Il 3 febbraio scadrà il settennato di Sergio Mattarella cosa che comporta che alla fine di gennaio avremo le prime votazioni per il suo successore. In questi ultimi mesi abbiamo assistito ad una sorta di corsa di posizionamento delle diverse forze politiche per appropriarsi del nome del prossimo presidente, in una sorta di partita a scacchi dall’esito ancora incerto.
Di questa partita ne parliamo a più mani questa settimana.
Leonardo Croatto
Che da tempo sia in corso una deriva verso un rafforzamento degli esecutivi e un indebolimento delle assemblee legislative e, più in generale, dei luoghi di discussione e deliberazione collettiva è un dato evidente, che merita poco investimento di tempo nella dimostrazione. Sono molti e trasparenti i passaggi che hanno spinto il nostro sistema di rappresentanza democratica in questa direzione: dal sistema elettorale dei comuni alla trasformazione dei partiti in comitati elettorali al servizio di un notabilato immortale, dall’eliminazione del voto per le assemblee provinciali alla riduzione del numero dei membri di camera e senato, dalla deriva maggioritaria dei sistemi elettorali fino alla deificazione del ruolo di presidente del consiglio.
Tutti questi passaggi sono serviti a costruire, nella percezione degli elettori prima ancora che nelle norme, una diversa rappresentazione del meccanismo dell’affidamento della delega di rappresentanza rispetto a quella prevista dalla costituzione del dopoguerra, con uno spostamento del ruolo della politica da strumento di partecipazione collettiva a luogo di gestione del potere riservato a una ristretta cerchia di professionisti. Così come il meccanismo di concentrazione economica in monopoli è caratteristico dell’economia capitalistica, analogo meccanismo di generazione di monopoli di potere decisionale caratterizza le democrazie liberali.
Un ulteriore passaggio di questo processo è l’aggressione al ruolo di garanzia del presidente della repubblica, unica figura istituzionale che continua a mantere la fiducia dei cittadini. Anche in questo caso, non è affatto una novità che tutto l’arco delle forze politiche parlamentari, dalla destra più reazionaria ai partiti sedicenti progressisti, vedano con grande interesse la trasformazione del nostro sistema parlamentare in un sistema presidenziale.
Piergiorgio Desantis
L’avvicinarsi della data dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica italiana avviene in un percorso, lungo di anni, in cui avanza un presidenzialismo di fatto in modo sempre meno strisciante e, ora, sempre più esplicito.
Ultimo passo è stata l’autocandidatura del Presidente del Consiglio Draghi con parole che sembrano ricalcare quelle del buon padre di famiglia (anzi del buon nonno di famiglia).
Parole affabulatorie che provano a approcciarsi all’opinione pubblica come persona seria e competente che, ovunque sia posizionato, possa far bene per tutti. Chiaro che, a questo punto, il Parlamento svolga, almeno da una quarantina d’anni, una funzione di ratifica di accordi e decisioni prese altrove sulle quali può svolgere compiti sempre più limitati.
A quest’elezione, probabilmente, ci saranno una o più candidature provenienti da figure esterne ai partiti, quindi non presenti nel Parlamento. Quest’ultimi sono sempre più in una situazione di impasse, vista anche la loro partecipazione a uno dei governi con più ampia maggioranza, dove ci sono quasi praticamente tutti e con poche eccezioni. Ecco perché c’è comunque da augurarsi che la figura scelta sarà comunque più custode della Costituzione della Repubblica italiana piuttosto che di vincoli di trattati economici che, come è sotto gli occhi di tutti, vanno per lo meno modificati date le condizioni di emergenza in cui viviamo.
Francesca Giambi
A gennaio andrà in scena l’ultimo atto di questo momento storico: l’elezione del 13° presidente della Repubblica Italiana. Dovrebbe essere uno degli eventi più alti della nostra democrazia, ma assistiamo a manovrate squallide, raffazzonate, di una classe dirigente non all’altezza ancora prima della prima votazione.
Non si comprende che prima di tutto il Presidente della Repubblica, secondo la nostra Costituzione, ha delle funzioni molto precise e non può essere individuato tra personaggi della politica “di parte”. Questo giochetto tra destra e sinistra non porta a niente. Sono già alcuni mesi che politici, storici, opinionisti, politologi, giornalisti occupano spazi nelle tv per prospettare le loro previsioni; basterebbe il mago Otelma!
È veramente terrificante.
Alla domanda “sarà una donna?”, imbarazzo generale; eppure di donne che potrebbero essere degne presidenti ce ne sono parecchie… non certo la Casellati, esponente della più bieca restaurazione, non certo la Bonino o la Moratti, una delle peggiori ministre dell’istruzione… ma perché non la Bindi? Perché non la Zampa o la Finocchiaro? Perché di parte? Ma cosa vuol dire?
Il Presidente della Repubblica dovrebbe essere il garante della Costituzione, dovrebbe essere moralmente integerrimo, dovrebbe essere europeista e un rappresentante degli interessi della nostra Italia, non interessi personali, dovrebbe firmare o respingere per modifiche le leggi, quindi le dovrebbe conoscere anche molto bene.
Si può pensare di candidare Berlusconi? Penso che sia davvero una barzelletta, ancora più barzelletta è stata quella di pensare a lui come un patriota!
Dietro tutto questo c’è la volontà non esplicitata di bruciare tutti i nomi fatti per poi convogliare, ob torto collo, su Mario Draghi.
E allora il Presidente del Consiglio? Non credo assolutamente che Draghi possa essere tutti e due.
Affidare alla Casellati l’incarico? Speriamo di no, non è stata adeguata mai nelle riunioni del Senato. Ci sarebbe Paolo Gentiloni, dimessosi, stranamente, da commissario europeo, ed abbastanza neutro e “democristiano”… Ma tutto questo prevede che le forze in campo siano disposte a non giocare più. Come cittadini aspettiamo decisioni serie, e non una squallida guerra a chi a più forze e numeri (che non tornano mail…).Non si può pensare che Mattarella, responsabile dell’arrivo di Draghi, possa rimanere per permettere a Draghi di proseguire il suo compito. Forse è ciò che la maggior parte di partiti vorrebbe in modo da completare l’altra azione contro la Costituzione rappresentata da un premier di fatto Presidente. No, sarebbe veramente terribile. Già la diminuzione dei parlamentari sta creando problemi non indifferenti, penso soprattutto ai vari cambi di casacca continui… la prima cosa dovrebbe essere una riforma elettorale, non basata sui sondaggi; per me dovrebbe essere una riforma elettorale proporzionale con sbarramento e non maggioritaria per dare voce a realtà non presenti nel nostro parlamento ma vive nella società, così anche da vedere se il trend dell’assenteismo si inverte per la maggiore rappresentanza.
L’appello un poco patetico di incontro fra tutte le forze per un nome mi sembra già fallimentare: nessuno rinuncia alle proprie bandierine, e non si può ripetere la scandalosa vicenda di Prodi…I 101 ci sono ancora. Penso a personaggi del PD che non vogliono il rientro di Bersani e D’Alema nel partito. Che squallore!
Personalmente reputo che Bersani possa essere un ottimo Presidente della Repubblica, anche più empatico e sanguigno rispetto ad altri.
Voteranno il Presidente 1007 tra parlamentari e delegati regionali: nei primi tre scrutini occorrono 672 voti per essere eletto, dalla quarta ne bastano 504. Pensate che non aspettino la quarta votazione continuando a bruciare qualsiasi nome della “fazione” opposta? Penso con tristezza a Stefano Rodotà… i termometri quotidiani vedono in salita Casini e addirittura Amato (83 anni)… ma anziano per anziano non sarebbe stato straordinario pensare alla Segre?
Dmitrij Palagi
Il nonno del Paese, succeduto all’Avvocato del popolo alla Presidenza del Consiglio e pronto alla Presidenza della Repubblica?
La “prima donna” nella storia italiana? L’uomo di Arcore, un tempo incubo e quasi unica ragione di vita della sinistra? Molte altre ipotesi si potrebbero aggiungere, in una nazione in cui si parla molto (troppo?) di politica interna intesa meramente come collocamenti e “cronache”.
Le “tradizioni” si fanno norma, mentre chiunque ha un parere da esprimere su una prerogativa parlamentare, mentre la torsione presidenzialista è un’ombra che si allunga da molto tempo, a prescindere dal “precedente Napolitano”.
Le ultime generazioni di vecchi equilibri stanno cercando di capire quello che verrà, con partite europee di cui si hanno invece pochissime informazioni, nonostante il futuro di Merkel debba tenere conto del futuro di Draghi.
La realtà di base del nostro assetto dovrebbero essere i partiti, come forma di partecipazione della cittadinanza: non funzionando questi diventa difficile che il resto possa seguire i dettami della Costituzione.
In questo la vittoria della stagione berlusconiana appare completo, con il Movimento 5 Stelle che ormai a tutti gli effetti appare la certificazione di quanto sia stata forte l’influenza di Forza Italia nel passaggio al nuovo millennio. Oggi la realtà creata da Beppe Grillo è quella ha maggioranza relativa alle Camere, mentre il “partito di Mediaset” è ai minimi storici. Ma è il secondo che ha definito molte delle regole dell’attuale partita, da cui manca soprattutto la politica. Può esistere senso dello Stato senza adeguato funzionamento delle istituzioni e di chi ne fa parte?
Jacopo Vannucchi
Uno tra i filoni più in voga sulla stampa mainstream evidenzia con preoccupazione la fragilità del sistema dei partiti in vista dell’elezione per il Quirinale. Il M5S è il principale partito parlamentare, ma non riesce a definire la propria linea; la destra è la principale coalizione, ma è divisa al proprio interno e appare priva di una strategia; nessun altro partito può guidare una soluzione partendo dalla forza dei numeri.
Se ci si sforza di analizzare il fenomeno uscendo però dalla consueta lamentazione antiparlamentare, che è al tempo stesso oligarchica e qualunquista, non si può non notare che la farraginosità del quadro politico discende dalla frantumazione del Nuovo Ordine che voleva imporsi nel 2018: la saldatura reazionaria di un blocco storico fra profittatori del nord e redditieri del sud, con un esercito di spostati e diseredati come base di massa. Quel blocco era strettamente legato a condizioni internazionali poi allentatesi e ora radicalmente modificate dalla pandemia, ma aveva anche qualche causa endogena.
Causa endogena prossima ne fu la sconfitta del tentativo di riformare la Costituzione nel 2016; causa endogena remota, semplificando, la costante erosione patrimoniale della piccola borghesia italiana, che aveva già sparso la rivolta anti-istituzionale.
Oggi la causa remota potrebbe essere avviata a soluzione, se in UE si affermerà una revisione delle regole di bilancio in direzione di investimenti e occupazione; tuttavia a ciò è necessario il concorso degli Stati nazione a tale revisione, e l’Italia non ha ancora risolto la sua causa prossima. L’instabilità dell’esecutivo e l’ingorgo del legislativo restano lì dov’erano nel 2016, peggiorati dall’ultimo colpo di coda del Nuovo Ordine (col gentile concorso PD): la mutilazione della rappresentatività parlamentare.
Istituzioni inservibili possono diventare “servibili” solo tramite forzature di diritto o di fatto. Sulla forzatura di diritto si muove un PD che è da tempo il partito del “pilota automatico” UE (poco conta che sia la UE di Schäuble o quella di Scholz), con sempre più umilianti taglia-e-cuci costituzionali, cattivo ultimo il ddl per vietare la rieleggibilità del Presidente della Repubblica. Sulla forzatura di fatto si colloca invece il semi-presidenzialismo di fatto diagnosticato, più che invocato, dai sostenitori dell’elezione di Draghi al soglio quirinalizio.
Un semi-presidenzialismo draghiano potrebbe effettivamente significare sette anni di un saldo timone per la costruzione di un nucleo italo-franco-tedesco che indirizzi il potere europeo sulla via di investimenti pubblici e di libertà positive e sociali oltre alle economiche libertà negative già vigenti. Certo è un peccato, quasi un’ineleganza della storia, che invece di una Costituzione formale con un esecutivo più stabile e un legislativo più forte, qual era quella proposta da Renzi e Boschi, si debba compiere l’impresa con una Costituzione materiale che accentra il potere in una magistratura monocratica eletta da un sistema partitico frantumato e da un Parlamento condannato alla mutilazione. Ma è tardi per piangere sul latte versato il 4 dicembre 2016.
Alessandro Zabban
Le manovre politiche per il Quirinale avvengono in una fase di emergenza sanitaria che amplifica la cesura simbolica che c’è fra la politica e il popolo. La prima è vista sempre più solo come una pratica di palazzo e non come aspetto fondante della vita civile. I governi “tecnici” hanno esasperato questa deriva e l’esaltazione di Draghi come salvatore della Patria ha ulteriormente svilito la politica in una culto della vuota competenza. Mentre i ritardi sulle terze dosi e gli errori nella gestione dell’ennesima ondata pandemica sono sotto gli occhi di tutti, l’aura incantata che circonda la figura di Draghi non cessa di esistere. E le sue volontà e aspirazioni politiche diventano il Verbo a cui attenersi scrupolosamente, in barba alle idee e ai principi che dovrebbero guidare un Parlamento nello scegliere un Presidente della Repubblica. Alla democrazia parlamentare si sostituisce il meccanismo delle porte girevoli. Se la partita per il Quirinale è ancora aperta, è solo perché i partiti sono tutti troppo deboli per rimanere orfani dell’attuale Primo Ministro, i cui risultati sono a dir poco controversi ma che gode della più completa riverenza da parte del sistema mediatico e politico.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.