Quando si tratta di analizzare conflitti sociali e politici in Paesi non occidentali la difficoltà maggiore consiste nel riuscire ad evitare di applicare alla cieca paradigmi preconfezionati. La narrazione più diffusa delle proteste di Hong Kong nella stampa occidentale mainstream risponde ovviamente alla solita logica hollywoodiana dei tiranni cattivi contro un popolo che lotta per la democrazia e per la libertà. In qualsiasi paese non allineato a Washington e a Bruxelles i movimenti di protesta che mettono in discussione l’ordine costituito vengono subito accolti con entusiasmo dai media occidentali, a prescindere dai loro reali interessi e concezioni. Poco importa che questi sedicenti “combattenti per la libertà” si rivelino poi forze abominevoli come L’ISIS, le bande neonaziste ucraine o i mercenari al soldo dell’ultradestra in Venezuela.
La narrazione mediatica tossica è riuscita sovente a raggiungere livelli di faziosità ed ipocrisia davvero vergognosi. Manifestazioni violente se non addirittura veri e propri attentati in paesi non allineati al Washington Consensus vengono descritti come coraggiosi atti di espressione democratica. Ciò ovviamente non avviene quando movimenti violenti di protesta prendono forma in un paese occidentale (come nel caso recente dei Gilet Gialli in Francia).
Il movimento di protesta a Hong Kong ha oggettivamente al suo interno delle frange estreme violente e appare ridicolo che paesi europei dove gli abusi della polizia sono la norma, parlino di feroce repressione del dissenso. Senza feriti gravi né tanto meno morti, la gestione delle forze dell’ordine di Hong Kong è stata del tutto proporzionata se si pensa che alcuni manifestanti hanno preso letteralmente a picconate il parlamento prima di vandalizzarlo. Se un fatto così grave fosse accaduto in Italia, i morti probabilmente non si conterebbero sulle dita di una mano.
Un notevole grado di faziosità accompagna poi il modo con cui vengono raccontate le vicende storiche di Hong Kong. Il messaggio che i media mainstream vorrebbero surrettiziamente far passare è quello di una entità politica dalla grande tradizione democratica. Tradizione che sarebbe messa in pericolo e gradualmente erosa dalle interferenze e dalle politiche accentratrici di Pechino. Ci si dimentica però di ricordare che Hong Kong non è mai stata realmente una democrazia[1]. Strappato alla Cina nell’ambito delle imperialiste e criminali guerre dell’oppio che hanno messo in ginocchio non solo l’economia ma l’intera civiltà cinese, il porto di Hong Kong è stato una colonia britannica guidata per 150 anni in maniera autoritaria da un governatore, nominato direttamente da Londra. Solo per pura ipocrisia ed opportunismo, sono state introdotte subito prima della concordata cessione alla Cina delle riforme in senso democratico quando ormai la Gran Bretagna in virtù degli accordi presi si accingeva a restituire la sua colonia. Che ora l’occidente si faccia paladino della democrazia di Hong Kong non può che non apparire ridicolo ed ipocrita.
La stessa legge sull’estradizione che ha innescato questa nuova ondata di proteste non può in nessun modo essere considerata un sopruso da parte di Pechino. Sappiamo infatti che il modello attuale fondato sul motto “un paese due sistemi” è provvisorio e che in base agli accordi internazionali Hong Kong dovrà ritornare completamente sotto il controllo cinese nel 2047. Non è affatto strano dunque che gli esecutivi di Pechino e Hong Kong mirino a uniformare gradualmente i sistemi giudiziari. La legge sull’estradizione mira esattamente a iniziare questo processo partendo dalla necessità di fare in modo che Hong Kong non rimanga un porto franco per criminali di ogni sorta. L’ex colonia britannica ha infatti firmato solo 20 accordi di estradizione, diventando porto sicuro per assassini, stupratori, evasori fiscali, trafficanti e per il riciclaggio di denaro sporco da tutta l’Asia[2]. Pechino vuole semplicemente che Hong Kong applichi anche nei confronti della Cina continentale gli accordi internazionali di estradizione che già applica con i paesi occidentali. Il rischio che ciò diventi un’arma politica per reprimere il dissenso è smentito dal fatto che la legge riguarda reati comuni sopra i 7 anni puniti in entrambi i sistemi. Quest’ultimo punto è decisivo: per essere estradati da Hong Kong serve la “doppia criminalità”: non basta che il crimine sia tale per l’ordinamento cinese, lo deve essere anche per l’ordinamento di Hong Kong[3] che vanta tutte le libertà civili e la cui magistratura è completamente indipendente. Le critiche alla proposta di legge, comunque sospesa dopo le proteste, si fondano solo sulla paura che la Cina non rispetti la legge che vorrebbe introdurre. È ovvio dunque che per quante garanzie Pechino possa offrire, per il mondo “libero” non saranno mai abbastanza perché c’è un pregiudizio di fondo ineliminabile. E questo nonostante la Cina sia una delle potenze mondiali che più rispetta il diritto internazionale.
Se dunque questo progetto di legge ha innescato una mobilitazione così esplosiva e persistente, le cause reali del malcontento e delle proteste vanno ricercate più in profondità. Se, come abbiamo visto, non possiamo dare credito alle fantasiose ricostruzioni dei media mainstream occidentali, non credo abbia molto senso neppure applicare le più sgangherate teorie del complotto che circolano in questi casi. Il fatto che le potenze occidentali stiano cercando di cavalcare l’onda delle proteste in chiave anti-cinese è ovvio ma piuttosto scontato. Rientra nel gioco delle parti all’interno della nuova guerra fredda che si sta formando. Ma il fatto che paesi occidentali (Stati Uniti e Gran Bretagna in primis) stiano cercando di usare la protesta per i loro fini politici, non significa che le mobilitazioni siano prodotte dal niente dai servizi segreti britannici o costruiti a tavolino dal Pentagono. Non mi sembra si possa parlare di una “rivoluzione colorata” orchestrata da Washington né mi pare abbia senso vedere il movimento di protesta come formato unicamente da reazionari nostalgici del colonialismo britannico, nonostante qualche bandiera statunitense e Union Jack abbia fatto la sua comparsa durante le manifestazioni.
Mentre i principali giornali e media occidentali tendono a focalizzarsi quasi unicamente sulla banale opposizione fra statalismo comunista cinese e democrazia liberale di Hong Kong, alcuni analisti più indipendenti hanno provato a comprendere più da vicino le proteste a partire dalla situazione sociale ed economica di Hong Kong negli ultimi anni.
Quello che, a grandi linee, emerge da queste analisi è che una componente fondamentale del malcontento vada ricercata nel declino di Hong Kong come centro finanziario e di scambio a vantaggio della Cina continentale e in particolare della vicina Shenzhen[4]. Sotto l’ombrello protettivo del modello “un paese due sistemi” la classe capitalista di Hong Kong continua a prosperare grazie alla giurisdizione tradizionalmente favorevole al mercato, residuo della dominazione coloniale britannica. Il regime fiscale accomodante (ricordiamoci che Hong Kong è a tutti gli effetti un paradiso fiscale) ha arricchito una classe capitalista che però ora si trova davanti alla duplice minaccia dell’espansione economica cinese e soprattutto alla spada di Damocle del 2047, quando Hong Kong tornerà alla Cina e i privilegi economici della borghesia se non neutralizzati, verranno sicuramente circoscritti nell’ambito delle limitazioni alla libertà di mercato imposte ai privati e contenute nella filosofia del socialismo con caratteristiche cinesi. Più che una lotta contro la legge sull’estradizione, la protesta ad Hong Kong ha a che fare con la paura da parte dei ceti medi e medio alti di perdere i loro privilegi economici[5]. Anche la lotta per la democrazia va letta secondo l’ottica di poter selezionare una classe dirigente che sia meno vicina politicamente a Pechino in modo da proteggere maggiormente il libero mercato anche nel lungo periodo. Non può stupire allora che contrariamente a quanto avvenuto nel contesto di Occupy Hong Kong del 2014, questa volta i grandi magnati dell’ex colonia britannica si siano schierati piuttosto apertamente a favore della protesta[6].
Sarebbe però un errore squalificare il movimento come puramente manovrato dalla borghesia locale. Nonostante il peso politico della classe dominante non possa essere trascurato, non si può non notare che esistono anche altre forme di rivendicazioni politiche ed economiche che sono finite per confluire in un movimento di protesta estremamente variegato. Il principale bersaglio delle proteste è il capo esecutivo di Hong Kong Cheng Yuet-ngor (alias Carrie Lam) che ha proposto la legge sull’estradizione e che è considerata poco più che un burattino manovrato da Pechino. Tuttavia la grande avversione nei suoi confronti non risiede tanto nel suo allineamento (abbastanza scontato) quanto nelle sue fallimentari politiche economiche e sull’incapacità di risolvere i problemi più concreti e pressanti dei cittadini di Hong Kong.
Con un Coefficiente di Gini per nucleo familiare fra i più alti al mondo e in continua crescita (0,539 nel 2016[7]), Hong Kong è una delle città più inique al mondo. In una situazione in cui l’altissimo costo della vita non va di pari passo con salari particolarmente elevati, il vero dramma è quello abitativo. Molte famiglie sono costrette a vivere stipate in appartamenti minuscoli, spesso ricavati da vecchi vani ascensore, mentre per i giovani le possibilità di comprarsi una casa sono praticamente inesistenti, dati i prezzi elevatissimi. Con una popolazione che è stimata arrivare a nove milioni di persone nel 2030 e con oltre 250,000 persone in liste d’attesa interminabili per una casa popolare, la situazione a Hong Kong sta diventando insopportabile[8]. Mentre il 10% più ricco guadagna 44 volte di più del 10% più povero[9], le politiche abitative sono state del tutto insufficienti negli ultimi anni, malgrado le promesse delle autorità locali. Mentre il salario medio mensile si attesta a 19,100 dollari di Hong Kong (HK$) per gli uomini e a 14,700 per le donne, l’affitto medio mensile per un piccolo bilocale in centro città è di 16,551 HK$[10]. Tenendo conto delle enormi disparità di reddito, il dato appare ancora più allarmante. Sono infatti tanti i lavoratori che percepiscono stipendi in linea con il salario minimo o poco superiori. Dato che il salario minimo è fissato, da maggio 2019, a HK$37,50 all’ora[11] (circa 7,425 al mese), per molti affittare anche solo il classico appartamento da appena 15 m², molto comune a Hong Kong è quasi impossibile. Non è un caso che circa 210,000 residenti siano costretti a vivere nei famigerati e illegali “subdivvided apartments” da 4,5 m² circa[12].
Come si è arrivati a questa follia? La situazione attuale è il retaggio di un sistema malato, un miscuglio di tradizionali politiche coloniali e di capitalismo selvaggio. Le autorità coloniali e postcoloniali hanno tutte adottato un meccanismo di cessione del terreno pubblico per aumentare le entrate. Il sistema ha mantenuto basse le tasse e ha attirato gli affari, ma un effetto collaterale è stato quello di dare al governo l’interesse a razionare la terra per mantenerla costosa. Invece di darla in uso a comuni cittadini, la terra è stata ceduta gradualmente a grandi imprese edilizie che avendo progetti decisamente ambiziosi e i mezzi per realizzarli, avrebbero potuto aumentarne il valore. Si è dunque data la priorità ai grandi costruttori e alla realizzazione di alloggi e infrastrutture di lusso, trascurando invece i piccoli proprietari e gli alloggi popolari. Il sistema ha permesso a una manciata di famiglie di arricchirsi enormemente: pochi magnati hanno costruito gran parte delle abitazioni private di Hong Kong e dato che il governo non offriva alternative, tenendo quel che restava della terra fuori dal mercato, hanno potuto tenere i prezzi molto alti realizzando profitti enormi che gli hanno permesso poi di espandersi in altri settori (trasporti, import/export, ecc.). Buona parte della ricchezza di Hong Kong è da decenni nelle mani di 4 grandi famiglie[13].
In linea con le precedenti amministrazioni, Carrie Lam, non ha fatto praticamente niente per fermare questo processo distruttivo per i ceti popolari. Invece di intervenire sui meccanismi più distorti del sistema la sua proposta principale è stata quella di realizzare un’isola artificiale sulla quale costruire nuovi edifici. La situazione politica ad Hong Kong appare dunque piuttosto paradossale. Il movimento di protesta da una parte vorrebbe delle politiche abitative più eque e che tolgano il monopolio sul mercato immobiliare ai grandi magnati del mattone ma dall’altra vede con timore Pechino e il modello socialista che invece ha dato slancio a una politica abitativa popolare che ha contribuito in maniera decisiva a sradicare la povertà in tantissimi contesti urbani. Questa contraddizione rispecchia la posizione ambigua di Carrie Lam e dei sui predecessori: vicini a Pechino dal punto di vista istituzionale ma saldamente ancorati al modello capitalista di Hong Kong. Si trovano così a essere criticati per essere filo-comunisti e allo stesso tempo per le loro politiche ottusamente non interventiste e mercantiliste che colpiscono i più deboli. I manifestanti ad Hong Kong portano rivendicazioni frammentarie e spurie ma non c’è dubbio che ci sia un grosso rischio che le componenti più imperialiste e di destra prendano la guida del movimento orientandolo in senso reazionario. Per evitare questo Pechino non può fare molto, ogni suo intervento verrebbe visto come una grave ingerenza e una rottura del modello “un paese, due sistemi”. Deve essere il governo di Hong Kong a lanciare un cambiamento epocale che possa migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti. Serve un programma enorme di edilizia popolare e un miglioramento netto delle politiche sociali per rendere Hong Kong più equa e togliere al movimento di protesta il grande supporto popolare che in questo momento ha.
Ma questo significa rinunciare alla tradizionale visione a breve termine che storicamente contraddistingue l’esecutivo di Hong Kong per una pianificazione a lungo termine che si faccia carico del benessere della popolazione.
[1]https://www.washingtonpost.com/outlook/five-myths/five-myths-about-hong-kong/2019/06/21/d72eb0b2-935e-11e9-b58a-a6a9afaa0e3e_story.html?noredirect=on
[2]https://www.abc.net.au/news/2019-06-30/hong-kong-protests-pro-beijing-view-extradition-law-crime/11244250
[3]https://en.wikipedia.org/wiki/2019_Hong_Kong_extradition_bill#Provisions
[4]https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi__hong_kong_la_storia_che_non_leggerete/82_29540/
[5]http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/08/07/hong-kong-la-normalizzazione-non-sara-un-pranzo-di-gala-0117884
[6]https://www.scmp.com/news/hong-kong/politics/article/3019441/extradition-bill-protests-why-have-hong-kongs-business
[7]https://www.bycensus2016.gov.hk/data/Press_release_income_distribution_09.06.2017_Eng_Tables.pdf
[8]https://www.nytimes.com/interactive/2019/07/22/world/asia/hong-kong-housing-inequality.html
[9]https://www.scmp.com/news/hong-kong/economy/article/2097715/what-hope-poorest-hong-kong-wealth-gap-hits-record-high
[10]https://www.scmp.com/magazines/post-magazine/long-reads/article/3019591/why-hong-kongs-angry-and-disillusioned-youth-are
[11]https://wageindicator.org/salary/minimum-wage/hong-kong
[12]https://www.nytimes.com/interactive/2019/07/22/world/asia/hong-kong-housing-inequality.html
[13] Per approfondimenti si consiglia: https://www.timeout.com/hong-kong/blog/tycoons-the-men-who-rule-hong-kong-100416
Immagine di Anne Roberts da www.flickr.com
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.