Di voucher e mercato del lavoro (a dieci mani)
La memoria rischia di essere sempre un ottimo motivo per sfuggire al presente, sviare responsabilità e giustificare azioni altrimenti opinabili. Lo studio del passato rientra in una cultura umanistica fraintesa, dove gli eventi vengono poco valorizzati e spesso celebrati, a partire da un centenario della Rivoluzione d’Ottobre in cui molti bramano di poter essere in Piazza Rossa, mentre pochi rifletteranno in modo efficace sulla sua attualità. La differenza tra celebrazioni ed anniversari è sottile, secondo un professore fiorentino di storia contemporanea: si gioca sulla distanza tra il ricordo di qualcosa di morto e la valorizzazione di processi ancora in corso.
Le date, le ricorrenze, le celebrazioni fanno parte di quel calendario individuale e collettivo che uomini e nazioni costruiscono per darsi e rinnovare un’identità.
Ognuno di noi costruisce un proprio calendario mentale con gli anniversari belli (un nuovo lavoro, la laurea, l’anniversario di matrimonio) e con quelli brutti (la morte di un parente, un fallimento lavorativo, la fine di un amore). Allo stesso modo gli Stati, le comunità costruiscono momenti di ricordo collettivo: delle volte folklorici altre sentiti (l’indipendenza nazionale, il santo patrono, il ricordo di un terremoto).
In questo 2017 che inizia vi sono alcuni anniversari difficilmente ignorabili.
Tra i numerosi ne segnalo due. Il primo, la Rivoluzione d’Ottobre (facile da ricordare per me e per quanti mi vogliono bene in quanto giorno del mio compleanno) ha rappresentato un evento unico nella storia dell’umanità: la possibilità per chi lavora, cioè per chi ha sempre costituito la maggioranza di tutte le società umane, di prendere ed amministrare il potere. Non più jacquerie ma la fondazione di uno Stato dai presupposti completamente diversi. È una spinta propulsiva, quella dell’Ottobre che non si è esaurita, ma che costringerà sempre le classi che detengono il potere a confrontarsi con l’eventualità che “anche le cuoche” dirigano lo Stato.
Il secondo avveninento è il cinquecentesimo anniversario dell’apposizione delle 95 tesi di Lutero a Wittemberg. È un evento storico, quello della rottura dell’unità cristiana dell’Europa, periodizzante per l’età moderna e avvio di una serie di mutamenti nell’organizzazione degli Stati e delle società (anche di quelle cattoliche) che lo stesso monaco agostiniano non si sarebbe mai atteso. La recente visita di Papa Bergoglio in Svezia, ospite della locale chiesa luterana, è segno di un tardivo ma irrinunciabile confronto che la cattolicità dovrà avere con il mondo, uscito vincitore idealmente, del protestantesimo.
A noi, che li commemoreremo da casa, queste date forniscano una scusa per riflettere sul passato e cogliere, non strumentalmente, gli elementi che potranno essere fondanti per il futuro.
Se la memoria gioca un ruolo fondamentale nelle nostre vite, il potere utilizza questa intervenendo sulla percezione che abbiamo degli eventi passati. Dunque, il punto continua a restare l’egemonia.
Di conseguenza, la Rivoluzione d’Ottobre nel senso comune finisce per divenire un evento sideralmente lontano, ben più del secolo che ci separa dalla rivoluzione bolscevica. In realtà la rivoluzione che portò alla costituzione del primo stato socialista, dopo il tentativo della Comune di Parigi, è solo l’ultima e più recente nel ciclo delle rivoluzioni dell’età contemporanea. Una rivoluzione profondamente incastonata nella nostra contemporaneità e che diede speranza a quel Terzo Mondo oggi completamente annichilito tra guerre e migrazioni di massa, aprendo la strada a tante nuove rivoluzioni da quella cinese del 1949 a quella cubana del 1959. Queste rivoluzioni socialiste trasportarono le masse nella modernità, viceversa l’ideologia post-modernista continua a opporsi alla modernità. Tra le tesi principali di tale ideologia troviamo l’opposizione all’esistenza di rapporti di subordinazione del lavoro al capitale, nonché della necessità degli Stati per l’economia.
Due confutazioni che evidentemente non stanno in piedi, soprattutto alla luce della crisi scoppiata il 6 agosto del 2007. Un altro anniversario, quello della crisi dei mutui subprime, che rappresenta solo l’ultima manifestazione di una «crisi strutturale». Quest’ultima ha attraversato il XX secolo e sta scaricando i suoi effetti più pesanti nel presente, come qualsiasi può notare. Se si vuole ridare senso al tempo presente bisogna quindi riallacciarsi al XX secolo, coniugandolo comunque alle mutate condizioni, ma con la consapevolezza che esso è più vicino di quel che traspare dalle narrazioni elargite dalle classi dominanti.
La memoria forse mi inganna. Però ho in mente una scena del film Il Concerto, dove un tenero gruppo comunista francese accoglie un personaggio russo con grande entusiasmo, in una sala non piena, rappresentando un meccanismo mentale che richiama la mamma di Good Bye, Lenin!, in cui i figli si adoperano per convincerla che la Germania non si è riunificata.
Di anticomunismo si è nutrita larga parte della pubblicistica contemporanea, da almeno un decennio. Come nella Casa del Terrore di Budapest, nella testa di troppi, svettano la svastica e la falce/martello, a gettare ombre ugualmente oscure sulla storia dell’uomo, nel secolo scorso.
Purtroppo la battaglia è persa, ma non la guerra. Certo sarebbe poco utile identificare in Putin il degno interprete della Rivoluzione d’Ottobre, confondendo la storia di un paese con quel che il 1917 ha rappresentato per tutto il mondo. Lo Stato russo ha il diritto (ed il dovere) di celebrare un evento che cambiò radicalmente la vita del proprio popolo, a cui seguì l’uscita dal primo conflitto mondiale e la difesa dalla barbarie nazista (con la liberazione di larga parte dell’Europa). A chi si richiama alla tradizione di Marx e Lenin spetterebbe un altro compito, partendo da una riflessione su cui paesi in cui il Governo è a guida di partiti dichiaratamente comunisti. La cosa peggiore sarebbe ritrovarsi chiusi in stanze dove ci si trova tutti concordi sul grande valore dell’Ottobre, per poi tornarsene a casa (o a lavoro) facendosi deridere da chi non condivide minimamente le chiavi di lettura con cui si interpreta il presente (e quindi del passato).
Tornare ad essere un soggetto che crea (o contribuisce a creare) storia sarebbe il modo migliore per rendere omaggio a questo centenario. Così come i 500 anni dalle tesi di Lutero sarebbero l’occasione per riflettere sull’identità di un continente che della religione ha saputo fare al massimo un tema di “scontro di civiltà”.
Ci sarebbero molti altri eventi legati alla prima guerra mondiale da ricordare (l’ingresso degli Stati Uniti, Caporetto), così come altri anniversari sono pronti a riempire le nostre pagine Facebook (il golpe dei colonnelli in Grecia nel 1967, il Trattato di Maastricht, et cetera). Il problema è che la storia serve al presente: è l’azione che determina il valore di una teoria, anche nel rapporto con il passato.
A cento anni dalla Rivoluzione socialista d’Ottobre il più interessante confronto tra il 1917 e il 2017 attiene, probabilmente, alla comparazione tra la crisi capitalistica di allora e quella odierna.
Nell’estate 1920, ne L’estremismo malattia infantile del comunismo, Lenin indicava «la legge fondamentale della rivoluzione»: «Per la rivoluzione non basta che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell’impossibilità di continuare a vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti; per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per il passato. […] In altri termini, questa verità significa che la rivoluzione non è possibile senza una crisi di tutta la nazione (che coinvolga cioè sfruttati e sfruttatori). […] l’inizio di ogni vera rivoluzione è caratterizzato dal rapido decuplicarsi o centuplicarsi del numero dei rappresentanti della massa lavoratrice e oppressa, fino a quel momento apatica, capaci di condurre la lotta politica».
Oggi in Occidente le diseguaglianze, il dumping salariale e le magre pensioni che si preparano in prospettiva per le giovani generazioni stanno portando la sostenibilità del sistema al punto di frattura. E si assiste in effetti all’irrompere sul proscenio politico di masse già apatiche ed escluse: Podemos, lo Ukip, il M5s, Pegida…
Le domande che si pongono sono quindi:
1) Queste masse sono «capaci di condurre la lotta politica»? O piuttosto sono condotte?
2) Queste masse sono «coscienti dell’impossibilità di continuare a vivere come per il passato»? O piuttosto reclamano un impossibile ritorno al passato?
3) Gli strati superiori «non possono più vivere come in passato»? O piuttosto sono alla guida di un’offensiva reazionaria tesa a un’uscita a destra dalla crisi generale?
Dopotutto, cento anni fa non era scritto da alcuna parte che il fallimento della classe dirigente liberale (in Italia) o imperiale (in Germania) dovesse risolversi con il socialismo…
Sarebbe sbagliato ritenere l’amministrazione Trump un normale governo della destra petrolifera statunitense, o la Brexit un normale risultato referendario in un Paese storicamente euroscettico. Commentando le elezioni dipartimentali del marzo 2015 l’allora capo del governo francese Valls definì il 25% del Fn «un duraturo rivolgimento del nostro panorama politico». Da allora egli ha denunciato costantemente il rischio di guerra portato dal Fn così come la sua natura fascista in cui il programma sociale ha un ruolo meramente demagogico.
Purtroppo in tutti i Paesi europei i movimenti fascisti sono liberi di fare propaganda politica, preferibilmente tramite menzogne, nella generale impunità. Il massimo di repressione lo si è finora avuto nei Paesi Bassi, dove Wilders è stato condannato sulla carta da un tribunale che non gli ha comminato alcuna pena, neppure pecuniaria. Ma il sistema di Jalta, che aveva garantito la sostenibilità del principio democratico nelle istituzioni occidentali, è franato per lasciare spazio a un sistema selvaggio di relazioni economiche.
A cento anni dall’Ottobre, quindi, le grandi alternative che interrogano un’Europa sull’orlo del precipizio reazionario sono: o un nuovo sistema di Jalta o nuovi sistemi istituzionali. Le forze democratiche conservano ancora la forza per imporre questi ultimi, ma preferiscono lamentarsi della “post-verità” che lasciano cortesemente diffondere ai nuovi Himmler e Goebbels.
«Il tempo di questo affluire è un prestissimo. Le impressioni si cancellano: ci si difende istintivamente dall’assorbire qualcosa e dal lasciarsene impressionare profondamente, dal digerirla» F. Nietzsche
Lo storico francese Pierre Nora scriveva che “non si parla tanto della memoria che quando si comincia a perderla” cogliendo così sinteticamente ma pienamente quello che è il rapporto con il tempo e il passato che è tipico della modernità. La nostra epoca si configura come mutamento continuo e si caratterizza per la velocità con la quale si trasformano le cose. Tutto è schiacciato sul presente, sulla novità, sul prestissimo. La vita quotidiana si frammenta in una lunga e rapidissima serie di stimoli senza soluzione di continuità che rendono sempre più complesso recuperare un rapporto col passato. La nostra irritazione quando una pagina web impiega più di 2 secondi a caricarsi è sintomo di una velocità di fruizione che è ormai radicalmente iscritta e incorporata nei nostri apparati psichici e nei nostri ritmi sociali. Aumenta così la difficoltà di legare in maniera coerente e armoniosa il presente con fatti, situazioni ed avvenimenti del passato perché non si ha tempo di sedimentarli nella memoria. E ciò vale sia a livello individuale che collettivo.
In un epoca in cui il lento accumularsi dell’esperienza vissuta, della storia e della tradizione viene sostituito da un sistema di fruizione che annulla le distanze temporali e che trasforma la comunicazione in una serie martellante di informazioni disparate, prevale quello che Adorno ha definito la “semicultura” ovvero la cultura vuota rappresentata da un patrimonio di semplici informazioni (come le breaking news) slegate fra loro e decontestualizzate. Così, solo con curiosità superficiale o indifferenza strisciante si accoglie la grande quantità di anniversari che il sistema mediatico non si stanca mai di propinarci.
Decontestualizzato, l’interesse per il passato viene così ripulito dalle implicazioni affettive, sociali, culturali e politiche che questo ancora esercita nelle nostre vite e riduce tutto a una mera informazione o a una vuoto cerimoniale. Persino la ricorrenza dei cent’anni della Rivoluzione d’Ottobre, evento che ha segnato tutta l’età contemporanea, rischia di fare la stessa fine, ovvero quella di andare incontro a una sterilizzazione che svuota di significati simbolici profondi un avvenimento, relegandolo a un passato ormai muto. L’alternativa non può essere però neppure la nostalgia che rappresenta l’altra faccia della medaglia dello stesso atteggiamento, dato che rinchiude in un passato che non può tornare qualcosa che invece necessita di vivere nel presente. La contemporaneità ci spinge dunque o a vivere nell’immediatezza e nello sradicamento del qui e ora oppure a rinchiuderci in una chiusa nostalgia, rendendo sempre più difficile fare della storia uno strumento per forgiare identità politiche e sociali autentiche e per suggerire letture del presente alternative a quelle dominanti.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.