Sicuramente la pandemia ha rappresentato un momento di crisi da molti punti di vista: sanitario, sociale, economico e in certi casi anche di legittimazione politica. La narrazione mediatica ha associato questo grande momento di difficoltà individuale e collettiva con il 2020, in tutto è per tutto rappresentato come vero e proprio annus horribilis a livello globale. Tutto questo permette di marcare un netto contrasto con quello che c’era prima (davvero stavamo così bene?) e soprattutto con quello che verrà dopo: il 2021 viene pensato come l’anno della ripresa, del ritorno alla normalità, dell’uscita dal tunnel, grazie anche alla facile associazione fra l’avvento del nuovo anno e l’arrivo dei vaccini che promettono una svolta nella lotta al Covid-19. Ma su questa lettura un po’ semplicistica restano alcuni dubbi. Davvero con il nuovo anno ci lasceremo indietro tutti i problemi che hanno afflitto il 2020? Davvero senza cambiare radicalmente la società e i comportamenti individuali potremo sperare in un futuro radioso? Sull’elaborazione di speranze collettive in tempi di pandemia, il 10 mani della settimana.
Piergiorgio Desantis
Il 2020 si chiude con visuale su un mondo piuttosto rivoluzionato, anche per chi si pone nella prospettiva di conservazione o nel ritorno allo status quo. Non c’è più traccia (almeno per il momento) di politiche di austerity, di pareggio di bilancio e di riduzione del debito, mentre si allarga sempre di più una politica espansiva di tutti gli stati a partire dagli stessi USA. Il congresso USA ha approvato, in data 22 dicembre, un megapiano di aiuti a famiglie e imprese da 900 miliardi di dollari. Ciò dimostra che davvero qualcosa è cambiato nelle idee che circolano con meno dogmi (forse). Si riesce a intuire, però, che si tratterà, almeno nelle intenzioni, di misure che si immaginano provvisorie o almeno passeggere. Mario Draghi e Raghuram Rajan, in un lungo paper inviato al G30, chiedono un uso selettivo del debito, una volta passata l’emergenza. Inoltre si chiede una “certà quantità di distruzione creatrice: la aziende zombie vanno chiuse”. Sono dunque tanti gli interrogativi che si affollano nel 2021 a partire della diffusione del vaccino, che da solo non fa miracoli, ma che aiuterà a evitare ulteriori morti e a contenere la pandemia.
Francesca Giambi
Con la chiusura dell’anno ed il 2021 alle porte la situazione attuale e passata invitano a fare una riflessione su quella che potrebbe essere la situazione futura.
L’anno appena trascorso ha mostrato le molte fragilità di modelli di società che fino a prima della pandemia parevano funzionare. Parevano, non funzionavano. Ci siamo scoperti deboli in settori che negli anni abbiamo depotenziato solo in nome di un tornaconto economico: la sanità e la scuola in primis, ma abbiamo anche subito le scelte di “economicizzare” la cultura e le attività culturali. E soprattutto abbiamo perso tempo, molto tempo.
I mesi di chiusure forzate imponevano riflessioni profonde sui modelli da non continuare a perseguire e programmazioni ed idee per una ripartenza “diversa”, ma non è stato fatto. Manca il coraggio spesso di prendere decisioni e vie impopolari, ma che paghino sul lungo periodo. Penso, come accennato sopra, a tutto il comparto culturale, soprattutto nella visione “italiana” che sia qualcosa con cui “non si mangia”, salvo poi affidare gli introiti e le modificazioni di alcune città principalmente al turismo ed al “gusto” del turista; ed ecco che in mancanza di questo si entra in crisi, le attività “snaturate” chiudono e non si riesce a vedere una soluzione.
Oppure alla scommessa persa di città più ecologiche soprattutto con sistemi di trasporto urbano ed extraurbano non solo degni di quella parte di Europa un po’ più “green”, ma anche di una visione del territorio pensata in primis per i cittadini ed i lavoratori ma in pratica per tutti.
L’anno appena passato ci ha cambiato e ci ha resi maggiormente “egoisti”, ha visto molti lottare come singoli e non come comunità, categorie divise ciascuno per risolvere la propria situazione, non capendo nel profondo che siamo parte di una comunità più grande. Abbiamo visto acuirsi il divario tra alcune categorie, tra quelle considerate essenziali e quelle no, tra i dipendenti pubblici ed i lavoratori autonomi, quasi ad alimentare la tendenza sempre maggiore al “tifo da stadio” che caratterizza anche la politica attuale.
Le premesse quindi non sono buone, anche se è iniziata la campagna vaccinale che sembra porti con sé la bacchetta magica di risoluzione dei problemi, ma che in realtà ci permetterà, anche se non immediatamente di riprendere la nostra vita precedente. E questo non è detto che sia un bene…
Dmitrij Palagi
Il 2021 sarà un anno di svolta?
Sicuramente di cambiamenti, almeno nella percezione della vita quotidiana, che dovrà adattarsi a un contesto pandemico destinato a non risolversi in tempi brevi.Rimane curiosa l’irresponsabilità della politica e delle istituzioni nell’affermare di scorgere la “luce in fondo al tunnel” con grande solerzia. Viene in mente la famosa battuta che evidenzia come potrebbero essere anche i fari di un treno pronto a travolgere nella sua corsa chi cammina nella direzione sbagliata.
I vaccini (che si trasformano sempre al singolare nella comunicazione pubblica) accompagneranno una ripresa di alcune attività, senza che sia ipotizzabile immaginare i tempi. La didattica in presenza, la possibilità di manifestare senza stare fermi in presidio (la ripresa dei cortei quindi), le attività culturali (cinema, teatri, concerti), le riunioni e i convegni in presenza: tutto questo non è scontato, neanche nelle abitudini delle persone.
Il 2020 si chiude con la certezza che la Covid-19 non ha messo in discussione il sistema. Ha evidenziato il principio che le vite meritano di essere salvate anche oltre i calcoli economici, ma cinicamente si potrebbe dire che altrimenti sarebbe stata la fiducia nei confronti del sistema stesso a vacillare.
Il 2021 offrirà l’opportunità di evidenziare le contraddizioni delle società, provando a sviluppare consapevolezza sula necessità di tornare a discutere di visioni del mondo e della vita. Dovrà essere fatto a piccoli passi, parzialmente, sapendo che in realtà ogni crisi è l’occasione per chi ha il potere di rafforzarlo, senza bisogno di letture tese a vedere complotti (che pure vengono percepiti come più credibili di un’alternativa allo stato di cose presenti).
Jacopo Vannucchi
In agosto 2019 si poteva leggere che il calo del 20% nelle vendite di camper negli Stati Uniti suonava un ulteriore campanello d’allarme per una «recessione dietro l’angolo». A novembre la prospettiva di una recessione era apertamente discussa, anche se, ancora nei primi giorni del 2020, la statistica rilevava come per la prima volta dopo la guerra di secessione gli Stati Uniti avessero chiuso un decennio (2010-2019) senza recessione, «comunemente definita come due trimestri consecutivi di contrazione del prodotto interno lordo». Aggiungendo: «Un record che potrebbe continuare».
Per usare un linguaggio da meme web, this didn’t age well, non è invecchiato bene, ossia è stato presto, e nel peggiore dei modi, smentito. Il 21 marzo 2020 il dato settimanale sulle nuove richieste di inoccupazione negli Stati Uniti superò i 3.300.000, più che duplicati il 28 marzo. Nel corso di sei osservazioni settimanali, dal 21 marzo al 25 aprile, oltre trenta milioni di persone avevano perso la fonte di reddito (alcuni licenziati, altri a casa senza stipendio). Per un confronto, erano stati undici milioni in tutto l’anno solare 2019, mentre il precedente record su sei osservazioni consecutive era stato meno di quattro milioni, fra settembre e ottobre 1982. Da marzo, il numero di nuovi (nuovi) inoccupati non è mai sceso sotto i 700mila. È un errore chiamarla recessione da Covid-19, a meno che con ciò non si intenda che la Covid-19 ha sferrato una mazzata a un uomo già in perdita di equilibrio sull’orlo del baratro.
La qualità del 2021 e dei decenni a venire dipenderà dall’entità di impegno che i poteri pubblici profonderanno nel ricostruire un’economia meno squilibrata e una società meno diseguale. Questa entità è misurabile non sulla quantità della spesa pubblica – di cui il governo degli Stati Uniti, ad esempio, non è mai stato parco, nella forma di sussidi o di minori tasse – ma sulla destinazione di questa spesa: se cioè si ingrasseranno i profitti di aziende oligopolistiche o monopolistiche che hanno avuto dalla pandemia un’ennesima impennata di ricavi, o se si forzeranno queste aziende a perdere la posizione distorsiva del mercato e a contribuire al benessere sociale generale.
Alessandro Zabban
La necessità di legare all’anno 2020 le sventure scaturite dal propagarsi dell’epidemia di Covid-19 è comprensibile, così come non si fa fatica a capire come l’avvento del 2021 venga associato immediatamente alla classica luce in fondo al tunnel che tutti vorrebbero scorgere. La speranza è un’attitudine che deve essere incoraggiata in momenti difficili ed è chiaro come, nonostante non vengano taciute tutte le incognite che accompagnano la fase che si sta aprendo, regni complessivamente un tipico ottimismo della volontà.
Ma chi anche nel piccolo è abituato a riflettere sul futuro delle nostre società non può non rimarcare quanto frettoloso rischi di essere associare una convenzione di calendario, come il passaggio da uno all’altro anno, con gli eventi storici nei quali si è inseriti e sui quali non c’è ancora modo di riflettere a posteriori. Alimentare speranze è utile nel breve periodo ma alla lunga necessita di risultati concreti, altrimenti si rovescia nel suo contrario.
La speranza che viene socialmente prodotta oggi si nutre di simboli e convenzioni ma è troppo spesso del tutto decontestualizzata da ogni analisi politica e sociale. Viene alimentata da miti salvifici, come quello dell’innovazione tecnologica, ma non genera forme utopiche che orientano il miglioramento collettivo e il superamento delle crisi tramite trasformazioni sociali e politiche profonde. Non importa se il vaccino salverà il 2021 o no, qua stiamo entrando in una fase della società globale del rischio, che forse nemmeno U. Beck poteva prevedere diventasse tale in tutta la sua portata in così breve tempo, in cui l’allerta per la comparsa di nuovi virus trasmissibili da uomo a uomo, è solo uno dei pericoli che esistono sullo sfondo dei potenzialmente catastrofici cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo. Se dal Covid-19 ci potrebbe anche salvare un vaccino, dai meccanismi che hanno generato uno stato permanente di rischio l’unica salvezza è di smetterla di cullare speranze passive e ritornare sul terreno del ripensamento politico profondo degli stili di vita, delle abitudini sociali e delle convenzioni culturali.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.