avere alle spalle un lottatore forzuto pronto a mazziarlo (quest’ultimo a sua volta minacciato da un gigante a più braccia).
Anzitutto, il peso politico del neofascismo organizzato è valutabile intorno all’1% degli elettori votanti. CasaPound di recente ha annunciato il ritiro dall’attività politica elettorale, ha perso con Salvini un aggancio al governo e le sorti dello stabile che occupa a Roma sembrano sempre più incerte. Viceversa resta sopra il 30% una forza politica (la Lega) i cui militanti pochi giorni fa hanno compiuto un’aggressione antisemita contro Gad Lerner (per limitarci all’ultimo dei tanti casi di razzismo).
E, soprattutto, la grande questione posta dal ban di Facebook è lo strapotere di colossi privati nell’orientare il dibattito pubblico, nel definire l’accesso alla libertà di espressione e le forme in cui essa si esercita, nonché nel gestire enormi database di dati sensibili. Il potere delle grandi multinazionali insidia quello degli Stati ormai non soltanto nel confronto tra fatturato e Pil, ma anche nella disponibilità di informazioni sui cittadini, che anzi sono ancora più capillari in termini di preferenze e orientamenti personali (altro che la Stasi de Le vite degli altri). Me ne ero già occupato qui.
Nel 1984 di Orwell erano presenti in ogni casa altoparlanti che diffondevano le notizie di regime, di qualsiasi tipo: andamento della guerra, dati sulla produzione economica, o altro. Il loro volume poteva essere abbassato, ma mai spento. Quel tipo di totalitarismo, fondato su uno strapotere statale che inculca la propria ideologia nelle masse, non si è realizzato. Il ri-orientamento del capitalismo verso il consumismo di massa ha generato invece un totalitarismo più sottile, meno immediato, ma molto più efficace. Già Marcuse osservando l’omologazione dei consumi e la Scuola di Francoforte osservando il mondo sempre più amministato da un minuscolo pugno di grandi capitalisti avevano anticipato quello che è l’attuale rovesciamento: oggi sono le masse a fornire se stesse al potere, tramite una partecipazione ai social che esse vivono come atto supremo di libertà.
I social però non sono il demonio: come la stampa, la radio e la televisione sono un mezzo di espressione che deve essere regolamentato. Questo significa almeno tre cose: regolamentare cosa si può scrivere – ma deve farlo il potere pubblico, non il privato; regolamentare come i dati sensibili devono essere gestiti; regolamentare chi deve gestirli. Di recente negli Stati Uniti la senatrice Warren ha con ragione proposto la separazione forzosa dei giganti della Silicon Valley (leggi qui).
Alessandro Zabban
Mercoledì scorso Twitter ha bloccato tutti i profili governativi e dei principali organi di stampa cubana in occasione di un importante discorso del Presidente Miguel Díaz-Canel che annunciava contromisure per superare le difficoltà connesse all’approvvigionamento di carburante dopo l’inasprimento dell’embargo statunitense.
Non possiamo farci dunque nessuna illusione circa le politiche dei giganti del web. Non stanno combattendo il fascismo e non sono interessate a rendere il modo un posto più giusto, tollerante e aperto. Lavorano per tenere in piedi ciò che le ha arricchite: il sistema neoliberista fondato su un mercato globale con pochissime regole che permette loro di generare enormi profitti sfuggendo al fisco di quasi tutti i paesi in cui operano attivamente.
Questi cani da guardia dell’ordine liberale sono dunque pronti a tutto pur di tenere in vita un sistema malato e distruttivo ma che li arricchisce enormemente. Viene così colpito chiunque possa anche lontanamente essere avvertito come un pericolo. Il totalitarismo liberista agisce sempre con nuovi e più sofisticati apparati ideologici che sovente svelano anche la loro componente più propriamente repressiva. Il neoliberismo si sta mangiando il mondo, in nome del profitto sta distruggendo le condizioni stesse che permettono la vita sulla terra. C’è chi ha dei precisi interessi affinché questo sistema non cambi di una virgola. Ma noi continuiamo pure a gioire perché dei fasci sono stati oscurati.
Immagine di Angela Schlafmütze da www.flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.