Anche se lentamente sembra che stiamo tornando a una sorta di normalità, il virus ha scoperchiato uno dei nostri maggiori tabù. La morte. Ha rievocato, ogni giorno ai notiziari, sui social media, sulle pagine di giornale, il fantasma della morte e della vecchiaia.
La morte ci accompagna sempre, almeno a livello inconscio. È la nostra paura più atavica e tutte e tutti in qualche modo sentiamo in un angolo del cervello che la nostra vita è limitata. Sicuramente in chi è anziano questo pensiero si fa più acuto, a volte diventa un peso gravoso, debilitante, una sofferenza lancinante. Ma in ciascuno di noi è annidata questa paura, questa tragica consapevolezza. Soltanto che abbiamo cercato in tutti i modi di mascherare questa consapevolezza demandandola all’infinito. La chirurgia estetica ci offre la possibilità di rimandare o camuffare il nostro invecchiamento, illudendoci di poter non invecchiare mai; i progressi nella medicina e nella tecnologia riescono a riprodurre tessuti e parti del nostro corpo lese, riescono a trapiantare organi feriti o che hanno smesso di funzionare sostituendoli con organi funzionanti, riescono dunque a ridare vita laddove c’è morte, ripristinando le funzioni di corpi che funzionano meno bene di altri. Tutto questo ci dà la sensazione di essere quasi indistruttibili, di poter mettere sotto scacco la morte, o comunque di poterla rimandare, di poterla rimuovere, di renderla più vulnerabile, meno minacciosa, di spogliarla un po’della sua forza, della sua potenza distruttiva. Ovviamente è un’illusione quella di poterla sconfiggere, perché alla fine, prima o tardi, vince sempre lei.
Ora la pandemia ci ha sbattuto in faccia la morte in tutta la sua pericolosità, in tutta la sua brutalità. E stavolta la morte non è quella lontana delle persone che muoiono in mare, non è quella solo statistica e numerica delle morti sul lavoro, dei morti per incidenti stradali, delle morte per femminicidio, dei morti per fame, guerre e miseria. Ora la morte ci tocca da vicino, o noi sentiamo di poterla toccare da vicino, di poterla incontrare ogni giorno in un contatto, sfiorando la mano di qualche passante, camminando vicino a una persona estranea, entrando in uno spazio che non sappiamo se sia stato sanificato a dovere. Certo, è anche vero che in questa nuova fase due questa paura ci fa meno paura, stiamo appunto riacquisendo una certa e rinnovata confidenza con l’esterno, con gli altri, con il nostro e altrui mondo da cui per tutti questi mesi ci siamo sentiti minacciati, da cui ci siamo distaccati per proteggere noi stessi e gli altri, dalla possibilità di contagio, dalla possibilità di ammalarsi, dalla possibilità di morire.
Sicuramente non tutti abbiamo vissuto allo stesso modo, psicologicamente ed emotivamente, le conseguenze del virus: le persone giovani probabilmente avranno continuato a sentirsi meno vulnerabili, pur acquisendo forse una maturità diversa, i più piccoli avranno fatto domande ai loro genitori su questo strano cambiamento di abitudini, su queste strane mascherine sul volto e in qualche modo avranno avuto anche loro un primo contatto con l’idea, per quanto forse edulcorata dalle risposte dei grandi, della morte, dell’andarsene via. Molte persone hanno perso i propri cari e le proprie care, i propri nonni o i propri genitori e sono proprio coloro che hanno subito una perdita che si sono dovute scontrare in maniera brutalmente drammatica con la morte. E ancor di più con la disumanizzazione della morte stessa.
La cosa infatti forse più tragica che va persino oltre il dolore della perdita stessa, è stata l’impossibilità di dare un saluto a chi se ne andava via; è la consapevolezza che chi se ne è andato/a era solo, o sola, nel momento più terrificante che esista.
Fin dall’inizio della storia del genere umano la morte è stata accompagnata da un rituale. Un rituale che serve a interiorizzare e, forse elaborare, il lutto. Ogni popolo ha un suo particolare rituale, un particolare accompagnamento alla morte, fin dall’inizio dei tempi il lutto è consistito in pratiche sociali, rituali. Nel corso della storia il culto della morte è cambiato parallelamente alla variabile evoluzione del concetto di vita oltre la morte. Se per i più antichi popoli primitivi i rituali dovevano assicurare l’impossibilità per il defunto di interferire in qualsiasi modo con i viventi, poiché si riteneva che fossero vendicativi nei confronti di chi continuava a vivere, e si assisteva quindi a sepolture a testa in giù di defunti legati e coperti di pietre, risale al paleolitico il concetto della sopravvivenza dello spirito oltre la morte e quindi durante i primi rituali di sepoltura: si lasciavano nella tomba oggetti personali e utensili, armi per continuare a combattere, spesso si componevano giacigli con fiori e piante medicinali. L’uso dei cimiteri veri e propri iniziò circa 12.000 anni fa[1].
Gli uomini primitivi seppellivano i propri morti dotandoli quindi di un corredo, l’insieme di tutti quegli oggetti che sarebbero potuti servire anche nell’al di là.
Nella Mesopotamia i defunti venivano invece sotterrati nel sottosuolo, laddove si riteneva si trovasse l’oltretomba garantendo uno sbocco, un’apertura, un accesso verso il mondo degli inferi, onde evitare che lo spirito rimanesse per sempre intrappolato nel mondo dei vivi errando senza meta e senza quiete, sfogando sui vivi il proprio patimento. Non seppellire i defunti era considerata una pena gravissima riservata solo a chi aveva commesso irreparabili colpe o a un defunto considerato particolarmente ostile durante la sua vita.
Gli antichi egizi come è ben noto credevano con convinzione nella vita ultraterrena e pertanto si erano dotati di complessi rituali e metodi di sepoltura e conservazione dei corpi. Per poter continuare a vivere nell’aldilà era necessario mantenere intatto il proprio corpo e da qui deriva la tecnica della mummificazione permettendo all’anima del defunto di continuare a vivere nel corpo imbalsamato. Nella tomba o nel sarcofago (la tomba dei re e delle regine) venivano introdotti profumi, cibo, suppellettili di qualsiasi tipo, molti appartenenti alla quotidianità del defunto o della defunta o che avrebbero potuto essere utili nell’oltretomba. Chi ha avuto la fortuna di recarsi al Museo Egizio di Torino avrà notato come nelle tombe rinvenute appartenenti alle donne si possono ammirare gioielli, fermagli, spazzole, monili, e altri oggetti atti alla cura e alla bellezza del corpo. Insieme a cibo e utensili vari veniva introdotto anche un modellino di una barca che sarebbe servita per il viaggio nell’aldilà.
La tecnica della mummificazione poteva essere praticata per vie naturali, grazie alle tombe sabbiose e ventilate che asciugavano il corpo, o tramite l’imbalsamazione, procedura ancora oggi non del tutto nota. I sacerdoti rimuovevano tutti gli organi interni, tranne il cuore, in quanto considerato la sede del pensiero e delle emozioni, artefice di tutte le azioni e di tutti i sentimenti, e, in quanto tale, avrebbe conservato questo un ruolo eminente anche nella vita ultra terrena. Dopo l’asportazione degli organi avvolgevano il corpo in bende di lino e accanto al corpo mummificato venivano posti dei vasi, i canopi, raffiguranti i quattro figli del dio Horus – Asmet, Duamfet, Kebehsenuf, Hapy – ciascuno dei quali avrebbe contenuto un organo del defunto. Il cervello veniva gettato via e infine veniva praticata la cerimonia della psicostasia, la “pesatura del cuore”, o la “pesatura dell’anima”. Secondo il capitolo 125 de Il libro dei morti e anche raffigurazioni rinvenute nelle tombe, il dio Anubi poneva su un piatto della bilancia il cuore del defunto, mentre sull’altro piatto veniva posta una piuma, simbolo di Maat, dea della giustizia, della verità. Thot, il dio della saggezza valutava l’esito della pesatura: se il cuore riusciva a bilanciare la piuma, sarebbe stato considerato degno dell’al di là, in caso contrario sarebbe stato dato in pasto ad Ammit un mostro sommatoria di tutti gli animali considerati più pericolosi. Infine Osiride in trono decretava il suo giudizio sulla sorte del defunto.
Gli etruschi ritenevano che i morti continuassero la vita nell’al di là all’interno delle loro stesse tombe che pertanto venivano riempite come si trattassero delle loro abitazioni e quindi con tutto il necessario che una dimora può avere quando siamo in vita: cibo, utensili, vestiti, attrezzi, oggettistica varia, ciotole ecc, insieme a tutti i simboli che rappresentavano lo status sociale di colui o colei che era morto/a. le pareti delle tombe venivano affrescate con scene della vita quotidiana, come banchetti, giochi, danze. Necropoli significa proprio città dei morti, perché si tratta veramente di una specie di villaggio in cui le tombe rappresentano le case dei morti nell’al di là.
Per quanto riguarda il solo culto dei morti nella Grecia Antica si potrebbe scrivere un articolo apposito, qui preferiamo riassumere alcuni dei tratti salienti. La morte per i greci era una fatalità cui nessun mortale poteva sfuggire, soltanto agli dei era concessa l’eternità, che per il resto vivevano le stesse passioni degli uomini e interagivano con questi, delineando e determinando i loro destini. O meglio, anche il rapporto con la divinità è molto complesso e cambierà notevolmente, come si può evincere dalle tragedie greche: in quelle di Sofocle e soprattutto in quelle di Euripide l’uomo si vestirà di un protagonismo e una consapevolezza maggiori, tanto da permettersi di sfidare gli stessi dei e mettere in discussione il loro arbitrio e il loro potere.
Ad ogni modo, in generale, per i greci la morte non coincideva con il momento in cui si arrestano le funzioni biologiche bensì rappresentava un passaggio a una diversa e nuova condizione, per questo i riti funebri erano ritenuti indispensabili e rivestiti di sacralità. In mancanza di rito funebre il morto è costretto a vagare senza pace e senza tregua, respinto da un mondo all’altro. “Dammi sepoltura al più presto, ch’io varchi la porta dell’Ade. / Mi respingono indietro le altre anime, le ombre dei morti, / non mi permettono ancora di unirmi loro oltre il fiume, / ma invano io mi aggiro davanti all’ampio portale della casa di Ade. / Su, dammi la mano, mai più nel futuro / tornerò dall’Ade, quando m’avrete onorato col fuoco”[2]. Queste la parole che implora Patroclo comparso in sogno ad Achille esortandolo a seppellirlo al più presto per accedere all’aldilà e porre rimedio a questa sua condizione di sospensione, limbo tra i due mondi.
Dunque per l’antica civiltà mediterranea dare degna ritualità funebre ai defunti era uno dei massimi doveri e la mancata sepoltura costituiva una delle più grandi pene da infliggere a una persona.
Basti pensare all’Antigone di Sofocle e alla sua battaglia contro Creonte – re di Tebe – per dare sepoltura al fratello Polinice, in nome delle leggi del cielo e non di quelle terrene, incorporate dal volere del re di Tebe che attraverso un decreto aveva vietato gli onori funebri e la stessa sepoltura a colui che si era reso colpevole di aver assediato la città. “L’editto non era di Zeus; e la giustizia, che siede accanto agli dèi di sotterra, non ha mai stabilito tra gli uomini leggi come queste. Non ho ritenuto che i tuoi decreti avessero tanto potere da far trasgredire a un mortale le leggi non scritte, immutabili, fissate dagli dèi. Il loro vigore non è di oggi né di ieri, ma di sempre; nessuno sa quando apparvero per la prima volta. Non potevo per paura di un uomo, rispondere di questa violazione alle divinità”[3]: così parla Antigone, nei versi dell’omonima tragedia sofoclea.
L’antico rituale del rito prevedeva che per prima cosa il defunto venisse lavato e profumato con oli, avvolto dentro un sudario ed esposto. Accanto alla salma vegliavano cantori, parenti, compagni e amici. Durante l’esposizione del cadavere o durante la cerimonia funebre erano cantati il treno e l’epicedio, ovvero i carmi funebri in encomio del defunto. Poi si poteva decidere di bruciare il cadavere oppure sotterrarlo in una fossa insieme a suppellettili e oggetti cari o rappresentanti il suo status sociale.
I riti funebri non avevano soltanto il ruolo di “traghettare” i morti nell’aldilà ma anche quello di ricompattare la comunità dei familiari che hanno subito la perdita, mostrando all’intera comunità sia il proprio attaccamento al defunto che la rinsaldata unità familiare, resa più compatta appunto, dopo la perdita del caro. Lo stesso momento del pianto fa parte di questo rituale. Pianto che non è libero sfogo di dolore ma un momento sancito dalle regole della comunità, un momento imprescindibile cui la famiglia non può e non deve sottrarsi. Come ha scritto l’antropologo Marcel Mauss, si parla in questo caso di “espressione obbligatoria dei sentimenti”, si tratta di un copione che si deve “recitare” secondo norme precise, secondo, appunto, un preciso e specifico rituale. Infatti, dopo un primo momento rappresentato dal coro scomposto di cui si facevano carico le donne (attraverso espressioni enfatiche, sonore, smodate, addirittura graffi e percosse, testimoni del miasma, la contaminazione che la morte del defunto lascia… Il tutto un po’in contraddizione con l’ideale di moderazione e misura tipico del pensiero greco e degli stessi canoni di bellezza e armonia), nel momento vero e proprio del lamento funebre, il pianto (il goos) diventa un vero e proprio canto, una cantilena ordinata.
Se però nella Grecia Arcaica il lutto era privato (cioè ristretto alla famiglia e ai cari del defunto) dal IV secolo a.C, nell’Atene di Solone e Clistene si pone fine ai rituali plateali e alle manifestazioni di dolore smodato da parte del gruppo aristocratico della famiglia del defunto e gradualmente il lutto privato diventerà sempre di più un lutto pubblico, un affare dell’intera polis. Il ricordo e l’elogio del morto sarà affidato a monumenti funebri o a momenti cerimoniali di tutta la comunità ed è con l’avvento della democrazia ateniese che questo dovere da parte della città di farsi carico del cordoglio per un defunto tocca il suo apice maggiore. L’organismo statuale regola il lutto pubblico, la cerimonia per i caduti in guerra, come si legge nel secondo capitolo delle Storie di Tucidide assume le sembianze di una sorta di “funerale di Stato”. Questo, pagato dalla comunità prevede che le ossa dei morti in battaglia siano raccolte in numero proporzionale al numero delle tribù civiche (dieci) e che il commiato non sia più semplicemente affidato a un pianto (Goos) o a un canto funebre (il threnos) bensì a un discorso pubblico proclamato da un personaggio di rilievo, chiamato epitafio, ovvero “discorso sulla tomba”.
Questi sono solo alcuni squarci di esempi di culto di morti, ma ci fanno comprendere come le più antiche civiltà, pur con le loro differenze avevano i propri riti di accompagnamento dei defunti e il proprio culto dei morti e anche oggi, in qualsiasi parte del mondo ogni comunità ha le sue personali pratiche di morte, non necessariamente dettate soltanto dalla religione, sebbene spesso siano a questa molto legate.
Purtroppo ai tempi del Covid-19 questo accompagnamento è risultato impossibile. Si è morti da soli. I cari non hanno ricevuto un ultimo saluto. La morte non ha avuto il suo rituale. Chi è rimasto non ha avuto il tempo, né lo spazio, né il modo di viversi pienamente e, per quanto possibile, più serenamente il lutto.
Se la morte spesso rappresenta un momento di caos l’accompagnamento del morente costituisce lo sforzo di inscrivere in esso un significato attraverso presenza, parole, gesti rituali. Il lutto inizia già con questo accompagnamento. Cechov diceva “seppellire i morti per riparare i vivi”, perché senza possibilità del lutto la perdita, la morte, si dilateranno all’infinito anche nei vivi, e spesso possono trasformarsi in fantasmi, in sensi di colpa, in rimorsi e rimpianti, per le ultime parole non dette, per gli ultimi abbracci non dati, per le scuse mai più proferite. Morire da soli è una estrema disumanizzazione sia dei morenti che di coloro che rimangono a piangerli senza averli potuti piangere nel momento dell’addio. La sofferenza a volte compromette la capacità di parlare, agire ed esprimersi, ma non si deve rinunciare definitivamente a parole e azioni personali quando si tratta della morte di altri. Il simbolismo religioso e la ritualità svolgono un ruolo insostituibile nel placare la persona morente e la famiglia. È importante non morire da soli e senza parole, senza avere la possibilità di condividere l’evento della tua morte con coloro che ami.
La ritualizzazione della morte rende possibile combattere il ritorno del caos, il fallimento terapeutico, la sofferenza o l’assurdità, facendo un gesto simbolico che apre l’orizzonte del significato. La ritualità offre una densità simbolica all’atto della morte, una sorta di solidarietà con la morte, di fronte all’esaurimento della tecnica medica. Nel rito o nella celebrazione dei cari, si tratta di aiutare qualcuno a morire “vivo”, vale a dire di dare a questo passaggio una densità e una dignità umane.
Freud parlava di malinconia del lutto, o comunque scorgeva una profonda analogia tra lutto e malinconia, quest’ultima intesa come perdita dell’oggetto dalla coscienza e che produce un disinteresse abissale nei confronti del mondo esterno, una inibizione della facoltà di amare e di tutte le attività che in qualche modo ci animano e ci danno la sensazione di essere vivi, trascinando il soggetto che la prova a un auto-disprezzamento, un’auto-disapprovazione che si manifesta in una colpevolizzazione profonda, in un continuo rimprovero e persino in una delirante aspettativa di una punizione.
Se dunque “La malinconia si riferisce, in un certo senso, alla perdita di un oggetto rubato alla coscienza” (S. Freud, Malinconia e lutto), il lutto consisterebbe, semplificando ampiamente, in una sorta di riappropriazione di questo oggetto, il lavoro del lutto “è la reazione alla perdita di una persona cara”, attraverso il test, l’impatto con la realtà che ci attesta, ci conferma, ci dice l’assenza della persona perduta, il lutto prende atto di questo distacco dall’oggetto amato e perso ritirandone forzatamente gli investimenti fino a quel momento proiettati su quell’oggetto. “Questo sviluppo può essere fatto solo dal riconoscimento di ciò che è stato perso e incontra sempre resistenza: L’uomo non abbandona volontariamente una posizione libidica, anche quando ha già un sostituto in prospettiva. […] L’opera del lutto deve consentire l’accettazione di questa perdita dell’oggetto nella realtà e la riattivazione delle soddisfazioni narcisistiche legate al fatto di essere se stessi vivi: Il lutto porta il sé a rinunciare all’oggetto, dichiarandolo morto e offrendomi il vantaggio di rimanere vivo. Tuttavia, questa resistenza può essere così acuta che il lutto si allontana dalla realtà e si aggrappa all’oggetto da una psicosi allucinatoria del desiderio”[4].
L’importanza del lutto a livello psicanalitico assume apre la possibilità di renderci portatori dell’assunzione e dell’accettazione della perdita dell’oggetto amato. E forse questa accettazione può appunto essere possibile dal lavoro, dall’opera del lutto, così imprescindibile, come abbiamo visto, in ogni epoca della storia umana. Non ci sono ricette né espedienti per superare il dolore, che ci appartiene e ci co-appartiene, fa parte dell’essere umano e sarebbe un’illusione pensare di poterlo escludere. Al massimo si può rimuovere, ma non farne del tutto a meno. Ma il dolore può essere elaborato, rielaborato, interiorizzato, proprio perché vi è il lavoro del lutto, reso possibile anche da una morte dignitosa, umanizzata e umanizzante, da una con-presenza tra chi resta e chi se ne va. Altrimenti anche la morte stessa rischia di rivelare solo e soltanto il suo aspetto più agghiacciante, più aberrante, più terrificante e l’oggetto perduto si tramuta in un fantasma ossessionante, non liberato, come quegli spiriti che per i greci o i popoli antichi a cui abbiamo un minimo accennato, restano per sempre prigionieri di una dimensione limbica, erranti e vagabondi, in bilico tra un al di qua impossibile e un al di là ancora troppo distante. E quello stesso limbo lo vivono forse coloro che hanno subito la perdita senza aver potuto salutare i cari, senza avergli detto per sempre addio. Questo limbo grava anche su di loro, perché non vi è possibilità di ricomposizione, di rielaborazione, di rinuncia e di accettazione vera e propria alla dipartenza dell’oggetto amato.
Ai tempi del covid-19 i corpi sono semplicemente scomparsi. Senza neanche aver avuto modo di “presentificare” la loro morte da persone ancora esistenti, seppur in fin fi vita. La loro morte è stata come una dissolvenza, nel nulla, nella solitudine. E chi è rimasto probabilmente conosce solo il vuoto che hanno lasciato ma non quel momento, così essenziale, del lutto, dell’accompagnamento, della vicinanza, della presenza. Chi è rimasto ha vissuto il dolore di una malattia che si è estesa fino a diventare morte, ma non ha vissuto il momento della morte. È rimasto solo un nulla, un corpo evaporato nel nulla, completamente solo, che è finito per diventare un numero. Questa è forse la più grande tragedia della perdita e della morte. L’impossibilità di viverla, di assistere, di salutare, di accompagnare chi se ne sta andando. Di essere lì pur consci della propria impotenza, ma sapere di esserci, di esserci stati, fino all’ultimo.
“Come il fantasioso Sottosopra descritto nella popolare serie tv Stranger Things, questo virus dà l’impressione di far scomparire letteralmente nel nulla le persone colpite dalla malattia. Intubati e isolati nei reparti di terapia intensiva degli ospedali, i singoli individui vivono l’incubo di affrontare il decorso della malattia e, ancor peggio, di morire completamente da soli. Mancano le carezze, gli sguardi, le parole di sostegno dei propri cari i quali, a loro volta, vivono la contemporanea frustrazione di non poter più vedere e toccare i corpi delle persone amate. Non è concessa, soprattutto, la possibilità di risolvere le diatribe e le incomprensioni rimaste aperte, anche solo simbolicamente con un gesto fisico. Il Covid-19, al pari degli incidenti aerei e degli annegamenti in mare, sembra essere un infido alleato del rimpianto in quanto ci priva all’improvviso dei corpi. Lascia le vicende personali sospese nel nulla, non manifestando pietà nemmeno nell’immediato post-mortem”[5].
Il lavoro del lutto è necessario perché permette di localizzare i morti, di idenfiticarli, di ontologizzare i resti, per dirla con Derrida. Rendendo presenti i resti dei defunti in qualche modo, sostiene l’autore francese, li semantizziamo, scacciamo i fantasmi che diventerebbero ingestibili, che ci perseguiterebbero nei sogni, mentre se dotiamo questi resti di un’ontologizzazione è come se li congelassimo in una sorta di incantesimo che rimuove la totale alterità della morte in chi è morto. Poter piangere la morte di una persona significa anche, in parte, cancellare il suo insondabile mistero, incorporarlo, prenderlo su di sé, annullando la sua agghiacciante alterità.
“«Quando siamo in lutto – osserva Marina Sozzi – è come se fossimo strabici: un occhio è orientato a fare i conti con la perdita, a ripensare al defunto, a coltivare la memoria. L’altro, invece, si occupa della vita che continua, della costruzione, della riscoperta dell’universo esterno». Lo sguardo del dolente, da una parte, si muove a ritroso verso il mondo concluso, prendendo così coscienza della sua fine; dall’altra, è proteso in avanti verso il nuovo mondo che sta nascendo, in vista della lenta riconfigurazione della propria identità. Il rito funebre, nel momento in cui celebra e registra la separazione dei morti dai vivi, tenta di armonizzare le due direzioni opposte verso cui si dirigono gli occhi del dolente. Come osserva Jacques Derrida, il suo scopo è ontologizzare i resti: identifica le spoglie e localizza i morti. La mancata celebrazione del rito funebre e la scomparsa improvvisa dei corpi possono, pertanto, creare danni duraturi in coloro che hanno sofferto la perdita, rendendo altrettanto permanente il loro strabismo momentaneo”[6].
Localizzare i morti, dar loro un saluto, renderli presenti nella loro assenza, donare presenza a questa stessa assenza, significa dotarli di significato, di un’immagine. Nel lavoro del lutto il mondo cessa di essere e inizia ad apparire. L’immagine in questo caso rivendicherebbe un’autenticità maggiore perché conosce e vive “la distonia che si è prodotta, certo, empiricamente, ma che, per la dirompenza del mondo emozionale che comporta, segna un’altra marca esistenziale di pensiero […] il linguaggio delle immagini ritornanti nel lutto lievita una trascendenza di senso dentro l’immanenza, un valore aggiunto irriducibile alla logica del fatto, un capitale di relazione che trasborda rispetto al piano stesso dell’esperienza. L’immagine dell’altro riveniente, liberato e libero dalla morte, è un’immagine innanzitutto libera dalla mimesi, un’immagine che addita un’ulteriorità in cui è possibile reimmaginare il mondo”[7]
In realtà Derrida parla anche di impossibilità del lutto, in particolare riferendosi alla perdita di un amico, ma che si potrebbe allargare parlando in generale per la perdita di una persona molto cara.
Secondo il filosofo decostruzionista quando si perde un amico non crolla solo il proprio mondo ma la totalità stessa del mondo.
“Ciò che provo” scrive Derrida “alla morte di chiunque, e in forma più intensa e incomprimibile alla morte di un amico o di una persona […] è proprio che […] la morte dell’altro, soprattutto se lo si ama, non è l’annuncio di un’assenza, di una sparizione, la fine di questa o quella vita, cioè della possibilità di un mondo (sempre unico) di apparire a un vivo. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di tutto il mondo possibile, ed ogni volta la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita”[8].
Quando muore una persona non crolla solo il mondo che apparteneva a lei: la morte di una persona rappresenta la fine non di questo o di quel mondo, ma di tutto il mondo, di tutti i mondi possibili e il mondo come totalità di tutti i mondi possibili. Se dunque a cadere è il mondo nella sua totalità unica e infinita secondo Derrida anche il lutto diventa infinito e pertanto impossibile. Sarebbe un lutto interminabile. Per il filosofo francese “questo carattere impossibile del lutto, questo suo sottendere a un andamento dialettico senza composizione e senza sintesi, è la struttura fondamentale della nostra esistenza e informa di sé tutte le forme di vita che ci vedono impegnati […], a tutte le forme del vivere-insieme. L’esercizio del lutto non si limita, infatti, a mettere in risalto il carattere spettrale dell’esistere umano, ma esibisce l’impossibile stesso di cui è costituito: la ripetizione dell’irripetibile. Noi siamo obbligati a ripetere ciò che non si può ripetere: se è vero che ogni volta che un amico muore scompare il mondo come totalità unica e infinita, allora noi siamo chiamati ogni volta alla ripetizione di questa fine del mondo. Noi non ripetiamo il mondo così come quando si manifestava al morto e a noi, né tantomeno ridiamo vita al morto, bensì di entrambi ripetiamo la scomparsa totale e definitiva”[9].
Eppure qualcosa resta, secondo Derrida. E quel che resta sono i resti, appunto. Come gli amabili resti dell’omonimo romanzo di Alice Sebold, poi adattato cinematograficamente da Peter Jackson. E questo resto siamo noi, i “sopravviventi provvisori”, provvisori in un doppio significato: provvisori perché collassati dentro il collasso, dicevamo prima, dell’intera totalità del mondo e quindi più come attestanti un sovrappiù di morte che di vita e provvisori perché destinati biologicamente a morire anche noi, presto o tardi che sia.
Se possiamo in parte condividere il pensiero tragico di Derrida e percepire come perdita totale del mondo la perdita di una persona cara (per il filosofo incarnata dalla figura dell’amico) potremmo altresì provare a spostare l’accento su questa transitoria provvisorietà sopravvivente. La nostra sopravvivenza, per quanto in parte risucchiata dalla perdita del caro e dunque del mondo, rimane il resto che abbiamo. È il resto che resta quando qualcuno che amiamo se ne va. Sopravvivenza che probabilmente risulta ancor più dolorosa quando non si è potuto dire neanche addio alla persona che ci ha lasciato.
È forse questo l’aspetto più doloroso della morte ai tempi del coronavirus. L’impossibilità del lutto di cui parla Derrida in termini filosofici, è diventata un’impossibilità reale del lutto. Il lutto è risultato fattivamente impossibile e quindi, paradossalmente, può risultare impossibile la stessa im-possibilità del lutto, nel senso derridiano del termine: se per lui il lutto è possibile nella sua impossibilità, consistente nel suo ripetersi all’infinito, chi non ha vissuto il lutto non può ripeterlo all’infinito, dunque non esiste proprio l’im-possibilità insita nella possibilità stessa del lutto. Si arriva all’aporia del lutto. Un lutto impossibile anche nella sua stessa impossibilità.
Non si può immaginare quello che provano coloro che hanno perduto in questo periodo le persone che amavano, ma si può intuire un dolore che va oltre la consapevolezza della morte e della perdita stessa. Una doppia assenza, per chi se ne andava e per chi restava.
Un’altra cosa su cui in parte, e drammaticamente, ci induce a riflettere questo tempo “pandemico” è il nostro rapporto con la morte e con il lutto. Un rapporto che è stato segnato, come accennavamo in apertura di articolo, da decenni di rimozione sociale e culturale della morte. Un rapporto che va recuperato, fosse anche per sentirci maggiormente preparati ad accogliere la possibilità della morte, anzi, la certezza della morte e, per quanto forse non saremo mai davvero pronti ad affrontarla e a interiorizzarla, dovremmo cullare, coltivare, prenderci cura dei nostri resti, e di quella “sopravvivenza provvisoria” che ci testimonia, dolorosamente ma lucidamente, il nostro effimero passaggio su questa terra.
Immagine da www.wikipedia.org
[1] http://www.attidellaaccademialancisiana.it/146/19/articolo/Prolusione-Il-culto-della-morte-nei-secoli-ieri-oggi-e-forse-domani
[2] Iliade, XXIII, 71-76.
[3] Sofocle, Antigone,vv. 450-460 in Sofocle, Tragedie e frammenti, a cura di G. Paduano, Utet, Torino 1982.
[4] https://www.revue-interrogations.org/Introduction-a-la-definition (cit. trad mia)
[5] https://www.doppiozero.com/materiali/la-morte-al-tempo-del-covid-19
[6] Ibidem.
[7] Aldo Giorgio Gargani, Il linguaggio davanti alla poesia, Anterem, n. 74, 2007, p. 11.
[8] J. Derrida, Ogni volta unica la fine del mondo, Jaca Book, Roma 2005, p.11.
[9] B. Moroncini, Vi amo e vi sorrido da dove io sia. Ricordo di Jacques Derrida, p. 22 in Quadranti. Rivista Internazionale di Filosofia Contemporanea, Volume n. 2, 2014.
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.