Nell’ambito della ricerca di una modalità per abolire il maschile sovraesteso ai gruppi di genere misto (che implica ad esempio usare il maschile “cittadini” per riferirsi alla pluralità delle cittadine e dei cittadini), è recentemente emersa la proposta di includere una nuova vocale, lo schwa (ə). I favorevoli a questa iniziativa rimarcano il carattere inclusivo del simbolo, in grado di rappresentare linguisticamente chiunque, donne, uomini e chi non si riconosce in nessuno dei due generi. I detrattori della proposta tendono invece a metterne in luce l’estraneità rispetto alla tradizione linguistica italiana.
Leonardo Croatto
Ho l’immpressione che il dibattito sull’uso del neutro nella lingua abbia una dinamica sganciata dalla dimensione strettamente tecnico-linguistica. Seguendo il dibattito pubblico e generalista, le posizioni, specialmente dei non addetti ai lavori, insistono non tanto sulla lingua in sé, ma sulla lingua come strumento relazionale.
Se, cioè, si assume che la lingua sia un sistema con cui i membri di una comunità strutturano le loro relazioni, con una sua determinazione storica ed una sua maturazione in relazione col contesto sociale in cui vive, allora, come qualsiasi strumento che agisce sulla società, dobbiamo immaginare che sia in qualche modo sovradeterminata. Che, cioè, chi ne ha il controllo ne imponga un uso per il raggiungimento di un fine più o meno esplicito.
Date queste premesse, l’impressione è che il dibattito sulla modificabilità o meno della lingua sia in realtà un confronto sull’uso della lingua per un fine, e quindi sulle sovradeterminazioni che la lingua subisce. Prendere parte a questo dibattito vuol dire prendere una parte nella contesa sull’uso politico della lingua e sugli effetti che si intendono ottenere sulla società che quella lingua utilizza.
Il confronto è quindi tutto politico e molto poco linguistico, e, al di là delle posizioni a favore della conservazione o a favore dell’evoluzione, la contesa è sulle dinamiche sociali che si intende innescare con quegli interventi, e quindi, alla fine, sul modello di società che si immagina. La lingua, in questo caso, è solo il campo da gioco.
Piergiorgio Desantis
L’utilizzo dello schwa ha smosso gli animi tra chi è a favore e chi è contrario (con annesse petizioni). Le posizioni si sono polarizzate con estremismi inutilmente manichei. Il tentativo di riforma linguista che viene proposta dall’alto ha una provenienza universitaria liberal statunitense, ma anche è collegato al movimento antirazzista e femminista che dà continui segni di vitalità al di qua e al di là dell’Atlantico (ed è cosa assai positiva). Oltre alla possibilità di discettare intorno alla connotazione di genere linguistica, forse sarebbe bello ricordare alle fazioni in campo che non si tratta di una battaglia decisiva né per un né per l’altra. Al di là del tentativo di migliorare e correggere la lingua italiana proveniente da menti “illuminate” (cosa, tra l’altro, già successa nella storia) sembra risultare comunque una proposta forse riduttiva. Nonostante la spinta propulsiva degli anni ’60 e ’70 del ‘900, la società italiana continua a essere assai arretrata nei diritti civili/sociali e segnata da profondi ritardi a comprendere ed elaborare (giuridicamente ma non solo) alcune forme di genere e di sessualità che, comunque la si pensi, esistono.
Dmitrij Palagi
L’uso della vocale scevà (ə) crea mediamente delle difficoltà pratiche: figurarsi la sua versione plurale (з). Per scriverla spesso si finisce per fare copia incolla. Scomodo? Può darsi. Ma lo stesso avveniva – almeno nel mio caso – per la È, che spesso si trova scritta E’. Basta perdere qualche minuto per capire come risolverla: le soluzioni esistono e davvero è sufficiente un motore di ricerca.
Il punto è quale è la priorità? Dare per scontate le proprie abitudini e ritenere un attentato chi le mette in discussione? Liquidare come vezzo intellettuale questioni proprie di intere comunità, impegnate a capire come è meglio comunicare?
La scelta di costruire fronti contrapposti è sempre il modo migliore per evitare di entrare nel merito delle questioni: in società parcellizzate e atomizzate, dove ogni singola persona è convinta di dover giudicare, con facilità ed efficacia si può ottenere la nascita di contrapposte tifoserie, specialmente usando gli spazi digitali.
L’uscita di un appello firmato da figure intellettuali riconosciute dalla sinistra conferma quanta scarsa consapevolezza ci sia degli strumenti utilizzati in questo stranissimo XXI secolo. Ci suggerisce inoltre quanto sia discutibile il “principio di autorità” dato per scontato in troppe teste. La lingua è uno strumento, necessariamente formalizzato ma al tempo stesso inevitabilmente aperto alle modifiche legate al suo uso. ə e з non sono la risposta? Fino a che non ne arriveranno di migliori non dovrebbe essere un problema vederle usate: soprattutto se sulla tastiere sarà più facile digitarle. Magari imparando anche a usare la È.
Jacopo Vannucchi
Alessandro Zabban
La proposta di utilizzo dello schwa si inserisce in un tentativo di riforma linguistica che permetta una rottura con la struttura patriarcale della nostra grammatica e che si orienti a fare della lingua un veicolo di una nuova sensibilità di genere inclusiva. Una lingua è un sistema complesso soggetto a mutamenti ma occorre chiedersi se possa o se sia giusto che possa essere modificata nei suoi elementi strutturali a tavolino.
Chi difende le modifiche ha ragione nel vedere nella lingua uno spazio di contesa politica: il modo in cui interpretiamo la realtà è influenzata, almeno in parte, dalle nostre categorie linguistiche (come ipotizzavano i linguisti Sapir e Whorf), anche se forse alcuni tendono ad esagerare l’influenza che il maschile sovraesteso nella nostra lingua possa avere nel plasmare una diffusa sensibilità di genere. Le lingue, anche nelle sue regole grammaticali più profonde, non sono mai statiche e ciò è tanto più vero se si considera la nostra storia linguistica, facendo riferimento in particolare al lento passaggio dal latino all’italiano passando per il volgare. Ma uno dei grandi problemi che ha caratterizzato la nascita dell’italiano (e che esiste in parte ancora oggi) consiste in un’ampia divaricazione fra una lingua ufficiale, alta, letteraria, e una lingua informale, bassa, dell’uso popolare. La lingua proposta dall’alto da intellettuali come Pietro Bembo, era di fatto solo usata da una ristretta élite culturale e ci sono voluti secoli affinché anche le varianti di italiano popolare della lingua parlata venissero prese seriamente in considerazione (vedi A. A. Sobrero, A. Miglietta, Introduzione alla linguistica italiana).
Modernamente, appare dunque veramente difficile poter ancora concepire la lingua come una serie di regole calate dall’alto o decise dagli intellettuali, senza che abbiano attinenza con la lingua dell’uso quotidiano. Le lingue infatti sono il risultato mai definitivo e sempre in divenire delle innovazioni che vengono spontaneamente appartate dai popoli che le parlano.
La proposta dello schwa, pur rappresentando un’iniziativa dagli intenti nobili, si presenta dunque come un artificio, pensato a tavolino da un gruppo di intellettuali. Solo se tale pratica si dovesse diffondere nel popolo e iniziasse a essere usata dalle persone comuni negli scambi della loro vita quotidiana potrebbe essere presa seriamente in considerazione, promuovendo una necessaria ristandardizzazione linguistica su vasta scala. Allo stato attuale però, una lingua italiana che integrasse ufficialmente lo schwa, si caratterizzerebbe solo come una variante alta, parlata (o peggio, solo scritta) da una gruppo ristretto di intellettuali, senza alcuna attinenza con l’uso vivo della lingua e lontana dai modi di esprimersi del popolo.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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