La dimensione propagandistica è un aspetto inevitabile in ogni conflitto. Come la guerra viene raccontata, quali immagini vengono evocate e quali parallelismi vengono proposti, sono tutti elementi che hanno una valenza politica molto forte. Nei paesi occidentali la guerra in Ucraina ha portato molti politici e testate giornalistiche su posizioni forti di condanna dell’invasione russa. Ma quando si paragona Putin a Hitler o si qualifica con il termine “genocidio” l’attacco russo in Ucraina, come ha recentemente fatto il Parlamento canadese, occorre chiedersi se ciò non rappresenti un’esagerazione controproducente. Stiamo assistendo cioè a una narrazione estremizzata che rischia di risultare poco credibile? Su questo argomento il “10 mani” della settimana.
Leonardo Croatto
Quando internet era ancora giovane, quando non esistevano i social network ma alcune forme di comunicazione asincrona avevano già cominciato a diffondersi, alcuni frequentatori più assidui – improvvisandosi antropologi – sistematizzarono comportamenti ricorrenti caratteristici della tribù abitante in particolare i newsgroup di Usenet.
La legge di Godwin, anche nota come “argumentum ad Nazium” o con il nome originale di “Godwin’s Rule of Nazi Analogies”, afferma: “As a Usenet discussion grows longer, the probability of a comparison involving Nazis or Hitler approaches one”.
La legge di Godwin è una fallacia retorica, classificabile, a seconda dell’uso, tra le false analogie o tra gli argomenti ad hominem, e, come tale, qualifica la fragilità argomentativa dei soggetti che la usano; la propaganda di guerra, tuttavia, utilizza da sempre ogni strumento disponibile della retorica, inclusi quelli più disonesti: dai richiami emozionali alle fallacie argomentative, tutti questi dispositivi sono in questo momento ampiamente dispiegati sul campo di battaglia del conflitto mediatico che affianca in ogni guerra il conflitto armato.
Non sfuggirà, però, come, in questo scenario particolare, dell'”argomento ad Nazium” si sia fatto da entrambe le parti un uso spropositato: mentre in occidente si attribuisce a Putin e alle sue azioni analogie con Hitler e il Nazismo, in Russia viene fatto lo stesso con l’Ucraina (fatta la tara alla vergognosa condizione per cui il Garibaldi d’Ucraina era effettivamente un collaborazionista dei nazista responsabile di crimini efferati di matrice entica, e ancora è considerato eroe nazionale).
Per restare sui neologismi, lo storico Timothy Snyder usa il termine “schizofascismo” per definire quel femoneo in cui fascisti veri accusano altri di essere fascisti per delegittimarli. I teorici del neonazionalismo russo che accusano altri di essere fascisti stanno precisamente dentro la definizione di criptofascisti.
L’utilizzo spregiudicato di fallacie retorica sui media di tutti i paesi in guerra, a cominciare dal nostro, insegna almeno due cose: la prima è che assumere che stampa, televisione e canale di news su internet siano fonti per informarsi su cosa accade nel mondo è pericoloso in genere, pericolosissimo durante una guerra: il “giornalismo” è per lo più strumento di propaganda. La seconda è che per decifrare i segnali che arrivano dai mezzi di informazione è necessario un armamentario molto complesso e raffinato di strumenti di analisi che, purtroppo, è a disposizione di pochissimi, lasciando ampie fasce della popolazione in balisa di organi di propaganda mascherati da testate giornalistiche.
L’unico antidoto per questo fenomeno è una diffusa educazione che fornisca ad ogni cittadino gli strumenti necessare per evitare i tranelli della retorica. Purtroppo, come insegnano le recentissime vicende politiche del nostro paese, la scuola è sempre la prima vittima della guerra.
Jacopo Vannucchi
Il Presidente francese Macron ha contestato al suo omologo Biden l’uso del termine “genocidio” per descrivere le operazioni russe contro la popolazione ucraina. Biden però ha soltanto aggiunto un’altra riga a un elenco di disinvolture terminologiche che da molti anni procura sconcerto in chi conosce il significato del termine genocidio e, soprattutto, gli esempi storici di genocidio in Europa (la Shoah e il Samudaripen).
La Corte Penale Internazionale, ad esempio, ha definito ufficialmente un genocidio il massacro di Srebrenica, dove le milizie serbe sterminarono tutti i maschi ritenuti atti a portare un fucile – laddove l’eradicazione di un intero gruppo etnico avrebbe richiesto uno sterminio completo.
Molti Stati – in cima naturalmente proprio la Francia – riconoscono come genocidio la strage degli armeni per mano turca nel 1915, ma stranamente nessuno riconosce come genocida un analogo comportamento (deportazioni, marce forzate, denutrizione, detenzione in campi di concentramento) effettuato dagli Stati Uniti contro le popolazioni native.
La Camera dei Comuni del Canada ha votato all’unanimità (!!!) la definizione di “genocida” per l’attacco russo all’ucraina. Il Canada è il Paese con la più grande comunità ucraina all’estero dopo la Russia, ed è chiara la volontà dei partiti di capitalizzare il consenso di un così consistente gruppo di elettori. Molto più opachi sono i conti del Canada con la propria coscienza: è passato soltanto un anno, eppure forse tutti si sono già dimenticati della scoperta di fosse comuni di bambini indigeni che dal 1863 al 1998 il governo canadese strappava alle famiglie e rinchiudeva in orfanotrofi dell’orrore. Un vero peccato che la Camera dei Comuni del Canada non senta alcun afflato umanitario per loro, non provi quel «dolore e vergogna» espressi da papa Francesco alle delegazioni Inuit, First Nations e Metis in merito al coinvolgimento dei cattolici nella repressione.
Questo osceno e ripugnante doppio standard usato dall’Occidente è stato citato dal Presidente Putin nel messaggio con cui annunciava l’inizio dell’intervento in Ucraina: dal bombardamento della Serbia, all’aggressione all’Iraq, alla violazione della risoluzione ONU sulla Libia. Questo è infatti il rischio maggiore: che la spudorata ipocrisia dell’Occidente finisca per legittimare qualsiasi prevaricazione del diritto internazionale, dividendo il mondo in due campi entrambi aggressivi, diversi soltanto nel rapporto ideologico con la violenza: uno che si racconta bugiardamente di esecrarla, l’altro che la rivendica cinicamente come norma condivisa dall’avversario.
Alessandro Zabban
Come il conflitto viene raccontato in Occidente è molto diverso da come viene visto in altre parti del mondo. Da noi stiamo assistendo a un’escalation parossistica di metafore e parallelismi storici che rasenta il ridicolo. Le coordinate e i riferimenti concettuali saltano, prevale una narrazione emotiva che punta a instillare rabbia e odio nel pubblico, i distinguo vengono aberrati in quanto visti come sintomatici di un atteggiamento apologetico nei confronti dell’aggressore. I russi sui social network vengono chiamati “orchi” da un numero crescente di giornalisti e blogger pro-ucraina. Si tratta di una demonizzazione del nemico che si pensava superata con l’Illuminismo. I concetti storici vengono stravolti e così appare ormai normale parlare di genocidio in merito alle vicende in corso.
Con la guerra la sottile narrazione ideologica prende le sembianze di spudorata propaganda bellica, ma facendo così si mostra più facilmente per quello che è, una visione del mondo di parte. Vi è così giustamente una crescente sfiducia nei confronti dei grandi imperi mediatici e di quello che raccontano, anche se ovviamente la loro influenza resta enorme.
La narrazione estremizzata a cui assistiamo però mostra l’isteria di una classe dirigente occidentale che non vuole fare i conti con la propria storia e che usa un metro di giudizio iniquo, dimenticando o addirittura giustificando le atrocità della guerra nei Balcani, in Iraq o Afghanistan. Questo doppio standard oltre a produrre una certa opposizione interna (tutti “putiniani”?) si rende poco credibile anche e soprattutto nel resto del mondo dove si comincia ad averne abbastanza della presunzione di superiorità morale che gli occidentali si attribuiscono.
Immagine: poster di propaganda per l’arruolamento (dettaglio), USA 1917
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.