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Anche lo Stonewall Inn in Christopher Street, gestito dalla mafia, era un locale per certi versi poco accattivante: niente acqua corrente (i bicchieri usati venivano passati in una tinozza di acqua ferma prima di essere usati nuovamente), niente uscite anti incendio, bagni sempre allagati, niente licenza per gli alcolici, luogo di spaccio e altre transazioni illegali; ma era l’unico locale di New York in cui uomini gay potessero ballare, oltre che uno dei pochi con uno spazio per drag queen, travestiti, effeminati.
Le consuete luci ultraviolette sulla pista da ballo venivano sostituite da luci bianche come segnale in caso di polizia in arrivo (spesso preavvisata da una soffiata), che avrebbe significato tra le altre cose l’arresto di quanti sprovvisti di documenti o in abiti da donna sopra un corpo maschile.
La retata delle prime ore del 28 giugno 1969 iniziò a deviare dal previsto quando le persone in abiti da donna rifiutarono di far controllare il proprio corpo e a ruota altri avventori rifiutarono di farsi identificare; molti resistevano all’arresto incontrando la simpatia della numerosa folla che si era intanto radunata all’esterno, mentre la polizia, impreparata all’escalation, colpiva gli arrestati e sempre con la violenza cercava di contenere la folla, scatenandone la reazione – a partire da coloro che avevano meno da perdere, i marginalizzati, i senzatetto.
All’esplodere della rivolta, parte della polizia fuggì e parte si barricò nello Stonewall per essere liberata poco dopo dai rinforzi, furiosa per l’umiliazione subita, oltretutto per mano delle «fatine» che frequentavano lo Stonewall. Al passaggio all’esterno delle forze dell’ordine dalla folla si alzavano canti, slogan improvvisati, le drag queen posavano; si formò anche una sorta di linea di cancan al canto di «We are the Stonewall girls/ We wear our hair in curls/ We don’t wear underwear/ We show our pubic hair.» [«Noi siamo le ragazze dello Stonewall/ Acconciamo i capelli a boccoli/ Non indossiamo biancheria/ Mostriamo il nostro pelo pubico»], che fu caricata dalla polizia, riaccendendo gli scontri.
Ci sono varie leggende su quale scintilla abbia acceso la miccia – i tratti leggendari dei fatti dello Stonewall testimoniano il profondo significato che essi hanno per generazioni di persone LGBT e non solo – ma tutte le testimonianze convergono sul senso di misura colma, di clima non più tollerabile, condiviso dalla comunità e dal tessuto sociale a lei più vicino. Quella notte, la ribellione alla violenza della polizia e alla repressione da parte dello Stato significò non solo lo smettere di subire e l’iniziare a combattere attivamente, ma anche il mostrarsi allo scoperto, manifestare la propria identità, (ri)scoprirne la dimensione collettiva e la forza. Il 4 luglio 1969, all’Annual Reminder, il morigerato picchetto organizzato dalla Mattachine Society davanti all’Independence Hall di Philadelphia, per la prima volta in anni le coppie gay e lesbiche si tennero per mano.
Da quel momento la visibilità sarebbe stata un tratto determinante della cultura LGBT. Per questo chi le chiede di essere più sobria o meno «divisiva» le sta chiedendo di retrocedere di cinquant’anni di storia, cinquant’anni di battaglie e di conquiste, nei quali la sua visibilità ha incessantemente interrogato la società e le istituzioni, chiamandole a schierarsi. Per questo la comunità LGBT non tornerà a nascondersi.
Diffusasi la notizia, la notte del 28 giugno ci furono nuove manifestazioni in Christopher Street, tra cui secondo alcune testimonianze le prime effusioni gay in pubblico, e nuovi scontri con la polizia; le persone arrestate venivano liberate dall’insorgere della folla. Nei giorni seguenti iniziò una campagna per «cacciare mafia e polizia dai bar gay» e permettere alla popolazione LGBT di gestire i propri bar, mentre il ripetersi degli scontri solidificava l’idea che la comunità dello Stonewall non avrebbe più ceduto le strade del quartiere, uno spazio aperto che apparteneva ormai alla sua espressione. Anche la copertura mediatica della rivolta non aveva precedenti, malgrado non si trattasse della prima ribellione agli abusi delle forze dell’ordine in un bar gay.
L’uso della violenza, l’estetica effeminata ed eclatante scandalizzarono inizialmente settori del movimento omofilo che avevano propeso per l’assimilazione pacifica; ci fu anche chi ritenne la chiusura dello Stonewall un progresso nel decoro del quartiere (un pensiero tanto più significativo con il senno di poi, vista la gentrificazione che ha caratterizzato il Greenwich Village).
Si moltiplicarono assemblee ed eventi organizzativi, mentre su scala nazionale le organizzazioni omofile ripensavano la loro strategia sotto la pressione di chi non si accontentava più di occupare placidamente il ruolo assegnato dalla società; nacque la prima organizzazione esplicitamente “gay” nel nome, il Gay Liberation Front, di breve vita ma di grande impatto nella cultura degli anni a venire, che si allineò con i movimenti contro la guerra e per i diritti dei neri nell’idea complessiva di cambiare la struttura della società americana. Seguì la Gay Activist Alliance, focalizzata sull’esercitare pressione sulla politica locale per il riconoscimento dei diritti di gay e lesbiche.
Un anno dopo le rivolte dello Stonewall, il 28 giugno 1970, le prime Gay Freedom Marches della storia percorrevano le strade di Los Angeles e Chicago, noncuranti delle minacce di violenze e morte ricevute dagli organizzatori, mentre a New York le rivolte venivano celebrate dal Christopher Street Liberation Day; l’anno successivo, oltre ad altre città statunitensi, fu la volta di Londra, Parigi, Berlino Ovest e Stoccolma, mentre la marcia a New York si snodava per 51 isolati; nel 1972 una delle marce era a Washington, D.C.
Secondo lo storico attivista omofilo Frank Kameny, prima dei fatti dello Stonewall le organizzazioni gay negli Stati Uniti erano una cinquantina, l’anno dopo millecinquecento e l’anno dopo ancora si arrivava a contarne duemilacinquecento. Una nuova generazione di attivisti sarebbe stata coinvolta negli anni ’70, in risposta alle campagne omofobiche di gruppi conservatori.
Le marce continuarono a moltiplicarsi in giro per il mondo,
fin dall’inizio coniugando la serietà
delle rivendicazioni con l’irriverenza delle forme.
L’unificazione di una comunità LGBT trasversale per classe, etnie, ideologie,
nazionalità, ma anche molto diversificata per esperienze e situazioni personali
non è stata e non è scontata, anche nel confronto con i movimenti femministi;
per l’esplicita inclusione di persone bisessuali e trans si è dovuti arrivare
agli anni ’90 e 2000, mentre la visibilità di persone intersessuali, asessuali
o non binarie è ancora in costruzione. Allo stesso tempo la capacità di fare
fronte comune e trovarvi forza, anche affiancando
le proprie battaglie a quelle antirazziste e di altre minoranze, con una
costante attenzione all’intersezione tra le diverse forme di ingiustizia
sociale, sembra continuare a rinnovarsi e reinventare una composizione delle
differenze che le valorizza.
Il rinnovarsi delle generazioni e la diffusione di una nuova consapevolezza hanno inevitabilmente trasformato il significato dei Pride e delle forme con cui vi si partecipa; non è raro oggi cogliere un livello di ritualità, di evento con un suo linguaggio ed una sua estetica codificati che tuttavia, lungi dal tradire il significato originale, lo traduce fedelmente per tempi diversi da quelli di cinquant’anni fa.
Come già per il lucrare della mafia sui locali LGBT-friendly, non può sorprendere che il capitale abbia visto nell’attivismo LGBT una cassa di espansione, particolarmente evidente nell’estetica ostentata da tanti marchi e aziende nel mese di giugno; a questo fenomeno va però riconosciuta la giusta misura. Se una certa estetica LGBT-friendly è valutata così vendibile nella società contemporanea, ciò riflette un cambiamento culturale in corso nella società; questo di per sé è un sintomo positivo. Altra cosa è lasciarsi convincere da quella certa estetica di aver vinto la propria battaglia e derubricarla a una questione di scelte di consumo, magari senza notare che lo stesso marchio si pubblicizza con tutt’altra estetica in altre parti del mondo (per non parlare delle condizioni di lavoro dei suoi dipendenti); ma non si può sostenere, senza una profonda disonestà intellettuale, che il movimento LGBT caschi nel tranello.
Allo stesso modo, il pinkwashing istituzionale,
l’apparire inclusivi in superficie senza attuare politiche di cambiamento
materiale, proprio perché superficiale è in parte un sintomo positivo: mostra
l’aver costretto le istituzioni a
schierarsi almeno in apparenza; che figure istituzionali aprano i cortei
dei Pride è indicativo di uno spostamento dei rapporti di forza a favore degli
organizzatori di quei cortei.
Anche queste superfici sono del resto un campo di battaglia, se l’Università di
Pisa che da statuto e da codice etico rifiuta ogni tipo di discriminazione, che
il Comitato Unico di Garanzia da anni si impegna a contrastare attivamente,
l’Università di Pisa che nel 2017 (dopo anni di battaglia da parte degli
studenti) ha istituito il “doppio libretto” per studenti trans trova troppo
«divisivo» che il suo logo sia associato ad un Pride (in questo consiste il
patrocinio).
La questione non va comunque oltre la superficie e non è corretto estenderla oltre, perciò è fondamentale notare come il movimento LGBT non si accontenti del pinkwashing e non si lasci distogliere dalle proprie battaglie, che porta avanti senza sconti; il comitato del Torino Pride per il 2019 ha richiesto la sottoscrizione di un manifesto di principi ai politici partecipanti. Il segno del bilancio complessivo potrebbe suggerire qualcosa da imparare per altri movimenti politici e d’opinione.
Aggiornamento del 4/07/’19: il Comitato Unico di Garanzia dell’Università di Pisa ha in seguito dato il proprio patrocinio al Toscana Pride 2019, che comunque non sostituisce quello dell’ateneo.
La ricostruzione storica è basata sulla pagina di Wikipedia Stonewall Riots. Eventuali segnalazioni per maggiore accuratezza sono più che benvenute.
Immagine Metro-Goldwyn-Mayer/Loew’s, Inc. (dettaglio)
Studia scienze naturali all’Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.