Per la prima volta la piattaforma Rousseau si esprime contraddicendo e smentendo le indicazioni fatte filtrare dal capo politico Luigi Di Maio, evidenziando una fronda interna piuttosto rilevante nel M5s. Il 10 mani di questa settimana affronta l’importante nodo politico nel movimento di Grillo e Casaleggio.
Leonardo Croatto
Mentre il maldestro tentativo di rappresentarsi diversi dalle organizzazioni politiche novecentesche si è ormai ridotto a una farsa, le dinamiche interne del Movimento 5 Stelle stanno sempre più assomigliando a quelle che ricordiamo (con nostalgia, diciamocelo!) nei partiti della prima repubblica: gerarchia verticalissima, dirigenze organizzate per correnti costantemente in lotta tra loro, organismi direttivi vivacissimi, una base che si interroga su quanto e se le lotte tra il personale politico di professione hanno a che fare con le idee e quanto con l’ambizione, il tutto condito con scandaletti di piccolo cabotaggio.
Mentre il Movimento spende tutte le sue energie per dimostrare – provandolo su se stesso – che non esiste forma diversa dal partito primorepubblicano che possa dare efficiente struttura organizzata alle idee politiche, la Lega ha sviluppato, autonomamente, la sua dimostrazione scientifica dello stesso fenomeno: mentre gli altri partiti sperimentavano forme alternative (possiamo citare in questa sede l’esperimento veltroniana di americanizzazione del PD) l’ex Lega Nord non ha mai mutato la formula del partito organizzato classicamente, dimostrando coi numeri la validità del metodo.
La pratica insegna, quindi, che sarebbe forse utile, a sinistra, finirla con le sperimentazioni estemporanee e provare a rimettere in piedi dei soggetti collettivi e plurali capaci di ospitare idee disomogenee, organizzati dal basso verso l’alto, con spazi di partecipazione democratica funzionanti, capaci di selezionare e formare classe dirigente di qualità con percorsi interni impegnativi e valorizzanti e con anticorpi in grado di stroncare le spinte individualistiche dei singoli tutelando il collettivo, se ci interessa rimettere in piedi qualcosa di non solo votabile ma, soprattutto, di vivibile e abitabile.
Piergiorgio Desantis
L’esito della votazione della piattaforma Rousseau, ovvero la scelta di presentare liste per le elezioni dell’Emilia Romagna, ha fatto ammettere per la prima volta a Luigi Di Maio che il movimento attraversa «un momento di difficoltà». Questo voto elettronico complica tutti i piani dei dirigenti del M5s e del Pd che stentano ad avanzare una comune azione di governo che, in verità, non è mai decollata ma appare, giorno dopo giorno, un bricolage. Ciò palesa l’esistenza anche di una minoranza “rumorosa” interna al M5s, che non è la presunta sinistra interna facente capo al presidente della Camera Roberto Fico, piuttosto fa riferimento a figure che sono state tagliate fuori dai ministeri nel Conte bis (Lezzi, Toninelli). Tale minoranza può avere un ruolo nella tenuta del governo stesso, visti anche i numeri risicati al senato. Più in generale, la stessa situazione politica ingarbugliata sembra favorire, ancora una volta, la pur resistibile ascesa delle destre verso il governo.
Dmitrij Palagi
Ci si continua a illudere che il problema dei partiti sia nella loro incapacità di ripensarsi alla luce del XXI secolo. In parte è vero, ma nella società i mutamenti sono stati tali e così profondi da mettere in difficoltà l’idea stessa di organizzazione sociale. Il Movimento 5 Stelle, così come qualsiasi realtà collettiva, misura il problema del prendere decisioni su contesti in cui si ritrova privo di completo controllo. Se si governa il Paese è logico volersi presentare anche per contendere il governo di una Regione. Le elezioni sono il momento in cui si misura il consenso del proprio agire all’interno della società, secondo quando prevede la società. Surreale è l’ipotesi di non presentarsi e razionalmente è bene considerare inevitabile l’esito della consultazione su Rousseau. Epoche di rapporti mediati diversamente da come previsto dalla Repubblica, in Italia, li abbiamo già visti. Quando scendere in piazze con le bandiere non sarà considerato un problema, quando si sarà ricostruita la credibilità della dimensione collettiva organizzata e non estemporanea, potremo avere più speranza per il futuro del Paese… Nel frattempo si avvicinano le elezioni per l’Emilia Romagna e sarebbe bene ricordarsi la percentuale di affluenza alle regionali precedenti (37,71%)…
Jacopo Vannucchi
Non appartengo alla schiera di coloro che ritengono la partecipazione autonoma del M5S un danno, ipso facto, per il centrosinistra. È evidente che il M5S ha, checché se ne dica, un elettorato assai più simile a quello leghista che a quello del Partito Democratico: prova ne sia che l’alleanza con la Lega fu scelta come strategica dopo il successo del 4 marzo 2018, mentre quella con il PD è figlia di una condizione di debolezza. L’assenza di liste a cinque stelle, e la confluenza del Movimento in un’alleanza organica coi democratici, porterebbe verosimilmente a un’ulteriore fuga di voti verso la destra. In Umbria, del resto, l’esperimento non è riuscito.
Ma la distinzione, sulla scheda, tra M5S e centrosinistra è utile non soltanto dal punto di vista del mero conteggio numerico dei voti. Le due forze hanno elettorati diversi perché esprimono visioni del mondo diverse, culture diverse, priorità politiche diverse. Tenere ben presente queste distinzioni aiuterà a scongiurare la pericolosa illusione di una convergenza naturale, e a mettere in campo invece una strategia più articolata.
A questo proposito, si nota con costernazione come il governo Conte II ripercorra la sorte di illustri predecessori come il Prodi I (1996-98) e Prodi II (2006-08): in poche settimane gli originari entusiasmi si afflosciano, e autorevoli dirigenti politici si affannano nell’invocare il “cambio di passo”, la “fase due”, eccetera. Nessuno però prova a farlo: il M5S per le proprie divisioni interne, il PD forse per capacità non all’altezza. Il tentativo di Italia Viva di rilanciare la popolarità del governo è stato accolto da un fuoco di fila, nella miglior tradizione autolesionista (e forse masochista) di tanti ex Ds (ma non solo).
Giuseppe Conte continua ad essere un fantoccio, ma perlomeno nel suo primo governo c’era il Ministro dell’Interno che lo animava. Oggi questa forza attiva manca. L’andare divisi alle regionali può dunque aiutare il PD a capire di dover contare principalmente sulle proprie forze e, magari, a essere più fermo nei confronti di un alleato a cui ha già fatto atto di sottomissione in materia di gravi riforme costituzionali.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.