Si parla spesso di politiche per le pari opportunità, di leggi per contrastare il gender gap, di necessità di azioni positive per raggiungere l’equità tra i sessi, eppure la fantomatica differenza economica e sociale tra uomini e donne continua a perpetuarsi all’interno della nostra società.
I dati del Global Gender Gap Report 2017, redatto dal World Economic Forum, parlano chiaro: l’Italia si trova al 71esimo posto sui 136 paesi analizzati.
Nonostante le metodologie e modalità di misurazione della disuguaglianza tra uomini e donne siano complesse e siano spesso state il bersaglio di molte critiche, questi dati ci mostrano in ogni caso una realtà dei fatti che continua a penalizzare le donne.
Come è possibile allora che le questioni di genere siano nelle agende di moltissimi politici, sia a livello nazionale che intenzionale, ma di fatto si è ancora così lontani da una parità effettiva?
La domanda è estremamente complicata, e nonostante moltissimi studiosi di differenti discipline hanno tentato di risolvere la questione, siamo ancora lontani da poter dare una risposta effettiva.
C’è però un aspetto che bisogna considerare, che non si può ignorare quando si parla di discriminazioni tra uomo e donna: se alcune questioni sono palesi e immediatamente evidenti, altre forme di discriminazione sono nascoste e ben difese da forti meccanismi socio-culturali.
Partiamo concentrandoci sul fattore economico, da considerarsi come un aspetto fondamentale per garantire un’effettiva uguaglianza tra i generi (non a caso le lotte per l’eredità sono tra i pilastri delle battaglie delle donne nella storia).
Il fatto che in media le donne hanno uno stipendio inferiore all’uomo è una discriminazione evidente: secondo i dati dell’ISTAT, il divario salariale tra uomini e donne è del 10,9 %. Questa asimmetria diviene ancora più importante tra le donne e gli uomini laureati, dove la divergenza del salario raggiunge il 36, 3%.
Questi dati, legati al mercato del lavoro, devono essere però essere integrati con alcune discriminazioni economiche che sono legate non al salario percepito ma ai maggiori costi che le donne si trovano ad affrontare durante la loro vita.
In particolare lo scorso anno sono saliti all’onor di cronaca la cosiddetta “pink tax” e la “tampon tax”.
La pink tax non è una vera e propria tassa, ma consiste in quel fenomeno del mercato che, cooptando le differenziazioni tra modelli di genere, crea dei prodotti esclusivamente per donne e bambine che hanno come unica differenza rispetto ai prodotti equivalenti per uomo un prezzo più elevato. Troviamo così i rasoi, i giocattoli e addirittura le penne (!!) color “rosa”, ideate per un pubblico femminile, con il prezzo più che raddoppiato rispetto a dei “virili” rasoi, giocattoli e penne “blu”.
In particolare risaltano subito all’occhio le differenze di prezzo tra i prodotti di cosmesi e per la cura del corpo che esistono tra le merci pour homme e pour femme; ci si ritrova così di fronte al paradosso che le donne italiane, più pressate dal punto di vista sociale a prendersi cura del proprio corpo, sono “costrette” a comprare prodotti estremamente (ed inutilmente) costosi.
La Tampon Tax è invece una vera propria tassa su uno dei prodotti essenziali per l’igiene femminile, che, nonostante le numerose proteste e nonostante sia stata abolita in moltissimi paesi, resiste forte del grande tabù che ancora oggi circonda le mestruazioni.
In Italia gli assorbenti sono tassati come bene di lusso, con l’Iva al 22%; ciò significa che, nonostante non si possa fare a meno dei tamponi, questi sono considerati dalla legge italiana pari a un tablet, un pacchetto vacanza ecc. Si tratta di una questione molto più grave della pink tax, poiché non si tratta di una pura strategia di marketing, ma di un vero e proprio “furto” da parte dello stato a scapito delle donne.
Eppure si era tentato di portare la questione in parlamento: un anno fa alcuni deputati del movimento “Possibile” avevano proposto un disegno di legge con l’abbassamento della Tampon Tax dal 22 al 4%; ma ad un anno dalla proposta, il DDL è ancora fermo in parlamento.
D’altronde dal momento in cui la stampa aveva iniziato a parlarne, questa proposta aveva ricevuto un’accoglienza a dir poco “goliardica”: le mestruazioni non sono un argomento d’interesse nazionale, nonostante riguardino gran parte della popolazione italiana, e innumerevoli sono state le battute da prima elementare, che mettevano in mostra ancora una volta come sia più facile banalizzare il vissuto delle donne e continuare a vivere nell’ignoranza piuttosto che affrontare i problemi che minacciano l’uguaglianza tra i generi a partire dal quotidiano.
Così a distanza di un anno la Tampon Tax, nonostante le raccolte di firme a sostegno della proposta, è rimasta nel dimenticatoio, e ancora oggi le donne si ritrovano a spendere in media più di 250 euro all’anno in prodotti necessari ad affrontare il ciclo mestruale.
Si tratta di un problema che colpisce sopratutto le donne più indigenti, in particolar modo quelle senza fissa dimora, che si trovano ad affrontare la necessità di comprare prodotti costosi per preservare un minimo la propria igiene e il bisogno di vivere dignitosamente.
Se per esempio durante il periodo mestruale una donna non ha la possibilità di accedere agli assorbenti potrà trovarsi nella condizione di auto- isolarsi, o di non poter accedere a molti luoghi. Questi sono solo alcuni dei disagi sociali che si aggiungono a quelli sanitari ed economici della condizione di donna senza tetto.
Questo è uno dei numerosi esempi che si potrebbero fare di come una questione generalmente considerata “marginale” può diventare una discriminazione di genere e di classe, e di come queste “sottigliezze” sommandosi a discriminazioni ben più evidenti, come la disparità salariale, contribuiscono a rendere la posizione sociale delle donne maggiormente precaria.
Ed è proprio in questi casi che bisogna ribadire che il personale è politico: chi non fa esperienza nel quotidiano di queste discriminazioni, che proprio per il loro carattere di tabù, “silenzioso” e nascosto riescono a perpetuarsi nella società e trovano pochissima opposizione (nonostante la palese assurdità di far pagare un assorbente come un bene di lusso), difficilmente potrà comprendere a pieno l’interazione tra assetto sociale ed economico.
Pubblicato per la prima volta il 20 luglio 2017
Immagine di Marco Verch (dettaglio) da flickr.com
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.