I cento anni dalla nascita del Partito Comunista d’Italia rappresentano un evento nazionale.
Sono Regione Toscana e Comune di Livorno – il 21 gennaio 2021 – a presentare il francobollo ufficiale dedicato a questo anniversario.
A differenza delle altre principali formazioni politiche del XX secolo italiano è evidente quale sia la diversità comunista: una formazione cresciuta in un ruolo di opposizione (nonostante abbia governato a molti livelli territoriali, dalle città alle regioni), senza mai rinnegare il mito di fondazione, quella rivoluzione del 1917 che è ancora capace di affascinare dalle pagine dei libri di storia, nonostante quanto è seguito alla caduta del Muro di Berlino nelle società occidentali.
Il rischio delle celebrazioni è che siano zattere a cui aggrapparsi disperatamente, nella tempesta di un presente senza orizzonte, oscurato dalle nubi in cui si addensa la paura del futuro, con la deprimente speranza che stando fermi il peggio passerà, per poi riprendere una navigazione più quieta, senza una precisa destinazione a cui tendere e avendo dimenticato il luogo di partenza.
In libreria si accumulano nuove pubblicazioni e ristampe. Le storiche e gli storici si dividono, tra un riconosciuto ruolo pubblico e la banalizzazione del loro impegno, a fronte di un uso pubblico del passato che sostituisce i molti vuoti del sistema politico italiano.
Intere generazioni testimoniano i loro legami sentimentali con quel che c’era e oggi non c’è più.
La già ministra alle politiche agricole alimentari e forestali, Teresa Bellanova, tra le protagoniste di Italia Viva della recente crisi di governo del cosiddetto Conte II, nel ricordare la sua storia all’interno del Partito Comunista Italiano, parla di un percorso che ha portato «all’assunzione di un’ideologia […] post-liberale» (l’Espresso n. 4, 17 gennaio 2021).
Emanuele Macaluso, ricordato come l’ultimo della segreteria di Palmiro Togliatti ancora in vita, morto il 19 gennaio di questo anno, in una intervista a Zoro, molto citata e diffusa in queste ore, afferma quanto poco abbia senso, per lui, definirsi ancora comunista, in assenza del PCI.
Le diverse formazioni comuniste italiane – nonostante la pandemia Covid-19 – saranno in larga parte presenti a Livorno, nel giorno del centenario. Un dovere, in particolare nei confronti di quelle comunità militanti che ancora guardano al simbolo della falce e martello come a un riferimento. Un atto privo però di altri significati, se l’uso della memoria finisce per sostituire l’azione politica nel presente, edificando dei simulacri consolatori. Quello a cui si rischia di assistere è un passaggio rituale di comunità decadenti e ai margini dei processi storici.
Non pochi interventi e pubblicazioni si concentrano sulle due sinistre che si sono scisse quel 1921. In particolare, Luciano Canfora, in una breve e recente pubblicazione (La metamorfosi, Laterza, 2021) tenta una lettura del centenario efficace e netta, specialmente se non la si condivide. La scissione di Livorno, a seguito delle indicazioni ricevute dalla III Internazionale, avrebbe rappresentato una parentesi rispetto al vero ruolo del pensiero marxista: la socialdemocrazia è infatti la vera forza che ha operato nei due secoli passati, con un gradualismo e un approccio riformista in cui sono poi ricadute tutte le esperienze comuniste.
Nello specifico, il “partito nuovo” rifondato da Togliatti avrebbe riportato il comunismo italiano a svolgere una funzione nazionale che avrebbe potuto essere (ancora più) egemone, se non fosse stato per la Guerra Fredda e il veto da parte degli Stati Uniti. La lunga segreteria di Berlinguer avrebbe rappresentato un fallimento di ripensare al ruolo del PCI, in assenza di un consapevole ritorno alla funzione propria della socialdemocrazia, come forza che agisce in modo progressivo, in un legame tra democrazia e istanze delle classi lavoratrici.
Nelle ultime pagine di Canfora si esplicita un paragone tra il cristianesimo e il socialismo. Il 1917 sarebbe stata una parentesi ereticale, analoga alla “scissione” di Lutero nei confronti della Chiesa romana. Una eterodossia necessaria, data la perdita di credibilità della II Internazionale nei confronti della prima guerra mondiale. L’azione di Lenin appare quindi inevitabile e indispensabile, come lotta per la pace, il pane e il lavoro. In quel momento storico si pensava a una rivoluzione necessaria in tutta Europa, quindi si tentò la costituzione delle diverse formazioni comuniste, in rottura con i partiti socialisti e socialdemocratici esistenti.
Quella storia ormai è finita, sostiene Canfora – ma non solo lui. Ora è bene abbandonare i rivoli delle diverse esperienze ereticali e lavorare per una riforma della socialdemocrazia analoga a quella operata all’interno del cattolicesimo con il Concilio Vaticano II.
Utilizzare poche parole di un autore è operazione discutibile. Però è necessario ricordare qui quanto scriveva Gramsci su L’Ordine Nuovo del 12 giugno 1920, facendo riferimento allo strumento di cultura e di studio che aveva voluto fondare: «niente eresie, niente reprobi, perché né chiesa e né convento siamo mai stati».
Chi sovrappone il comunismo a limitate esperienze storiche concrete, selezionando magari quelle che più ritiene simili a quanto attiene al proprio vissuto, accetta e introietta il messaggio lanciato dopo il 1989. I catari sono forse gli eretici che più fascino destano a chi guarda con curiosità al periodo medievale. Di loro non si conosce quasi nulla, se non quanto sopravvive grazie alle trascrizioni dei processi inquisitoriali. Sono ridotti alla narrazione di chi li ha avversati come movimento, sempre che siano esistiti in quanto tali. Lo stesso destino è riservato alle comuniste e ai comunisti, laddove nessuna forza organizzata riesca ad agire nel presente secondo quello stesso spirito di azione che portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia.
Bene fa chi si occupa di storia a evidenziare il ruolo imprescindibile della guerra e del 1917 russo, come principali cause di un episodio di cui si “celebra” il centenario. Deleterio è però ridurre la politica, almeno quella intesa come teoria e prassi, a una mera indagine del passato. Ricondurre tutto alla dialettica di un ristretto gruppo dirigente, perdersi nell’espressione di giudizi sul settarismo di Bordiga, o sulla lungimiranza di Terracini, può solo tradursi in una pratica nociva.
La scissione di Livorno del 1921 ha bisogno di essere difesa politicamente – e quindi anche sul piano storico – nell’uso distorto che del passato viene fatto, anche dalla comunità scientifica e accademica. Si rinnovano, in questo centenario, le teorie di chi vede nel “settarismo” di quella fase una corresponsabilità rispetto all’ascesa del fascismo (per aver indebolito la linea dell’incompreso Turati, per aver spaventato la borghesia, per non aver saputo leggere gli eventi che attraversavano il Paese, …). A queste, definitivamente sparita la III Internazionale, insieme all’Unione Sovietica e a chi ha vissuto la seconda guerra mondiale, si aggiunge chi nega l’attualità della categoria del comunismo.
Il superamento del capitalismo è incompatibile con il suo riformarsi. Se poi le comuniste e i comunisti abbiano un destino di mera opposizione al sistema non è un dato che è possibile sapere. Ogni movimento ha una relazione dialettica con il potere. Canfora non a caso pensa al socialismo come a una chiesa. È il fascino dell’organizzazione che sa resistere al tempo e in cui collocare la propria esistenza, riducendo però la vita delle persone a una storia da studiare, più che un’esperienza reale, concreta.
Il 1921 è l’anno di un partito che sceglie di rompere con la storia della socialdemocrazia e sostenere direttamente le proposte politiche della III Internazionale. Poco conta giudicare quell’atto alla luce delle tragedie del ‘900, che pure è bene siano indagate e studiate, non solo dalla storiografia di matrice o formazione marxista.
La riesumazione comunista è un’operazione funzionale a chi, a sinistra, continua a pensare di poter governare il capitalismo, senza riaffermare la questione sociale e provando a conciliare con i diritti del lavoro le logiche del profitto.
Il centenario rischia di essere una visita a una cripta. Consumato il rituale, ecco che i diversi parenti iniziano a litigare sull’eredità, partendo da Italia Viva, fino alla formazione che pensa di aver interpretato più coerentemente la lezione della rivoluzione permanente.
Qual è la composizione delle classi lavoratrici di oggi? Quali sono i bisogni dell’essere umano che non trovano soddisfazione e causano sofferenze? Come si declinano le pesanti forme di disuguaglianza del nostro tempo? Che tipo di relazioni internazionali possono essere costruite per contrastare le forme di globalizzazione finanziaria che stanno trasformando la nostra quotidianità? Quale alternativa può essere messa in campo rispetto ai protagonisti delle nuove piattaforme digitali?
Sono alcune delle domande che sarebbe utile accompagnassero gli anniversari di una storia che altrimenti fa bene solo al mercato editoriale, a cui è comunque dovuto augurare buona salute.
A chi è convinto che il comunismo e il socialismo siano una chiesa si lascino le funzioni, a chi invece vive il presente guardando al futuro l’augurio è di vivere un centenario calato nelle lotte e nei bisogni dell’oggi.
Non ci sono testamenti da leggere o eredità da incassare. C’è da agire nel presente, con una conoscenza storica che non sia distratta ritualità, per usare l’espressione di Adriano Prosperi, che nel suo ultimo libro scrive della libertà degenerata in liberismo e dell’«abulia di chi abbandona ogni progetto di studio e di lavoro, come risultato della mancanza della speranza nel futuro» (Un tempo senza storia, Einaudi, 2021).
Immagine: dettagli da foto di Sailko, da wikimedia.org
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.